Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2014 “Il flauto e la voce” di Vincenzo Maria Sacco

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014

13 giugno 1979 – New York.

La macchina emetteva un’unica nota continua che si propagava nella stanza. Faceva rabbrividire e non lasciava dubbi sul suo significato. Non c’erano più segni di vita e il suono lo attestava inequivocabilmente. Persone, medici, infermieri si erano affollati nello spazio che circondava il letto dell’ospedale americano. Tutto era stato inutile. Inutile, ormai, il trapianto di midollo che era stato già programmato. Il sangue, ora fermo, negli ultimi tempi non portava più nutrimento ai tessuti e agli organi così, alla fine, il cuore aveva smesso di battere.
Poco più di un palmo più in alto anche le sue corde vocali si erano fermate. Avevano lasciato la loro testimonianza a quella macchina che, però, era in grado di emettere un unico suono, un’unica frequenza fredda e immutabile.

Un suono non si vede, non si tocca, non si assaggia, non si annusa, ma quella nota no, aveva forma, colore e consistenza. Era un enorme masso grigio, duro, ruvido. Amaro e aspro. Tra poco anche la macchina sarebbe stata spenta lasciando spazio a un doloroso silenzio, al ricordo e alla perenne nostalgia.

Due anni prima – Milano

Ero un ragazzino di undici anni. Frequentavo la scuola media. Una soleggiata mattina milanese di inizio primavera io e i miei compagni non eravamo in classe ma in giardino. Ci avevano detto che, quel giorno, nell’ora di musica sarebbe venuto un signore a parlarci del suono, anzi, della voce. Fu la prima volta che, nella mia vita, collegai tra loro le due parole: in genere si associa il termine “suono” a quello prodotto da uno strumento, mentre la “voce” è collegata alla parola o al canto.
Eravamo in piedi, in semicerchio, davanti a una lavagna su cui erano state scritte delle lettere in varie forme: grandi, piccole, in corsivo, in stampatello, in grassetto, apparentemente a caso. Eravamo curiosi di sapere quello che sarebbe successo e, comunque, eravamo contenti della novità. Ci avevano anche detto il nome dell’insegnante che sarebbe venuto: era un nome greco. Mio fratello maggiore mi aveva informato che si trattava di un famoso cantante. Un cantante viene a farci lezione? – avevo pensato. Poi avevo dimenticato lo strano nome, ma il fatto di avere come insegnante un tipo famoso, quel giorno, mi eccitava.
Lo vedemmo arrivare dal limite del giardino della scuola e ci guardammo tutti con sorpresa. Era giovane! In confronto ai prof stile barbagianni che avevamo, lui sembrava un ragazzo.
Ricordo che ci mise subito a nostro agio: a ciascuno chiese il nome, poi si informò su quanti di noi suonavano o studiavano uno strumento musicale.
Fece una domanda che ci sembrò strana.
–  Chi di voi mi sa dire che cos’è la voce? –
Alcune mani coraggiose si alzarono, ma le spiegazioni arruffate e confusionarie dei miei compagni suscitarono l’ilarità di tutti, anche la sua.
–  Vedete, ragazzi – disse quando le risa si furono placate – io studio la voce, mi occupo dei suoni che siamo in grado di emettere. Eppure se chiedessero a me che cos’è realmente la voce, neanch’io saprei rispondere. –
Fece un attimo di pausa e ci guardò con intensità. Era riuscito a catturare la nostra giovanile attenzione.
– In realtà non saprebbe rispondere nessuno, neanche il più grande studioso o il più famoso cantante. Una cosa, però, la sappiamo. Nella nostra gola ci sono due piccoli muscoli, che probabilmente voi già conoscete, che si chiamano corde vocali. Sono davvero speciali, ma sono pur sempre muscoli, come questi – disse sollevando prima una gamba e poi l’altra toccandosi i polpacci.
–  Quando siamo piccoli, prima impariamo a camminare, poi a correre e più ci alleniamo più diventiamo veloci. I muscoli diventano robusti e così riusciamo a battere i nostri amici che hanno fatto meno allenamento. Giusto? – chiese e tutti noi rispondemmo di sì.
–  Bene, la stessa identica cosa avviene con le corde vocali. Dobbiamo allenarle, come gli altri muscoli del nostro corpo. –
Ci indicò la lavagna con le lettere scritte e disse:
– Per spiegare quello che ho appena detto, vi mostrerò un esercizio che serve proprio a questo scopo. Cercate di seguire quello che dico e le lettere che sono scritte sulla lavagna. –
Avvenne un fatto che mi sbalordì. Pronunciò quelle lettere in rapida successione. Ma non le disse soltanto: la sua voce mutava continuamente forma, sembrava che uscisse prima da uno strumento, poi da un animale, poi ancora da un oggetto e così via. Le vedevo, ne percepivo l’aspetto e immaginavo chi o cosa avrebbe potuto generarle. Molti ragazzi accanto a me sorrisero, altri ridacchiarono con la mano sulle labbra: quella sequenza di suoni alti e bassi, di versi cupi o gracchianti a loro sembrava comica.
Ero solo un ragazzino come loro, ma avevo intuito, forse soltanto io e forse più con l’animo che con la mente, la straordinaria versatilità dei due piccoli muscoli che quel giovane insegnante stava cercando di spiegarci.

