Premio Racconti nella Rete 2014 “Equilibri” di Luigi De Rosa
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014Schivò la bicicletta per un soffio. Il ciclista apparso improvvisamente non si fermò, né rallentò come se non si fosse accorto del pedone, proseguì la sua corsa maleducata inghiottito dalla curva a gomito che si apriva in fondo alla strada asfaltata. ” In controsenso!” Pensò Giulio.
“I ciclisti pensano che il codice della strada valga solo per gli altri! ” Rimuginò, accigliato e sconfortato, ma senza urlare contro quell’idiota, come avrebbe fatto qualsiasi altra persona al suo posto. Aspettò che il battito cardiaco ritornasse regolare, quello spavento l’aveva accelerato maledettamente. Poi quando il nervosismo ebbe lasciato il passo ad una calma rassegnata guardò in alto davanti a sé. Prima della curva, proprio dove il nastro nero della provinciale si restringeva si apriva il sentiero che stava cercando. Accelerò il passo in quella direzione non prima di essersi assicurato che lo sconsiderato in bici avesse colleghi al seguito, quindi senza indugiare oltre abbandonò la strada.
Il sentiero che conduceva alla baia serpeggiava dapprima in alto fra rocce scoscese per infilarsi deciso in una macchia d’ulivi in fondo al pendio, quindi tornava a precipitare verso il basso trasformandosi in una pietraia polverosa interrotta qua e la da radici infide fatte apposta per piegar caviglie. Ancora un’ora e sarebbe giunto a Ieranto.
Tossì, inspirò ed espirò profondamente, come se fosse stato impegnato in un esercizio di training autogeno. Quindi riprese la passeggiata. Le scarpe da trekking si erano rivelate assai comode anche se molto più pesanti rispetto a quelle che indossava di solito, i muscoli delle gambe cominciavano a dare segni di indolenzimento. Faticava più per questo che per l’età. Il caldo poi era diventato insopportabile. Vampate di calore intermittenti partivano dalle piante dei piedi per giungere con intensità maggiore alla fronte che doveva detergere dal sudore ogni mezz’ora, ravviandosi con calma i lunghi capelli grigi unti dal sudore dietro le orecchie con un gesto che ogni volta gli metteva malinconia, come se l’avesse fatto in passato per qualcuno che aveva amato e di cui ora non serbava ricordo. Tirò giù la zip del giubbino abbassandola fino a scoprirsi il petto; la t-shirt di sotto, fradicia di sudore, era diventata una seconda pelle. Procedeva con calma armato del vecchio bastone di castagno che si era procurato in una precedente escursione sui Monti Lattari, scudisciava le ortiche e i cespugli che gli si paravano dinnanzi come un cieco un percorso sconosciuto. A metà strada del labirinto di cespugli che conduceva alla spiaggia, si sporse da un dirupo tenendosi alla corteccia di un vecchio ulivo. Il mare era calmo, il colore blu cobalto dello specchio d’acqua al centro della baia si colorava di viola a metà per poi stemperarsi in un azzurro sempre più trasparente prima di giungere spumoso sull’acciottolato dell’arenile. A ovest, dove il sole non arrivava ancora con forza, due artisti erano già alle prese con le pietre. Mezzi nudi, con le spalle rosse come il carapace di un aragosta sembravano sciamani indiani alle prese con un nuovo totem.
“Rock balancing ?” si chiese, “o stone balancing?”
Era completamente a digiuno di questa nuova disciplina artistica.
Era stato un amico a parlagliene la prima volta.
In Maggio sull’arenile del piccolo borgo di Seiano a qualche chilometro da dove si trovava ora, nell’altra Costiera,la Sorrentina, aveva sorpreso Sasà mentre era intento a cercare di tenere in equilibrio un grosso masso su una pietra minuscola a sua volta poggiata su un sasso tondeggiante infilato a cuneo nella sabbia. Aveva riso di Sasà e di quello che riteneva uno stupido passatempo. Poi quando l’amico con uno sguardo ascetico e voce serafica aveva cominciato a spiegargli che quello era un esercizio di “counter balance” e gli aveva illustrato brevemente la Land Art, si era convinto che c’era molto di affascinante in quella pratica. Il colpo di grazia l’aveva avuto digitando in Google il nome di “Bill Dan” rimanendo basito davanti alle foto delle creazioni artistiche dell’americano e di quei gabbiani nella baia di San Francisco che ne sfidavano il miracoloso equilibrio.
