Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2014 “Disturbia” di Claudia Guaglio

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014

A volte riuscivo ad acquistare lucidità, una scarsa cognizione del tempo e del luogo che mi permetteva semplici riflessioni sul mio stato nel lasso di pochi minuti delucidanti. “Cosa mi sto facendo?” mi ponevo quasi sempre domande stupide e scontate, raccogliendo il mio cervello dentro un’ampolla di vetro ed osservandolo al microscopio, sprecando così quel poco tempo di sanità mentale che mi veniva concesso. Ma in realtà non mi sentivo malata. Se qualcuno me l’avesse chiesto – se solo qualcuno avesse avuto il coraggio di chiedermi se stessi bene – non ne avrebbe sicuramente ricavato niente. Oh, tutti avevano fin troppa paura di me e di quel che nascondevo, lo sentivo. Le occhiate di Matt erano ogni giorno più eloquenti ed i suoi baci più dolci, ma in ogni caso ero preparata a stamparmi un grosso ed ingombrante sorriso sulle labbra secche; bocca che in qualche modo riuscivo a disprezzare perché troppo falsa, e con voce squillante a rispondere che sì, andava alla grande.

Forse ne ero veramente convinta – stavo bene, mi sentivo bene, sarei stata bene. Che assurda bugia.

A volte non ero sola, continuamente circondata e piena di persone attorno; gente che si ostinava ad occupare i miei spazi ed a violentare la mia anima senza chiedere alcun permesso. Prima di Matt, l’odio verso gli altri era stato una mia prerogativa, poi la sua tenerezza era forse riuscita ad addolcirmi, sciogliendo le mura solide del mio stanco cuore. Senza di lui arrivavo quindi a desiderare spesso la solitudine, magari anche solo un attimo vuoto e nero, completamente nullo. Ne avevo bisogno. Mi rinchiudevo solitamente nella mia camera disordinata – un piccolo scantinato confortevole ed inizialmente ben arredato, che avevo provveduto a personalizzare nella peggior maniera – chiudendo con violenza voluta la porta e buttandomi a capofitto nel letto disfatto ad una piazza e mezzo che ogni notte raccoglieva i miei disturbi.

Poi piangevo. Piangevo perché forse non trovavo altra via di fuga dal silenzio che, quella stanza che sentivo fin troppo mia, mi regalava. La odiavo in maniera viscerale, riuscivo ad elencarne tutte le crepe ed i difetti di struttura: la composizione degli arredamenti confusionaria, il tetto troppo basso ed i muri poco opachi. Il mio odio si fermava però ad un livello minimo, quasi ignorabile. In fondo tutte le mie attenzioni ed il mio disprezzo si indirizzavano completamente verso il grandissimo specchio che si ergeva come copertone dell’armadio a due ante posto nel bel mezzo della camera, dove riponevo da sempre i miei pochi ed usurati vestiti.

L’avrei distrutto perché mi apparteneva. Ed io disprezzavo proprio tutto, di me.

 

A volte arrivavo a farmi del male – non la mia usuale sofferenza psicologica, quella che mi attanagliava l’anima in continuazione, senza regalarmi attimi di pace. Col tempo ero riuscita a concretizzare il mio dolore sul fisico, in un circolo vizioso che sembrava impossibile da arrestare; in fondo si sa, ogni brutta abitudine finisce col creare dipendenza. Solchi di pelle e ferro si innalzavano sotto forma di cicatrici sulla mia cute, piccole colline arrossate che si estendevano per tutta la mia area. Il sapore ed il suono che il mio personale trincetto produceva mentre si macchiava di sangue mi piaceva, riusciva a calmarmi. Il mio corpo divenne in poco tempo un’opera d’arte masochistica e sadica, magari un prelibato bocconcino per i cultori del genere; ma per il resto dovevo nascondermi, soprattutto agli occhi di Matt.

