Premio Racconti nella Rete 2014 “Indovina dove ti porto a cena?” di Marco Milan
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014No.
Avevano in pratica sentenziato così i genitori di Samuele al suo annuncio. Una riedizione dell’incontro fra i Bravi e don Abbondio, e il famoso ritornello sul matrimonio che non s’aveva da fare ma che poi si fece ugualmente.
Samuele aveva 30 anni, una laurea in Medicina e Chirurgia con specializzazione in Logopedia ed un lavoro stabile appena trovato presso un centro di riabilitazione per bambini dislessici. Era andato ad abitare da solo in una bellissima mansarda nel pieno centro di Chieti, la città dove era nato e cresciuto. Un ragazzo con la testa sulle spalle, buono e generoso. Fermandosi a riflettere con un bicchiere di vino rosso in mano, riavvolse il nastro degli ultimi mesi della sua vita, come in un film le immagini da sfocate divennero nitide e Samuele, occhi socchiusi, si abbandonò ai flashback della pellicola di cui egli stesso era regista, produttore ed attore principale: in una fresca mattinata di settembre, per caso, in piazza Trento, una delle più famose della città, Samuele aveva conosciuto Hanna, una bellissima ragazza etiope di 31 anni. Lui le era andato addosso senza volerlo, mentre armeggiava immerso nel suo zaino, alla frenetica ricerca del cellulare che intanto vibrava impazzito. Il ragazzo aveva urtato la bella mulatta dai capelli ricci e voluminosi, il corpo dalle forme sinuose, il sorriso leggero e sincero. “Oddio scusami, guarda che disastro che ho fatto”, si era subito scusato Samuele quando si era reso conto di averle fatto cadere la cartellina che teneva in mano, rovesciandone a terra l’intero contenuto; il poveretto aveva cercato di raccogliere tutti i fogli che svolazzavano qua e là, tentando di non stropicciarli troppo. Hanna nel frattempo lo aveva guardato con curiosità ed un pizzico di ironia, notando la goffaggine con la quale si dava da fare per porre rimedio al danno. La ragazza aveva pensato anche che quel tipetto minuto non era affatto male: bassetto, d’accordo, ma con quei lineamenti del viso ben marcati, la pelle scura mediterranea, gli occhi neri profondissimi, i capelli castani lisci e fini, il fisico atletico e ben curato. “Ecco, li ho raccolti tutti! E scusami ancora!”, le aveva detto dopo essersi rialzato ed aver spolverato i suoi jeans. Lei aveva risposto in un italiano perfetto: “Non ti preoccupare, non è successo niente”. Poi aveva sorriso e lui di sasso, si era sentito avvampare e in un secondo aveva deciso che quella ragazza voleva frequentarla, conoscerla.. Avevano iniziato a parlare, prima che lui la invitasse per un caffe’…lungo..per un tempo sembrato brevissimo,durante il quale le raccontò brevemente la sua storia, l’università, il lavoro, la casa, la sua passione per la chitarra. Arrivò la volta di Hanna: “Vengo da Bahir Dar, una città dell’Etiopia. Mi sono trasferita in Italia quando avevo 10 anni, ho vissuto a Napoli e poi mi sono stabilita qui a Chieti. Due mesi fa ho innaugurato assieme ad una mia amica un ristorante etiope qui in città; sai, la mia amica è cuoca, come mia mamma del resto, ed io ho imparato da entrambe ricette e segreti dell’arte culinaria della nostra Terra”. Dopo quell’incontro ne seguirono altri,timidi,emozionanti,nei quali osservarsi,scrutarsi.. fino a quando Samuele le propose una cenetta ed un film al cinema..di cui entrambi serbarono un ricordo frammentario e vago poiche’ nella mente e nel corpo erano impresse le emozioni e sensazioni di quel bacio ..preludio della notte d’amore che trascorsero insieme,alba del loro crescente legame.