Giunse sulla spiaggia dopo pochi minuti. Si guardò intorno, indeciso sul da farsi. “Gli indiani” in fondo alla spiaggia lo salutarono sventolando i cappellini che si erano decisi ad indossare per sopravvivere al sole che alto nel cielo cominciava a divorare i colori della terra con ingordigia, trasformando in bianco quello che prima era grigio, in grigio quello che prima era verde, in verde quello che prima era vivo.
“E’ la pietra che ti sceglie” gli echeggiò nella testa il consiglio di Sasà. Lasciò quindi che lo sguardo vagasse senza meta per l’intera spiaggia. Un gatto selvatico qualche metro più avanti rincorreva qualcosa fra i ciottoli. Saltellava, annusava e scavava incessantemente. Lo raggiunse. “A ecco cosa ti eccita tanto!”
In mezzo alle pietre un granchio entrava e usciva dai pertugi schivando gli artigli del felino. Giulio si chinò e raccolse proprio una delle grosse pietre che erano servite da nascondiglio al crostaceo che nel frattempo era sparito altrove.
La studiò con attenzione, era lunga e grossa quanto il suo avambraccio, un parallelepipedo quasi perfetto se non fosse stato spaccato alla base come un uomo privo di una gamba, mentre al centro aveva tante piccole venature nere, sembrava una torre diroccata con migliaia di feritoie. “Pas på!” (Attenzione) la voce di Stephan gli giunse dal nulla. Gli girò la testa. Si tenne al bastone per non cadere. Lasciò rotolare il sasso che andò a conficcarsi in un buco ai suoi piedi rimanendo dritto, mentre il gatto miagolando scappava via. Inspirò ed espirò, davanti a sé la spiaggia non c’era più, si era trasformata in un prato verde, al centro, un laghetto dove svettavano torri e castelli circondati da casette coloratissime. Tutto era costruito a misura di bambino, con mattoncini di plastica. Stephan era alla guida di un’automobilina gialla, di quelle elettriche e chiedeva pista libera ma lui, il gigante buono, gli ostruiva il passaggio.
“Pas på!…. Pas på!… Pas på!”?
Giulio come allora si spostò, lasciando che il fantasma del figlio passasse oltre, raggiungesse gli altri piccoli ospiti di Legoland.
“Perché i pensieri sono sempre prodotti plasmati… manipolati. Sono gli scarti del nostro sé, ciò che educazione, cultura e religione ci hanno portato a dover essere. Ma anche ricordi sedimentati di ciò che siamo stati e non siamo più. Inutili zavorre… Per questo da che esiste l’uomo la saggezza non sta nel mondo del pensiero razionale, ma in un mondo sottostante guidato dai centri più antichi del nostro encefalo. Un mondo a cui si accede e con cui si entra in relazione non con le parole, ma con le sensazioni, con i messaggi provenienti dai nostri cinque sensi. Bisognerebbe imparare ad accedere a questo mondo con costanza ogni giorno. Quando varchi la soglia, ti lasci alle spalle cultura,strutture e sovrastrutture apprese e sedimentate durante la socializzazione, entri finalmente in contatto con l’essenza del tuo esistere. Vieni svuotato dai dolori e dalle gioie, concetti riduttivi di quello che è il qui ed ora. Quello che si prova dopo aver realizzato uno stone balancing non si può spiegare a parole, lo si può solo sperimentare di persona dopo averne capito l’essenza”. Le parole di Sasà che gli erano tornate in mente all’improvviso lo frastornarono come un tuono a ciel sereno.
Dopo pochi istanti Giulio tornò in sé e guardò in basso il sasso profondamente conficcato nella sabbia. S’inginocchiò e raccolse una pietra tonda come un uovo che era sotto i suoi piedi senza un’apparente ragione, quindi tentò più volte di tenerla dritta e perpendicolare sulla sommità del sasso incuneato, fallendo miseramente tutte le volte. Sbuffò e, sconfitto, lasciò per l’ennesima volta che la pietra scivolasse giù. Alla fine si distese sull’acciottolato, braccia piegate dietro la nuca, inseguì in alto il volo di un gabbiano solitario perdersi nel deserto azzurro.
Neanche una nuvola in cielo. “Proprio come allora”.