Cominciai per sbaglio, nello stesso istante in cui mi sentii brutta per l’ennesima volta, posizionandomi di sfuggita davanti al piccolo specchio che albergava proprio sopra quel lavandino sporco e malmesso che mia madre si rifiutava da sempre di pulire, mentre mi lavavo stancamente i denti. Ed era mattina presto, me lo ricordo bene. Spazzolavo i miei incisivi con lenti movimenti, ripetizioni di atti che mi davano leggermente la nausea. Mi ripugnai per il semplice motivo che ero oramai del tutto stanca di me stessa, di quell’essere che in molti si ostinavano a voler capire. In realtà mi sentivo solamente un involucro svuotato ed inutile – aspettavo forse un pretesto per cominciare a distruggermi. Non rimembro quale fu la strana costante che riuscì a disgustarmi tanto; molto probabilmente il mio naso esageratamente grande, quella nappa orribile e terribilmente fuori posto. Lo scatto che la mia mano fece verso il mio riflesso fu incondizionato e soprattutto incontrollabile. Come se i miei movimenti si fossero tutto ad un tratto amplificati, donandomi nuova forza sia interiore che fisica. Il rumore che il vetro produsse, spezzandosi inizialmente a metà, fu sordo e roco: a distanza di anni ancora lo ripercorro con nostalgia, poiché in quell’istante riuscii a sentirmi finalmente libera. Poco m’importava del dolore o delle tante schegge che mi trafiggevano le nocche – la mia faccia finii in mille pezzi, disordinatamente colorati di rosso. Ylenia continuò a vivere.

 

A volte dicevo tante bugie, avevo imparato a rapportarmi con gli altri in conseguenza del mio stato fisico e mentale – in famiglia, con gli sconosciuti o con gli amici, che differenza poteva fare? Non distinguevo più nulla; il bene dal male, il giusto dallo sbagliato. La mia vista si offuscava ogni giorno di più, attuando un lento degradamento interiore che non riusciva a destabilizzarmi. “Niente più legami. ” mi dicevo, costringendomi a comportarmi in sgradevoli maniere, che non mi si addicevano affatto. Tagliare i ponti col resto del mondo era stato più facile del previsto, ma a rovinare tutti i miei piani c’era sempre stato lui. Matt che mi sorrideva, Matt che mi baciava. Matt che ritornava e perdonava con un non nulla.

No, non ero malata e continuavo ad esserne convinta – non ero malata, anche se il mio pranzo veniva costituito da una frutta secca o da qualche schifezza, oppure si evolveva in abbuffate immani che venivano poi rigettate dentro ad un cesso lurido insieme a metà dei miei succhi gastrici. Avevo oramai imparato a sillabare in modo convincente quelle poche frasi che mi servivano per raggiungere il mio scopo; “non ho fame” oppure “ho mangiato prima”. Ylenia era quasi felice davanti all’ossessionante evidenza delle sue costole sporgenti, ricoperte da smilza pelle raggrinzita e continuamente in bilico tra lo spezzarsi o no. Nemmeno mi pesavo; il fatto che le mie ossa riuscissero quasi a trapassarmi la cute bastava a farmi sentire fin troppo soddisfatta di me stessa. Però non mi credevo bella, non ancora.

 

A volte temevo di morire. L’azione che quasi ogni giorno si attuava – sposta la sedia, esci dalla cucina, sali le scale, entra in bagno, alza la tavoletta, mettiti in ginocchioni, premi due dita in gola e vomita – era quel che riusciva a farmi stare meglio. Una routine bastarda che mi regalava momenti effimeri di allegria, sorrisi che scomparivano alla velocità di un battito di ciglia; ma ogni volta che le mie mani si avvicinavano a toccare la mia ugola facendomi avvertire lievi conati acidi all’interno della carotide ed un tremendo attorcigliamento nello stomaco, sentivo che ero ad un passo da quel che stavo terribilmente cercando. “Ma cosa sto rincorrendo a forza di vomito e di ferite nello sterno?” mi domandavo insistentemente, senza trovare risposta; ma dovevo andare avanti. Continuare a percorrere quel mio personale cammino era l’opzione più giusta anche se ogni sessione di auto svuotamento riusciva a privarmi di voce e di fiato – anche se il mio cuore scoppiava e non trovava mai pace. I miei gomiti appuntiti e secchi riuscivano a sbranarsi al solo contatto con qualsiasi tipo di materiale solido; ero costretta a fasciarli con bende sanitarie ed a coordinare bene i miei passi. La paura di perdere l’equilibrio e cascare era tanta e continuativa. Se fosse accaduto il mio corpo si sarebbe sfracellato con poca grazia, trasformandomi immediatamente in un mucchietto di carne rotta e basta. Ammetto che l’immagine del mio cadavere non mi disgustava tanto, però. In quel periodo trovavo le ossa incredibilmente belle.