Da quel giorno cercai di riprodurre i rumori, i suoni, i versi che sentivo intorno a me. Era come un gioco che facevo con me stesso. Quasi sempre non ci riuscivo, ma avevo dentro di me la convinzione che, se mi fossi allenato a dovere, sarei riuscito ad imitarli, proprio come aveva cercato di farci capire l’uomo dallo strano nome greco.

 

14 giugno 1979 – Milano

La vecchia Arena Civica milanese pullulava di attività. Quella sera si sarebbe svolto un grande concerto con la partecipazione dei nomi più noti del rock italiano di quegli anni. In altre circostanze gli organizzatori avrebbero portato a casa molti soldi, ma non quella volta. Il concerto doveva servire per raccogliere fondi da inviare all’artista che, in un ospedale di New York, era in cura in attesa di un trapianto di midollo. Era l’artista dal nome greco che, due anni prima, ci aveva spiegato l’uso della voce.
Improvvisa e devastante, era arrivata la notizia che, il giorno prima, il destinatario degli introiti del concerto era morto. I soldi della vendita dei biglietti non sarebbero stati utilizzati per finanziare le cure negli Stati Uniti, non servivano più per quello scopo. Tutti, però, erano stati d’accordo: la manifestazione si sarebbe svolta ugualmente. Non sarebbe stata la stessa cosa. Sarebbe stato un concerto luttuosamente celebrativo.
Ricordo l’atmosfera irreale che regnava all’interno e all’esterno della struttura. Si sentivano soltanto i martelli, i trapani e gli altri attrezzi che servivano per montare il palco e tutto il resto. Avveniva che, per qualche momento, i rumori si interrompessero improvvisamente. Allora un irreale silenzio scendeva come una coltre. Tutti si fermavano, mentre cento e più pensieri risuonavano all’unisono e si propagavano in tutte le direzioni.
Il viso di mio fratello, ingaggiato dall’organizzazione come tecnico del suono, era rigato di lacrime che non sapeva trattenere. Io, tredicenne, ripensavo a quella lezione di due anni prima nel giardino della scuola, ma anche ad altro.

Avevo una sua registrazione che ascoltavo spesso. Chiudevo gli occhi e improvvisamente ero proiettato all’indietro nel tempo. Dal silenzio sorgeva il suono mistico di un flauto di canna. Le note, calde e avvolgenti salivano di tonalità, diventavano più acute. Oscillavano con una rapida modulazione per poi tornare più gravi e fermarsi su una tonalità bassa, delicatamente vibrata. Era un’evocazione di tempi remoti, spirituale e misteriosa. Capivo che non era una melodia, ma una forma di espressione, forse una preghiera. Era il linguaggio primitivo di chi si rivolge alla propria divinità con un’offerta rituale. Vedevo quel suono rotolare tra le poderose colonne di un tempio greco. Toccavo le singole note con delicatezza, come si fa con i petali di un fiore. Mi abbandonavo ad una quasi-ipnosi lasciandomi trasportare in luoghi arcani fatti di pietre appena sbozzate, are sacrificali, fumi sinuosi che si innalzavano verso un cielo a noi sconosciuto. Altre suggestive emissioni sonore si aggiungevano al flauto, prodotte da strumenti mai visti dei quali potevo solo immaginare le fattezze. Si sovrapponevano e si inseguivano come un’orchestra primordiale, apparivano e poi sparivano, eterei fantasmi.
Non erano suoni, non erano versi, non erano parole eppure erano tutto ciò contemporanea-mente. Era il risultato di un’indagine che voleva raggiungere – e forse avrebbe superato – il limite delle nostre possibilità: tutto quello che ascoltavo e che entrava nella mia mente e nel mio animo di ragazzo era prodotto da un uomo, dalla sua voce straordinaria nella sua unicità. Chi, da esperto, aveva avuto modo di studiarne le capacità, affermò di poter fare solo ipotesi sulla generazione di quei suoni. La sua voce era in grado di emettere fischi a frequenze altissime, più suoni contemporaneamente, sonorità e risonanze mai ascoltate prima, rumori, forme vocali dimenticate e altro ancora.

