Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2014 “Terza stanza in fondo a sinistra” di Luca Boschiazzo

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014

Francis continuava a muoversi nervoso per tutta la stanza. Aveva di sicuro già percorso almeno un chilometro, che in una stanza di tre metri per quattro ammobiliata, significa una considerevole quantità di giri su sé stesso. Vestito ormai di tutto punto, aveva posato il suo bel cappotto blu scuro, lungo fino alle ginocchia, all’attaccapanni nell’angolo opposto allo specchio. Gli mancava solo più il cravattino nero, lasciato ancora slacciato a pendere un po’ di quà e un po’ di là a seconda dell’oscillazione, a dare un po’ di morbidezza a quegl’arti irrigiditi. Le dita schiacciavano compulsivamente i tasti della tromba appena lucidata, come a battere un telegramma sotto dettatura.

Mi stava facendo venire il mal di testa a furia di piroettare. Mi allungai per afferrare la sua sedia e gliela misi davanti ai piedi bloccandolo di colpo.
-La vuoi piantare! Cos’è sei posseduto da un maratoneta?-
L’avevo preso alla sprovvista e non mi rispose subito. -Avanti dai. Siediti qui e tranquillizzati, se vai avanti così lascerai una scia di sudore umidiccia da qui al palco e ti scambieranno per una lumaca.-
-Per te è sicuramente facile stare lì svaccato a fare dell’ironia, tanto non sei tu quello che tra ventinove minuti e dodici secondi dovrà suonare davanti ad un locale intero.- Il suo tono era lievemente alto ma non ancora in direzione Isterico.
-Ma manco fosse il tuo primo concerto, cazzo. Cos’è la sesta replica che fai qui questo mese? –
-E allora?? Allora????- Si, era decisamente decollato verso Isterico.
-Credi che l’abitudine faccia passare la tensione? Credi che suonare uno strumento da quando ne hai ricordo ti permetta di dimenticare l’ansia del salire su un palcoscenico, senza sapere quello che hai davanti perché sei totalmente accecato dalle luci?-
-Ma se è la sesta replica che fai qua dentro, oramai dovresti sapere anche quante mattonelle ci sono nel cesso.-
-Le facce! Le facce!!! Come faccio a suonare tranquillo se non ho idea di che sguardi ci saranno stasera! Sono sempre lì sopra, isolato da tutti gli altri, sempre quei cinque piccoli passi davanti a loro.Sono da solo capisci!- Gli mancavano solo più gli occhi lucidi.

-Sono lì da solo, solo con la mia tromba e un microfono, inondato da una luce bluastra che vorrebbe ricordare quella della luna, ma non ci riesce mai. Cerco di guardare oltre quel muro di buio dove si nascondono tutti gli altri, ma non ci riesco. A volte colgo qualche movimento confuso e qualche ombra che si avvicina, ma non riesco mai a vederne nessuno, nemmeno uno di quei volti.-
Il tono era sceso, ora, più placido, non mi guardava nemmeno più, sembrava parlare da solo.
-Strizzo gli occhi per bucare quella luce fino a far uscire qualche lacrima leggera, provo fino a quando sento il giro di basso che mi introduce. Allora mi arrendo e chiudo gli occhi. Mi rifugio nel mio buio e prendo fiato. Respiro.-
Fece il giro della sedia e ci si abbandonò sopra. Ora sembrava di nuovo cosciente della mia presenza e dopo avermi rivolto un rapido sguardo alzò le mani che stringevano ancora la tromba, ora però con più dolcezza, accarezzando i tasti.
-Le dita vanno a memoria, non devo pensare a muoverle sai? Si alzano e si abbassano con un movimento semplice che hanno imparato piano piano, credo sia il primo vero movimento che hanno fatto da quando hanno coscienza. Ed il resto di me deve solo respirare.-
Prese fiato e appoggiò le labbra al bocchino facendo nascere una breve sequenza, presa a caso dall’ultimo brano in scaletta: “The Great Escape”.
Non so, forse il problema è che mentre suono non devo pensare. Sarà per questo che il mio cervello allora inizia a immaginarsi i ghigni degli spettatori in sala, le smorfie che potrebbero fare, ma anche le risatine crudeli indirizzate a quel povero incapace illuminato di blu.- Alzò di nuovo lo sguardo verso di me, come inferocito, -E allora mi sforzo di dominarmi!- Gridò.
-C’è la collera che monta in me, che vorrebbe catapultarmi giù dal palco e mulinare la mia tromba come una mazza ferrata sulla testa mezza calva del primo ospite a tiro. Fracassargli la nuca sferrandogli la testa sulla preziosa tovaglia di velluto, frantumare i ricchi bicchieri con la sua bocca spalancata in una smorfia più di sorpresa che di dolore. Di certo non si aspettava una presa di coscienza così forte da parte di quel mentecatto musicista! Quel vecchio pelato!-
-Invece nulla di tutto questo succede. Un indizio di quello che immagino si potrebbe vedere standomi vicino lì sul palco, i miei occhi sembrano chiudersi su sé stessi innumerevoli volte, anche se non si sono più riaperti. Ma nessuno è abbastanza vicino. Sono relegato nel privilegio della solitudine.-
-Non voglio fare pause e interruzioni durante i concerti, perché non devo permettermi di abbassare la guardia e tutto ciò, mi costa una fatica immensa. Se dopo un’ora o un’ora e un quarto scendessi in camerino per bere un solo sorso d’acqua è probabile che scapperei dal retro mentre gli altri ragazzi tornano ignari sul palco per finire lo spettacolo. Mentre loro riprendono posto, io sfonderei la porta che dà sul vicolo qui dietro e correrei per tutto il fiato che mi è concesso, senza una meta, mi basterebbe solo sapere di allontanarmi da quella finta luce di luna.-
-E’ per questo che non apro mai gli occhi durante il live, mai, nemmeno un secondo. Devo essermi guadagnato così tutti quei soprannomi strambi. Manco fossi un vecchio bluesman.-