A volte avvertivo sensi di colpa. Erano attimi che riuscivano a trasparire dalla mia mente quando mamma mi scoppiava in lacrime davanti, reprimendo a stento urli e gemiti di dolore di fronte al mio corpo sfatto. Oppure quando vedevo papà trattenersi nel tirarmi uno schiaffo, con la mano destra già alzata e pronta, ma con l’evidente paura negli occhi di arrivare a potermi uccidere grazie solo ad un semplice tocco. C’era poi il contatto col resto del mondo che ogni giorno scemava insieme alla mia perdita di peso ed uno specchio spezzato; c’era sangue sulle lenzuola e c’ero io, magari nemmeno più umana, raggomitolata come un piccolo fagotto dentro a vestiti di tre taglie più grandi. Non so, forse non avevo nemmeno più una forma – ho evitato di fotografarmi sin dal primo attimo in cui ho deciso di smettere di mangiare. Cercavo di migliorare me stessa perché porsi degli obbiettivi è nella natura umana, ma mai avrei pensato che potessero essere o divenire così sbagliati. In fondo erano i miei, avrei dovuto capirlo dall’inizio. Non sono mai stata nel giusto.

A volte mi sono sentita felice. Riuscivo a sentirmi un po’ più calda all’interno quando mia madre, dopo aver inscenato il suo personale dramma quotidiano che ripeteva con costanza, tirava fuori un sorriso forzato ma tuttavia dolce e tenero, facendomi capire che sì, stava soffrendo, ma mi voleva ancora bene. La mia condotta era marcia e perfida, non lo nascondevo. Riuscivo a pensare solo a me stessa, ai miei problemi ed al mio interesse, fregandomene di quel che mi circondava e del dolore che le mie azioni scaturivano nel prossimo. Ma ero allegra per davvero, quando Matt mi cercava entusiasta, dopo interi mesi passati ad ignorarlo con il semplice obbiettivo di staccarlo del tutto da me – ma non ce l’avevo proprio fatta, a cancellare il suo sorriso. Arrivava con una piccola rosa rossa in mano ed un colorato pacchetto di cioccolatini incartato con cura; i miei cioccolatini preferiti, e lui lo sapeva. Il nostro tempo scorreva tra parlate nella mia camera, piccoli baci a fior di labbra ed inconsueti imbocchi di dolci. Poi, verso metà giornata, cominciavo usualmente ad avvertire un leggero candore farsi spazio ad illuminare il nero profondo che mi portavo dentro: bastava un tocco di labbra, solo quello. La sua bocca lievemente pigiata sulla mia e magari un’altra delle sue risate, macchiate di amaro cioccolato fondente.“Resta con me per sempre.” avrei voluto e dovuto dirgli. Quelle parole che mi premevano nella giugulare; sapevo che mi avrebbe detto di sì, eppure non fiatai mai. Fantasticavo a lungo su quei nostri pomeriggi strani, di come avrei potuto prolungarli più a lungo – avremo potuto dormire insieme, mano per la mano in quel letto insanguinato, se solo avessi parlato. Poi il sogno finiva e lui se ne andava, con un’altra promessa cicatrizzata nel cuore.

Ed io andavo a vomitare il suo – nostro – amore liquido fuso ad amara coscienza dentro al cesso.

A volte mi chiedo ancora perché non ne sono morta. Ho sempre creduto nel destino, che ogni essere umano avesse un non so che di prestabilito. Fondando la mia esistenza su tale pensiero, io me lo sentivo: sarei morta in poco tempo. I motivi potevano essere vari; magari per un’emorragia, per colpa di uno stupido conato doloroso. Ero arrivata a quel limite che, se sorpassato, avrebbe segnato una spessa linea di non ritorno al di là del mio cammino. Lo percepivo quando mi svegliavo la mattina – il corpo indolenzito e il non riuscire nemmeno più a camminare. Chiari segnali, credevo.

Anche quel giorno, mentre rimettevo la mia anima, sentivo che quella avrebbe potuto essere la mia agognata volta buona. Molto probabilmente quel periodo fu il peggiore; avevo una grande voglia di scomparire e basta – non di morire, solo scomparire. Mi scordavo di tutto, dormivo quasi sempre e ingerivo solamente acqua e snack salati. Mi ricordai dell’imminente visita di Matt solo quando un tonfo sordo mi distolse dalla mia principale attività; il suo sorriso che scompariva ed il pacchetto di cioccolatini sparpagliato per terra. Mi sentii come una di quelle leccornie rovinate, spiaccicata contro le mattonelle fredde ed in procinto di essere buttata. A costo di passare per pazza, quell’immagine mi ricordò molto me stessa – spezzata, degradata e da cestinare. “Non guardarmi, non guardarmi!” urlavo nella mia testa, senza quindi emettere alcun suono, mentre il suo sguardo si faceva sempre più duro e la mia autostima cascava in mille pezzi. Il silenzio che lui stesso creò divenne in poco tempo più tagliente di qualsiasi altra lama che avesse avuto il piacere di sbranare il mio corpo; come un coltello affilato che si divertiva a fare giri concentrici dentro al mio polmone sinistro o destro, non poteva fare differenza. Pensai di morire solo per mano del suo sguardo, sì. Il suo sguardo che mi rifiutava ed urlava disprezzo – urlava così tanto che mi sentivo le orecchie in procinto di scoppiare.