Erano passati ormai cinque mesi da quella sera e Samuele aveva deciso di presentare Hanna ai suoi genitori. Lui li conosceva, persone vecchio stampo, dalla mentalità un po’ chiusa a dispetto del cuore:grande ed accogliente; ed era quest’ultimo aspetto che aveva convinto Samuele a fare quel passo senza particolari timori. Aveva cenato da loro e anziche’ il dolce, presentò loro l’annuncio: “Da qualche mese frequento una ragazza,ha la mia età,con lei sto bene e ci terrei che voi la conosceste”. I genitori erano stati felici della dichiarazione ed entusiamo del figlio, poi papà Gino aveva detto: “Sono contento, Samuele. Come si chiama questa ragazza?”. “Hanna”, aveva risposto il ragazzo.
“Ah bene!”, aveva esclamato sorridente suo padre. Poi aveva parlato mamma Elvira: “E’ brava a cucinare? Mica posso lasciarti nelle mani di una che ti prepara solo robaccia in scatola!”. Samuele aveva riso forte, per poi rispondere: “Mamma, su questo puoi stare tranquilla, Hanna gestisce un ristorante. E’ un locale tipico del suo paese”. Al che il padre aveva chiesto incuriosito: “Ah si, e di dov’è?”. Samuele si era schiarito la voce e poi aveva risposto: “Bahir Dar”. Il padre dopo aver aggrottato le sopracciglia aveva ribattuto: “Prego? Come hai detto?”. Samuele aveva spiegato: “E’ una città dell’Etiopia. Hanna è etiope”. A quella rivelazione, il padre si era rizzato in piedi e tra il disorientato e l’infastidito,sperando di aver capito male aveva chiesto: “Etiope? Vuoi dire che è africana?”. “Si. Perché? C’è qualcosa che non va?”, aveva chiesto Samuele inquieto. La mamma aveva risposto: “Ma, sai, è un’altra cultura, un’altra razza, che ne sappiamo noi di loro, e che ne sai tu di loro?”. Samuele aveva risposto fermamente: “Mamma, l’unica razza che conosco è quella umana”. Ma non era bastato a vincere la resistenza dei suoi, anzi, suo padre aveva detto: “Figlio mio, qua nessuno è razzista, ma un conto è considerare tutti allo stesso modo, un altro è fondersi completamente con un’altra popolazione, con gente agli antipodi da noi, totalmente differente. Dai, ma cosa c’entriamo noi?!”. Samuele ci era rimasto male, deluso sia per la ristrettezza mentale dei suoi genitori, sia perché non avevano minimamente preso in considerazione i sentimenti del figlio, che erano invece profondissimi. Ora, col bicchiere di vino in mano e gli occhi sempre socchiusi, Samuele rifletteva sul da farsi; sulla sua situazione si stagliavano pesanti le ombre dei suoi genitori che alzavano pesantemente le loro asce borghesi da quattro soldi e le abbattevano sul suo sogno d’amore; in nome di che cosa poi? Del timore di accettare diverse culture e diversi mondi? Come si fa ad accartocciare un foglio senza prima averne letto il contenuto? E come si fa ad accartocciarlo solo perché l’inchiostro usato per scrivere non è lo stesso di sempre? Inoltre il ragazzo aveva paura e vergogna della reazione di Hanna a quel responso: paura che lei ne soffrisse e magari si arrabbiasse, vergogna perché mostrava di provenire da una famiglia gretta e dalla mentalità arretrata di un migliaio di anni. Ma la ragazza si dimostrò ancora più comprensiva di quanto lui immaginasse, ed addirittura gli disse: “I tuoi genitori pensano che io sia una delle schiave negre del film Via Col Vento, pensano che io dica zi badrone e che non capisca niente della vita normale, della quotidianità. Pensano questo semplicemente perché nessuno ha mai dimostrato loro il contrario, nessuno li ha mai presi per mano e condotti in una realtà diversa dalla loro. Ora ci penserai tu a farlo”. Lui la guardò, sbigottito ma anche ammirato, alla fine riuscì solamente a dire: “Io? In che modo?Non credo possano capire!”