Era tornato calmo, e sembrava anche riposato. Non c’era più traccia sul suo volto della tensione che pochi attimi prima lo aveva trasfigurato. Se ne stava lì, seduto, sprofondato su una dura sedia di legno come se fosse su di una pomposa poltrona imbottita.

Passò qualche minuto prima che qualche parola mi uscisse tremolante.
-Mi hai scioccato lo sai? Se c’era una cosa che potevi fare per lasciarmi inebetito, beh l’hai fatta.-
Ed ero sincero, in tutti questi anni passati più o meno insieme, non aveva mai lasciato fuoriuscire una sola goccia di quel sudore freddo che gli aveva rigato il viso.
A vederlo ora, nemmeno sua madre avrebbe percepito la paura che c’era dietro quegli occhi profondi e neri. Era l’impersonificazione della sicurezza in sé stessi.
Era disarmante, imponente e stupendamente disarmante.
Rimanemmo così per lunghi minuti, il tempo prima dell’entrata in scena si stava riducendo. Lo fissavo in silenzio, guardavo prima le sue scarpe lucide di vernice, i pantaloni stirati egregiamente dalle stesse dita che ancora sfioravano la lucentezza della tromba appoggiata sulle sue gambe, il largo torace incorniciato dalla giacca cucita su misura, il collo ancora libero dal cappio del cravattino e la pelle asciutta e rasata di fresco del viso squadrato, con un mezzo sorriso a tagliargli la faccia.
Finalmente si alzò, andò verso lo specchio e si fece il nodo, sistemandolo in mira al pomo d’Adamo. Pareggiò i polsini bianchi della camicia oltre il confine della giacca.

Attraverso la porta arrivavano i suoni dei primi applausi. Nat doveva essere salito sul palco per annunciare la serata, salutare gli ospiti paganti, ringraziare lo staff del locale e snocciolare tutto il galateo delle grandi occasioni.
-Sentito? Il boia sta annunciando i nomi dei condannati.- Mi era uscita così, un maldestro tentativo per sdrammatizzare.
Mi sorprese di nuovo, rivolgendomi stavolta un sorriso pieno, come se la battuta lo avesse veramente messo di buon umore.
-Grazie.- Semplice e caldo. Era pronto. Fece due passi verso la porta .

-Hei Francis.- Le parole mi uscivano chiare e sicure questa volta.

-Quello che tu vai a fare là fuori, sarà anche una cosa che ti costa una fatica immane, ma è quello che sai fare ad occhi chiusi da quando sei nato, da quando hai imparato a tenere in mano gli oggetti. L’oggetto per le tue mani, per le tue dita, per i tuoi occhi. Quella tromba, per te, non è uno strumento come gli altri. Con un po’ di esercizio anch’io sarei capace di usare le mie mani, le mie dita per produrre dei suoni. Potrei diventare un buon bassista sai. Sento che potrei farlo. Potrei far parlare un po’ i miei pensieri e provare ad aggiustare, un pochino almeno, il ritmo del mondo. Ma tu fai una cosa diversa. Usi le tue mani è vero. Usi le tue dita con un talento che pochi hanno, quei tre tasti li trasformi in tremila. Ma tu fai ancora una cosa diversa, perché a suonare con le mani sono tutti capaci ma, a metterci il proprio respiro, quasi a far uscire l’anima, è un’altra cosa. Tu non sistemi il ritmo del mondo, tu crei un mondo tutto nuovo, nuovo e meraviglioso, che non ha simili.Tu Francis sei un’altra cosa.-
-Grazie- Questa volta anche i suoi occhi erano caldi.

