Premio Racconti nella Rete 2014 “La donna che doveva morire” di Francesco Calè
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014Sollevò gli occhi affaticati dalle carte ordinatamente disposte sul suo scrittoio. Su quelle carte, a malapena illuminate dal fioco chiarore della candela che si consumava affianco a lui, aveva appena finito di fissare, con la sua grafia precisa, nitida, meticolosa, quella verità che lo tormentava. Una verità che gli era cresciuta dentro, in tutti quegli anni, come un corpo estraneo, come una materia oscura, e di cui aveva dovuto infine prendere atto con sofferenza e a disagio.
Un disagio che ora si mischiava e si confondeva con l’orgoglio della grande opera che stava per portare a compimento. In questo orgoglio, i suoi tormenti trovavano pace e giustificazione. Tutti i suoi dubbi, le sue incertezze, si trasfiguravano, per essere illuminati di una luce nuova. La luce eterna del bello, del buono, del giusto.
Fu nello splendore di questa luce, più forte, più potente della tenue fiammella della candela che stava ormai per finire di bruciare, che rilesse quello che aveva scritto. Conveniva che quella donna morisse.
Questa la verità che lo perseguitava. Ma era appunto, e lui ne era consapevole, la verità. E della verità lui aveva deciso di essere umile e scrupoloso servitore. Per essere illuminato anche lui, negli anni e nei secoli a venire, del fulgore di quella luce. La luce che da tempo si era prefissato di seguire sempre e comunque, con studio, con pazienza, con determinazione.
Era la luce che richiedeva la morte di quella donna. La luce ne aveva stabilito la necessità. Per la maggior gloria sua, certamente. Ma anche per la gloria della donna. Che sarebbe stata sottratta definitivamente alla meschinità delle caduche e corruttibili cose terrene. All’inevitabile deteriorarsi dei corpi. Sarebbe stata rapita alle impurità del mondo, per essere innalzata ai cieli limpidi della perfezione. Affinché ciò si potesse compiere, ella doveva morire.
E ad accompagnarla verso questa morte ineludibile, necessaria, doveva essere lui. Lui, consapevole depositario di una mente superiore che da sempre lo distingueva dalla massa rozza e volgare che incosciente e cieca gli si dibatteva attorno, a calcare insolente la sua stessa terra, le sue stesse strade. Lui, che dietro l’apparente casualità con cui le vicende umane si intrecciavano e si aggrovigliavano, dietro l’oscurità e il caos, sapeva intravedere l’ordine prefissato, le leggi immodificabili che scandiscono il ritmo e l’armonia dell’universo.
Lui, che quella donna l’aveva amata e l’amava. E che avrebbe continuato ad amarla. Per l’eternità.
L’aveva incontrata, per la prima volta, quando avevano entrambi nove anni. Nove anni e tre mesi lei, nove anni e nove mesi lui, per la precisione. Due bambini. Due anime innocenti, inconsapevoli. Ma nell’inconsapevolezza della sua anima, a partire da quell’incontro, si era stabilito e aveva preso a crescere quel pensiero fisso, oppressivo, tirannico. Il pensiero di lei, della sua immagine incontaminata, pura, candida. Il pensiero del proprio amore per lei. Un amore a cui aveva giurato silenziosa fedeltà, con la determinazione che già lo guidava, in quell’età in cui gli altri fanciulli pensano a baloccarsi con trastulli puerili e ingenui. Un amore che, lui lo sapeva, doveva essere pieno, assoluto, totalizzante.
E dunque aveva lasciato che il proprio nobile spirito venisse invaso e occupato dall’amore. Un amore che avrebbe condizionato i suoi gesti, i pensieri, i comportamenti, negli anni a venire. Quei lunghi anni in cui le loro strade non si erano più incrociate e le loro vite si erano svolte distanti. Ma l’immagine di lei era sempre lì, sempre presente, a guidare i suoi passi. A ispirare la sua condotta e il suo contegno.