. Lei lo guardò come si guarda un bambino spaventato, poi gli prese la mano e sussurrò: “Invitali al mio ristorante, quando staremo tutti insieme sarà diverso e conosceranno un ambiente nuovo. Capiranno, vedrai”. Samuele era dubbioso, quasi sconsolato: “E se invece non capissero?”. Ma Hanna non si lasciò turbare e rispose rassicurante: “Ci penseremo se e quando ciò accadrà”. Così Samuele tornò dai suoi, camminando lentamente lungo le strade ghiacciate della città, lo sguardo basso e le mani affondate nelle capienti tasche della giacca a vento blu indossata. Arrivato davanti alla casa dei genitori, si fermò, ripensando al colloquio avuto precedentemente con loro e cercando il modo migliore per comunicare. Si tolse il cappello di lana, poi lanciò uno sguardo a quello stesso giardino che lo aveva visto protagonista da bambino, spensierato e felice mentre calciava il pallone contro il cancello arancione, sognando di essere una volta Maradona, una volta Van Basten e una volta Roberto Baggio; uno sguardo che gli restituì serenità ed un po’ di coraggio. Suonò il citofono ed attese l’inevitabile risposta gracchiante, quindi varcò la soglia del giardino e si diresse verso l’ingresso dove mamma Elvira lo attendeva avvolta nella sua inseparabile vestaglia, coperta per tre quarti da un vecchio e logoro scialle grigio, appartenuto alla nonna di Samuele almeno mezzo secolo prima. Il ragazzo entrò ed attese che arrivasse anche suo padre, sepolto dietro il fedele Corriere della Sera e con gli occhiali appoggiati sul naso. Samuele non perse tempo e disse senza tanti giri di parole: “Sabato vi porto a cena da Hanna. Andiamo con due macchine, la mia e la vostra, se il posto, l’ambiente e le persone non vi piacciono, siete liberi di alzarvi e andarvene. Vi chiedo solo di provare, di fare un passo verso di me e verso Hanna. Provate ad entrare, anche solo per un momento, nel nostro mondo”. I genitori si guardarono, sorpresi da tanta determinazione, poi annuirono quasi all’unisono.
Il sabato arrivò, Samuele raggiunse casa dei suoi genitori e, come concordato, si avviarono verso il ristorante con macchine diverse: la piccola utilitaria celeste di Samuele, la familiare verde dei suoi. Giunsero davanti al locale alle 19:50, papà Gino lesse fra i denti il nome del ristorante: La perla di Amhara. Samuele si avvicinò al genitore e gli spiegò: “Amhara è la regione di cui fa parte la città di Hanna. E’ come se tu aprissi un ristorante in Africa e lo chiamassi La perla d’Abruzzo. Il padre lo guardò e disse seccamente: “Se io aprissi un ristorante non lo chiamerei mai così, ma piuttosto utilizzerei un nome più rustico, non so, Da Gino il panzone”. Samuele scosse la testa, poi invitò il padre ad entrare: “Forza panzone, entra”. All’interno, il ristorante era interamente caratterizzato da piccoli archetti dipinti di azzurro: un archetto all’ingresso, un altro lungo il corridoio, un altro ancora per accedere ai bagni e alla cucina, perfino i tovaglioli erano ripiegati ad arco. Appesa al muro del bancone troneggiava invece un’enorme bandiera dell’Etiopia, i cui colori giallo rosso e verde sembravano far riecheggiare in lontananza suoni di bonghi e danze tribali davanti ad infuocati tramonti africani. Dopo pochi secondi Hanna si materializzò, avvolta da un vestito giallo oro, stretto ai fianchi e che metteva in risalto il suo corpo flessuoso e sensuale. “Piacere, sono Hanna”, disse la ragazza sorridendo e facendo cenno ai genitori di Samuele di accomodarsi. I due balbettarono un fugace saluto, porsero i cappotti alla cameriera, quindi si misero a sedere. Hanna li guardava e sorrideva sempre, attese che i due si sistemassero, attese che anche Samuele si fosse accomodato, poi disse: “Allora, cosa vogliamo mangiare?”