Afferrò la maniglia e non si voltò più, vidi ancora un ultimo scintillio della sua tromba mentre la porta si richiudeva su sé stessa.
Mi versai un bicchiere d’acqua dalla bottiglia sul tavolino davanti allo specchio e mi ci riflessi per pochi attimi. Se trovo lo specchio giusto mi piace osservarmi un po’ meglio, credo di dare il meglio di me da vicino, diciamo da una distanza compresa tra i trenta e i novanta centimetri.
L’acqua era fresca e mi risvegliò le viscere addormentate. Decisi di non andare a seguire lo spettacolo da davanti al palco, ma nemmeno dalle quinte. Volevo provare ad avere anch’io il privilegio della solitudine nel sentirlo da solo dal suo camerino. Non avrei avuto un’acustica eccellente, ma ero sicuro che la sua tromba si sarebbe sentita perfettamente anche da lì dentro, il suono avrebbe rimbalzato per tutto il corridoio che partiva dalla porticina dietro la tenda, dove si trovava la batteria e avrebbe raggiunto a sobbalzi la porta della terza stanza in fondo a sinistra.
Mi versai un altro bicchiere d’acqua e mi misi “comodo” sulla sedia dove poco prima si trovava Francis, cercando di copiare la sua postura senza successo.

Un nuovo applauso, più lungo del precedente. Stavano per iniziare.

Eccola la sua tromba, la sua anima. L’apertura era una delle parti che preferivo, Francis partiva subito incastrando le sue note con quelle del basso fino a sovrastarlo e a diventare completamente protagonista, e subito dopo rilasciava spazio a basso e batteria, inserendosi a momenti quasi chiedendo il permesso. Aveva una sensibilità unica, diversa. Era davvero un’altra cosa.
In tutti questi anni passati quasi assieme nemmeno io gli avevo mai detto nulla di cosa pensavo di lui così apertamente, ma questa volta mi era uscito tutto. Lo ammiravo e quello mi sembrava il momento giusto per farglielo sapere. Non sono uno che si smiela, mi piace pensare di portare una maschera cinica e apparire sprezzante, ma non era quello il caso. Con Francis non avevo bisogno di apparire, era una delle poche persone che mi lasciavano accomodare spogliato dei mezzi di sopravvivenza necessari nella società. Mi ero deliziato per anni della sua amicizia e della sua musica in modo del tutto gratuito, speravo con quelle parole di avergli indicato la strada per ritrovare la forza in sé stesso. Era stato un modo molto semplice per sdebitarsi.
Ora Francis duettava con la sezione di fiati e tutta la band gli andava dietro alla grande, erano al secondo brano in scaletta. Una cover di Mingus. Moanin’.
Si, come al solito mi sopravvaluto. Francis non aveva bisogno di me, fosse stato da solo in camerino quel giorno avrebbe comunque ritrovato il controllo, anzi magari ero stato io ad avergli scatenato quella reazione col mio modo di fare da gran simpaticone.

All’improvviso però uno strano silenzio, nessun applauso, la tromba era muta quindi stavano per iniziare un nuovo pezzo, ma mancava il classico strascichio di applausi che chiudeva il brano precedente. E dopo Moanin’ il pubblico non poteva non riversarne una cascata.
Tesi l’orecchio e il silenzio andò avanti in assolo per altri venti secondi, poi udii un urlo di sorpresa più che di dolore o paura, seguito immediatamente da un fragore come di tavolo rovesciato. Poi un altro urlo seguì il precedente e mi sembrava di riconoscere una voce familiare, anche se gli urli a volte nascondono il loro padrone.
Di nuovo silenzio. O magari i rumori della sala venivano in qualche modo filtrati. Tesi l’orecchio verso la porta.
Un altro coro di urli fece da sfondo a un tonfo possente e subito dopo un correre disperato si fece largo lungo il corridoio e i passi impazziti superarono di slancio la porta del camerino dove mi trovavo.
Mi alzai più curioso che spaventato, una roba del genere non mi era ancora capitata. Andai veloce verso la porta per guardare fuori. Verso il palco non c’era nulla di particolare, allora mi voltai in direzione dei passi oramai lontani.
Feci in tempo a vedere la porta dell’uscita sul retro richiudersi dopo aver sbattuto contro il muro che terminava il corridoio.
Guardai di nuovo verso il palcoscenico e un gruppetto si era radunato a sbirciare nella mia direzione. Rientrai in camerino.

A guardar bene, non avevo visto solo la porta dell’uscita sul retro richiudersi. C’era un altro particolare che stavo mettendo a fuoco solo ora. Un luccichio, un’ultima strizzata d’occhio. Una tromba. La tromba di Francis stretta nella sua mano in fuga.

Mi si stampò in faccia un bel sorriso. Andai verso lo specchio e mi guardai per pochi secondi. Si, da vicino facevo davvero una bella figura. Mi chinai, aprii l’anta del mobiletto e tirai fuori una bottiglia di “Moonshine” mezza vuota, presi anche un bicchiere. Mi appoggiai con la schiena al bordo del mobiletto e con il bicchiere mezzo pieno feci un brindisi all’attaccapanni, dov’era e dove sarebbe il rimasto un lungo cappotto blu scuro.

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2 commenti »

  1. Non è male è gradevole la lettura

  2. Grazie davvero per i complimenti.

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