Lo guardai lacrimante, perché non riuscivo veramente a fare altro.

 

<< I can’t remember the last time I’ve seen my own eyes, or the color of my skin.
Do you know what it’s like to feel ugly all the time?* >>

 

A volte riesco magicamente a ricordare il suo volto rilassarsi di scatto, di fronte a quelle mie parole dettate da disperazione e paura. Rivedo quegli occhi che tanto amavo farsi di nuovo dolci, abbandonando lo sconvolgimento del momento. Tutto merito delle frasi che mai ero riuscita a pronunciare prima – fiele che avevo nascosto sempre, perché parlare mi avrebbe sicuramente fatto fin troppo male. Nascondermi era il mio mestiere, velare i miei sentimenti una specializzazione. Ma le dissi; riuscii straordinariamente a farlo, magari grazie alla sua espressione arrabbiata – non volevo che mi odiasse, non avrei potuto sopportarlo. Io ci vivevo, di lui.

Potei quindi avvertire il mio corpo rabbrividire, sentendo distintamente le sue mani e lo spostamento d’aria che provocarono quando riuscirono a pigiarsi appena sui miei fianchi striminziti, ancorandomi con delicatezza e trasportandomi tra le sue braccia senza alcuna fatica.

A quel punto pensai di poter volare, davvero.

 

A volte avverto ancora le sue parole riecheggiarmi in testa – in quella piccola parte della mia mente tuttora fragile e malmessa, che ha costantemente bisogno d’aiuto. Si ripetono spesso, riproducendo a random il giusto tono che serve, a mo’ di tenera litania. “Torna a casa, Ylenia.” mi sussurrò lievemente in un orecchio in quell’istante magico, un suono quasi inudibile. Ma il suo bisbiglio fu più che recepito. Ylenia ritrovò subito la strada di casa. Aveva camminato a lungo tempo per un percorso selvaggio lungo e tumultuoso, costeggiato da lupi feroci ed erbacce velenose. Aveva toccato con il piede destro la linea di non ritorno – sì, c’era arrivata e non se n’era curata più di tanto. Ma poi era riuscita a ritirarlo con cautela, seguendo incantata il mormorio sommesso di Matt e sorridendo appena. Eppure si sentiva debole, Ylenia – forse l’entità che l’aveva sostituita era solo un fragile spettro senza sostanza e concretezza. Forse era il niente.

 A volte ripenso a quel giorno, magari annebbiando di poco gli sgradevoli attimi precedenti e puntando tutta la mia attenzione su di noi. Cerco di percepire alla meglio i suoi muscoli guizzanti a contrasto con il mio corpo, focalizzandomi sul percorso che per un momento facemmo mentre le sue braccia mi stringevano ancora con leggerezza, totalmente attente a non farmi male. Riesco soddisfacentemente a rimembrarmi tutto di quell’attimo in cui capii quanto fossi stato stupida e totalmente cieca, di quanto avessi sprecato il mio tempo e soprattutto consumato il mio cuore. Perché fu proprio quando passammo davanti ad uno dei tanti specchi di casa mia che ancora non ero riuscita a rompere – proprio davanti a quello specchio che avevo continuato ad odiare – che ci riflettemmo, forse per un secondo o anche meno. Osservai per la prima volta dopo tanto tempo la mia figura, la mia fotocopia. Molto probabilmente con remore, forse con paura; ma in quell’immagine non vidi me, non vidi un mostro e non provai disgusto.

Lì c’ero io, c’era Matt. C’ero io e c’era Matt. C’eravamo noi.

Noi, stretti e fusi in qualcosa che sì, sembrava essere infinitamente bello.

 

A volte – adesso – ho capito.

Ho capito che quel che stavo cercando, era sempre stato al mio fianco.

Ed io non me ne sono mai accorta.

 

 

Note:

* “Non riesco a ricordare l’ultima volta in cui ho visto i miei occhi, o il colore della mia pelle. Sai com’è sentirsi brutta tutto il tempo?” Citazione presa da “Waltz Moore” dei From First To Last.

Loading

Lascia un commento

Devi essere registrato per lasciare un commento.