. Gino ed Elvira si scambiarono uno sguardo terrorizzato, allora intervenne Samuele: “Hanna, fai tu, così sperimentano questa nuova cucina. Anche perché altrimenti loro sarebbero capaci di ordinare cannelloni ed abbacchio”. Mentre Hanna si allontanava sorridendo, Gino proseguì sarcasticamente la frase del figlio: “Che probabilmente qui non sanno neanche cosa siano”, disse riferendosi ai piatti tipicamente italiani elencati da Samuele. Poi prese il tovagliolo e se lo sistemò sulle gambe, quindi iniziò a spostare tutto alla ricerca di qualcosa. Samuele lo fissava armeggiare, senza dire nulla, ma sapeva già cosa stava cercando il padre. Anche sua madre sembrava un po’ a disagio, teneva le mani giunte sulle gambe e non apriva bocca; dopo qualche istante Gino brontolò: “Ah cominciamo bene, si sono perfino dimenticati di mettere a tavola le posate”. Samuele sospirò guardando in alto, al pensiero che doveva ancora spiegare a suo padre che in Etiopia non si usano posate, ma si mangia con le mani. Intanto Hanna era tornata con acqua ed antipasti che comprendevano polpette di verdure ed altre di farina di ceci e una serie di piccole ciotole contenenti salse a base di zenzero, aglio e berberè, tipico miscuglio etiope di chili e spezie, molto piccante. Hanna spiegò per filo e per segno come erano state preparate le pietanze, i tempi e le modalità di cottura. Poi arrivò il piatto forte, il famoso Zighinì, ovvero carne di manzo stufata con aggiunta di legumi, spezie e verdure, il tutto adagiato su un letto di injera, una sorta di focaccia sottile e dalla consistenza morbida ed elastica . I genitori di Samuele guardavano il piatto, poi si guardavano fra di loro, infine guardavano il figlio come per invocare aiuto. Samuele non sapeva se ridere o piangere, ma alla fine ci pensò Hanna a rompere la tensione: si avvicinò a Gino ed Elvira e disse: “E’ la prima volta che mangiate queste cose, eh? Non vi preoccupate, è normale sentirsi estranei a questo cibo e a questo modo di mangiare, ma ora vi spiego io come fare, è molto facile. Rompete l’injera con le dita e raccogliete un po’ di carne, poi mangiatela come fate di solito con gli spicchi di pizza”. Gino iniziò a seguire i consigli della ragazza, ma il primo tentativo fallì e la bocca spalancata dell’uomo si richiuse senza cibo che andò invece a finire di nuovo nel piatto. Hanna non si scompose, anzi, offrì a Gino il suo aiuto: “Mi permette, signor Gino? Le faccio vedere”. Con movimenti svelti ed esperti strappò un lembo di injera, raccolse carne e legumi, poi imboccò Samuele, infine si rivolse all’uomo: “Vede? E’ facile, basta un po’ di pratica”. Il viso di Gino si distese ed anche Elvira sembrava più rinfrancata; provarono ad imitare Hanna, seppur con fare più lento ed impacciato, alla fine riuscirono a mangiare e gradirono non poco la pietanza “esotica”, mai gustata finora. “Devo dire – riconobbe Gino con la bocca ancora mezza piena – che questa roba non è affatto male, anzi, Elvira prendi carta e penna che ci facciamo dare la ricetta”. Hanna rise: “Si, però tenga presente che ci vuole una preparazione particolare. Magari la prima volta, signora, le dò io qualche suggerimento”. Al termine della cena, con il locale ormai vuoto, Hanna prese posto al tavolo e la mamma di Samuele le chiese della sua famiglia e del suo paese; Hanna rispose candidamente, senza imbarazzo e con sincerità: “La mia è una terra molto bella ma anche molto povera. La mia città si trova su un lago, io ho dei bei ricordi del mio paese dove torno una volta l’anno”. La conversazione si spostò poi sull’Italia, Hanna raccontò le sue esperienze scolastiche, l’apprendimento della lingua italiana e i lavoretti di cameriera e operatrice di call center, per mettere da parte i soldi necessari per aprire il ristorante. Alla fine della serata, Elvira disse: “Hanna, sei una ragazza con la testa sulle spalle, trasmetti un’aria autentica e genuina, e se nostro figlio e’ felice accanto a te,allora siamo felici anche noi!”