Una lacrima, una sola, partorita dall’occhio destro gli scivolò lungo la guancia poi, a metà percorso, piegò in direzione del lobo dell’orecchio e sparì in mezzo ai capelli. Si tirò su, afferrò la pietra a forma d’uovo a la pose sulla base, la pietra stavolta rimase verticale. Davanti a lui ancora una volta la realtà sparì per trasformarsi nel lampeggiante di un furgone bianco con una lunga striscia verde sulla fiancata che al centro aveva stampata la parola “Politi”. Più in là Hannah era piegata sul corpo di un ragazzo disteso sull’asfalto insanguinato. Un uomo in divisa gli parlava, ma lui dopo trent’anni che era vissuto in quel posto (l’avvertiva con frustrante certezza nel sogno ad occhi aperti) non capiva, non riusciva a tradurre in italiano la lingua del poliziotto, il Danese.
“Italiano” balbettò, “sono italiano…quella è mia moglie, mio figlio…” Il poliziotto lo guardava come si guarda un pazzo – il dolore veste tutto di pazzia.
Stephan era partito da Odense alle 9:00, aveva salutato la ragazza che lavorava come figurante nel Museo dedicato a Hans Christian Andersen, in bicicletta avrebbe raggiunto Faborg, lì l’aspettavano gli amici per il solito giro domenicale intorno all’isola. Un motociclista ubriaco non aveva rispettato lo stop, l’aveva preso in pieno. La bicicletta era ridotta a un mucchio di ferro inservibile e lui…
“Quella è mia moglie”. Un sergente si avvicinò al poliziotto che lo interrogava inutilmente, gli fece segno di seguirlo. Hannah era piegata sul corpo di Stephan come la Madonna della Pietà di Michelangelo.
“Sta dormendo…ora si sveglia”, fu la prima cosa che pensò. Fu quello che voleva stesse realmente accadendo davanti ai suoi occhi di padre, perché il dolore era immenso. L’immagine di un tornado che sradica una quercia dalla terra come un fuscello non rende l’idea di quello che provava in quel momento. Nessun immagine può illustrare il dolore che si prova nel vedere un figlio morto.
“C’erano una volta venticinque soldati di stagno, tutti fratelli tra loro perché erano nati da un vecchio cucchiaio di stagno. Tenevano il fucile in mano, e lo sguardo fisso in avanti, nella bella uniforme rossa e blu. La prima cosa che sentirono in questo mondo, quando il coperchio della scatola in cui erano venne sollevata, fu l’esclamazione: “Soldatini di stagno!” gridata da un bambino che batteva le mani; li aveva ricevuti perché era il suo compleanno, e li allineò sul tavolo…” *
Adesso le lacrime erano tante e scendevano a cascata sulle guance glabre, sbattute qua e là dai singhiozzi. Ma Giulio continuava a raccontare la fiaba …
“I soldatini si assomigliavano in ogni particolare, solo l’ultimo era un po’ diverso: aveva una gamba sola perché era stato fuso per ultimo e non c’era stato stagno a sufficienza! Comunque stava ben dritto sulla sua unica gamba come gli altri sulle loro due gambe e proprio lui ebbe una strana sorte…”
??
Abbracciò Hannah e tutti e due si strinsero a quel corpo freddo…”
In quel mentre uno dei bambini più piccoli prese il soldatino e lo gettò nella stufa?…”
Accarezzò quei capelli bruni come aveva fatto da sempre per tutti quei brevissimi sedici anni. Prese delicatamente una ciocca ribelle , che neanche la morte aveva vinto, riponendola dietro l’orecchio sinistro per scoprirgli la fronte ampia e bianca…come se avesse ancora senso questo gesto.
“Il soldatino vide una gran luce e sentì un gran calore, era insopportabile, ma lui non sapeva se era proprio la fiamma del fuoco o quella dell’amore…”
Gli baciò la fronte era fredda, maledettamente fredda…”
“Il soldatino guardò la fanciulla e lei guardò lui, e lui si sentì sciogliere, ma ancora teneva ben stretto il fucile sulla spalla”.
Sentì la barella dei paramedici avvicinarsi , si voltò disperato, sul lettino c’era un sacco, quello dove mettono i morti.
“NOOO”
Era Hannah che moriva, perché una madre non sopravvive ad un figlio, muore ogni giorno che gli è concesso dopo di lui.
Crocifissa.
“Intanto una porta si spalancò e il vento afferrò la ballerina che volò come una silfide proprio nella stufa vicino al soldatino. Sparì con una sola fiammata, e anche il soldatino si sciolse completamente…”
Un rumore di pietre.
Giulio ritornò in sé.
Il Gatto.