Mio fratello lavorava sul palco. Collegava cavi, provava microfoni, sistemava strumenti. Di tanto in tanto si passava la mano sul viso dove il sudore, causato dal caldo sole di giugno, si mescolava, ancora, a qualche solitaria lacrima. Io lo guardavo e immaginavo cosa sarebbe successo la sera: le gradinate, oscurate dalla notte, piene di gente.
Avevo imparato il suo nome, almeno quello che aveva adottato in Italia perché quello vero, nella sua lingua, era per noi difficile da pronunciare.
Al centro dell’Arena, colorato di luci e di suoni, si svolgeva il concerto per Demetrio Stratos.

 

Nota
Questo racconto è un piccolo ricordo in occasione, nel 2014, del trentacinquesimo anniversario della scomparsa di Demetrio Stratos.
Il personaggio narrante è di fantasia e l’autore si scusa per eventuali errori ed imprecisioni rispetto ai fatti realmente accaduti.
E’ doveroso citare due riferimenti bibliografici: l’intervista del 1991 della musicologa Janete El Haouli al Prof. Franco Ferrero che condusse studi approfonditi su Demetrio presso il Centro Studi per le Ricerche di Fonetica del CNR (oggi sede di Padova dell’Istituto di Scienze e TecnoIogie della Cognizione) e il lungometraggio “La voce Stratos” di Luciano D’Onofrio e Monica Affatato (2009).

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9 commenti »

  1. Onore al grande Demetrio Stratos! Una delle voci davvero straordinarie del nostro tempo. Appena ho letto che il nome dell’insegnante “era un nome greco” ho pensato a lui e speravo si parlasse di lui.
    Grazie. Cercherò il documentario che hai citato.

  2. Magnifico.

  3. Mi è piaciuto molto, pur non conoscendo a fondo l’opera dell’artista a cui è dedicato.
    Scorre come una dolcissima melodia.

  4. Grazie a te Sergio per il commento.
    Forse è proprio vero che la musica ci salverà, come tu suggerisci nel tuo bellissimo “Turno di notte”.
    Stratos è stato troppo presto dimenticato, soprattutto il suo straordinario percorso di ricerca, purtroppo troppo breve.
    In bocca al lupo per i tuoi lavori!

  5. Grazie anche a Mara ed Alessandra.
    Per Mara: scriverò un commento per il tuo delicato e struggente “Biancaneve nel Paese delle Meraviglie”.
    Per Alessandra: non ho trovato tuoi racconti nell’archivio dei lavori presentati. Mi sono sbagliato?
    Comunque in bocca al lupo per tutto!

  6. La musica accompagna questo tuo racconto molto bello e scorrevole. Non conoscevo l’artista ma sicuramente andrò ad informarmi. Bellissima la tua definizione di suono. In bocca al lupo per il concorso.

  7. Enzo, nel tuo scritto leggo emozione, tecnica, spiritualità. Un tributo a chi la musica l’ha respirata a pieni polmoni, è un atto dovuto e ben fatto, da chi come te, la musica la conosce e la ama.
    Immagino come questo scritto ti abbia coinvolto, si sente dalle tue parole.
    Silvia

  8. Grazie Francesca. Ricambio per il tuo bel racconto. Difficile trovare originalità per un tema tanto tragico quanto usato mediaticamente. Ci sei riuscita con uno stratagemma narrativo originale e accattivante. Brava!

  9. Silvia, come sempre hai colto nel segno!
    Sì, il coinvolgimento c’è tutte le volte che ascolto le poche registrazioni reperibili sui media. Le sensazioni e le emozioni che prova il giovane protagonista sono state e sono ancora le mie.
    Grazie!

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