. Anche Gino parlò: “Già, è vero, scusaci Samuele per la nostra reazione ostile! Questa serata ci ha aperto gli occhi su nuovi orizzonti e nuove culture, altro che mogli e buoi dei paesi tuoi, direi piuttosto mogli e buoi di dove vuoi!”. Risero tutti e quattro, il modo più bello per concludere una serata speciale. Davanti a casa dei genitori, Samuele si abbandonò ad un lungo e coinvolgente abbraccio con loro, li seguì con lo sguardo mentre avanzavano sottobraccio e a passi lenti verso la porta, infine li salutò con la mano quando si voltarono verso di lui per poi sparire in casa. L’ultimo gesto prima di ripartire fu quello di guardare nuovamente il giardino dove aveva trascorso l’infanzia e quel cancello martoriato da migliaia di pallonate. Stavolta fu uno sguardo sereno colmo di felicità.
Di quel giorno, Hanna e Samuele conservano ancor oggi un ricordo eccezionale, l’inizio di un legame fra due famiglie di culture e paesi diversi, così lontani ma capaci di fondersi in un’unica grande realtà, in una storia che Hanna e Samuele racconteranno, non appena sarà in grado di capire, al piccolo Thomas, nato proprio oggi.
Leggere attentamente le avvertenze prima di leggere:
NON leggere questo racconto prima di pranzo (come ha fatto chi scrive), ti fà salire l’appetito ed è una pena indescrivibile.
A parte gli scherzi è ottimamente scritto, molto semplice e diretto.
L’argomento di cui tratta è, nel bene e nel male, sempre di costante attualità ed è positivo portare all’onor del mondo tali esempi di condivisione delle altrui culture.
Alcuni la chiamerebbero tolleranza; io preferisco utilizzare il termine intelligenza.
@claudio: grazie 🙂
Ho cercato di utilizzare uno stile semplice e diretto, proprio lo stesso stile che amo leggere. L’argomento è purtroppo sempre attuale perchè di pregiudizi ce ne sono troppi e di tolleranza troppo poca.
Questa storia, sicuramente vera, fa riflettere: cosa direi ai miei figli se mi dicessero che il loro futuro compagno è uno straniero? Non so! Il racconto fa capire come sia importante la felicità del figlio e della fidanzata, futura nuora e, nel mio caso, ci potrebbe essere anche un futuro genero. Nella Storia, in migliaia e migliaia di anni, ricordiamo le grande emigrazioni, dal Nord al Sud e dal Sud al Nord, dove lo scopo era quello di sopravvivere. L’Africano, i Veneti, i Mongoli, I Romani, i Longobardi. I Vandali del centro Europa sono arrivati nel Nord Africa, gli Arabi sono arrivati in Spagna e in Asia. Sono arrivati da dominatori e prendevano le cose e le persone con la forza ma l’umanità è l’incontro di tanti popoli. Certamente c’è da pensare alle culture che non dovrebbero però costituire un ostacolo. Una storia di buoni sentimenti raccontata bene.
Emanuele.
@emanuele
Hai perfettamente ragione. Purtroppo ancora oggi straniero vuol dire troppo diverso, da evitare. In realtà le persone andrebbero valutate in quanto tali, permettere loro di essere una fonte a cui attingere e da cui imparare. A prescindere da nazionalità, colore o religione.
Salve, ho apprezzato la scelta del tema di cui non si parla mai abbastanza. Grazie,R.Santini
Evviva le diversità. L’integrazione come strada maestra per la crescita.
Angela