Vide il gatto selvatico che aveva ripreso ad inseguire il granchio. Si asciugò il viso. Raccolse una pietra piatta di colore ramato che aveva dietro la schiena e l’appoggiò sulla pietra ovale. I sassi rimasero tutti e tre in equilibrio. Il sasso in alto sembrava proprio un cuore…
“Quando il giorno dopo la domestica tolse la cenere, del soldatino trovò solo il cuoricino di stagno, della ballerina il lustrino tutto bruciacchiato e annerito”.
In piedi sul bagnasciuga guardava la sua ombra dondolare fra le onde. Erano passati vent’anni dalla disgrazia. Aveva imparato a conviverci per sopravvivere e per sopravvivere alla fine si erano separati lui e Hannah. Chissà perché quando muore un figlio alcune coppie si allontanano.
Come se si dessero la colpa anche se colpevoli non ce ne sono.
O ci si allontana per dimenticare in fretta? Si passa lo straccio sulla lavagna della vita e si ricomincia a scrivere ignorando volutamente le fenditure nell’ardesia.
Ricordò una scritta sotto un quadro di Andersen esposto a Odense : “Limitarsi a vivere non è abbastanza. C’e bisogno del sole, della libertà e di un piccolo fiore”.
Si guardò intorno, indugiò con lo sguardo su di un grappolo di ginestre abbarbicate sulla parete rocciosa alla sua sinistra che luccicavano sotto i raggi del sole di mezzodì.
“Sai cos’è questo?” Il ricordo di Sasà seduto di fronte a quello che per lui era un mucchio di pietre accatastate si fece spazio in mezzo alla sua disperazione.
“E’ un inukshuk?” , continuò il miraggio acustico, “una costruzione in pietra che adoperano gli Yup’ik come punto di riferimento nel deserto artico. I cacciatori di queste tribù dell’Alaska centrale per non perdersi nella tundra costruiscono queste piramidi di pietra. Nella vita dovremmo imparare a costruire i nostri inukshuk. Dolori e gioie dobbiamo imparare a impilarli proprio come si fa con queste pietre, ci faranno da punto di riferimento quando ci toccherà attraversare i momenti di pura disperazione nella nostra solitudine esistenziale, ma dovremo imparare anche ad andare oltre. Ogni inukshuk mentale deve sempre essere anche un punto di partenza per un nuovo percorso di vita”.
Giulio guardò per l’ultima volta la sua costruzione di pietre, fu allora che il gatto rincorrendo nuovamente il granchio urtò il parallelepipedo facendo crollare le tre pietre.
La nostra vita è sempre in equilibrio effimero. Bisogna comprenderla questa verità, bisogna accettarla e avere il coraggio di continuare.
Sì
Continuare ad impilare questi brevi momenti di esistenze uniche.
* I passi riportati tra le virgolette sono tratti dalla fiaba
“Il tenace soldatino di stagno” di Hans Christian Andersen
Trovo questo racconto veramente bello, toccante, e tragicamente vero.
Complimenti sinceri all’autore.
La vicenda è trista; il racconto diventa stupendo in un crescendo di ricordi e di sofferenza prima di concludersi. Ci sono paesaggi e situazioni descritti molto bene e tantissime belle espressioni. Permettimi di citarne alcune: “La nostra vita è sempre in equilibrio effimero. Bisogna comprenderla questa verità, bisogna accettarla e avere il coraggio di continuare.” e ” Continuare ad impilare questi brevi momenti i esistenze uniche.”
Bravissimo Luigi.
Emanuele.
Un racconto crudo in cui la mente del protagonista sembra essere preponderante rispetto alla persona. La sofferenza si materializza attraverso pensieri, visioni, ricordi, rinnovato dolore che è rimasto scolpito come sulle pietre di cui parli. Non esiste più il tempo, non esiste più il suo trascorrere che allontana dagli eventi tragici. Il tempo si ferma al momento della perdita, non può più andare avanti.
Caro Luigi, sono commossa. Non credo di dover dire altro.
Angela
Belle espressioni sulla precarietà della vita, sulla fatica del viovere che troppo soesso ci attanaglia. Molto toccante la riflessione sulla morte del figlio , profondamente ingiusta . Una devastazione che deve essere subita, ma che contraddice ogni regola naturale. Forse solo la Fede può essere di conforto in certi casi…Ma anche il ricordo carico d’Amore come quello di Giulio che gli fa sentire il figlio ancora presente.
Straziante e bellissimo, Luigi. Complimenti per la vittoria. Ci vediamo a Lucca, Liliana
Davvero bello,
duro e commovente.
Complimenti Luigi.
A presto.
M 😉
Bravo