L’avrebbe rivista solo nove anni dopo il loro primo incontro. Splendida. Solenne e al contempo delicata. Vestita di quell’abito bianco e scortata da due donne più anziane di lei, ai due fianchi, ad accompagnarne il cammino. Era stato il caso, il destino o la luce dell’amore che aveva voluto che quel pomeriggio entrambi percorressero la stessa strada? Camminavano l’uno verso l’altra, venendosi incontro. Poi, il fugace incrocio dei loro corpi e dei loro sguardi. Il saluto cortese di lei. Le labbra che si schiudevano a sussurrare, al suo indirizzo, “buongiorno”.
La prima e unica parola che lei gli avrebbe mai rivolto. Una parola sola, che era bastata a stordirlo. Colmato dalla dolcezza di quella parola, ubriaco del suo sapore, aveva dovuto correre a casa, a rinchiudersi nella propria solitudine. In quella solitudine, era piombato in un languido sonno, in cui era venuta a fargli visita una visione terribile e insieme soave.
Una nebbia rossa come il fuoco aveva riempito la sua stanza. Da quella nebbia era emersa una figura splendente, spaventevole, magnifica. In quell’essere bello e tremendo, lui aveva riconosciuto il proprio signore e padrone. Le braccia stese di fronte a sé, a sorreggere le membra inerti e abbandonate di una donna nuda, avvolta in un drappo color del sangue, dormiente. La donna della sua vita. Colei che gli aveva generosamente concesso quella parola salvifica, quel “buongiorno”.
La creatura, terrifica e sublime, aveva continuato a reggere con un braccio la donna priva di sensi. Aveva sollevato l’altro braccio, a mostrare la massa carnosa e sanguinolenta che stringeva nella mano. Un cuore umano, vivo, pulsante, fiammeggiante.
La donna si era ridestata. Atterrita, supplicante, lo aveva guardato e poi aveva guardato la creatura che continuava a tenerla stretta. Questa l’aveva costretta a cibarsi, pezzo dopo pezzo, di quel cuore. Lui non aveva potuto fare altro che assistere, attonito e impotente, allo spettacolo della donna che, tra lacrime, singhiozzi e implorazioni, mandava giù un boccone dopo l’altro di quell’orrido pasto.
Si era svegliato di colpo, all’improvviso, a scappare via da quel sogno. Un sogno che gli aveva lasciato addosso una sensazione di ansia e di inquietudine che l’avrebbe accompagnato nei giorni successivi. Quella sensazione, pian piano, inesorabilmente, era destinata a trasformarsi in un pensiero, un’idea, prima timida, appena accennata, poi sempre più chiara, solida, definitiva. L’idea dell’amore. L’idea della morte.
Per sottrarsi alla spietata e dispotica ineluttabilità di quell’idea, aveva cercato di nascondersi dalla luce. La luce che continuava a provenirgli dall’immagine della sua donna. Da quell’immagine aveva provato a fuggire, corteggiando le altre. Altre donne, a cui aveva dedicato attenzioni e aveva tributato interesse. Un interesse insistente, petulante, a volte irriguardoso. Di questi suoi atteggiamenti sfacciati, lei, la donna, era venuta ad avere notizia. Per questo, non lo avrebbe mai più salutato. Non gli avrebbe più rivolto quel soave e ubriacante “buongiorno”.
Ma l’idea, prepotente e imperiosa, era tornata a fargli visita. Era tornata ad insediarsi nel suo cuore e nella sua mente, per avere conferma e suggello quando quella donna, la donna, era andata in sposa a un altro. Un banchiere. Uno dei notabili più in vista e più influenti della città. Quella città dal grande e virtuoso passato, che ora, nel misero e gretto presente, rinserrava i propri sogni e le proprie aspirazioni nelle cassette delle banche e poggiava la propria presunzione di nobiltà sugli ori e sui denari.
A tanta rozza e bruta materialità la donna, la sua donna, doveva essere sottratta, per essere elevata a gloria imperitura. Lo richiedeva l’ordine superiore delle cose. Ne aveva avuto certezza quando lei si era ammalata: la vicinanza di quell’uomo, la grettezza di quella banale e insignificante unione matrimoniale, la consumavano, la facevano deperire.
E aveva avuto altresì certezza che doveva essere lui l’artefice e il motore terreno di quel piano, un piano necessario perché tassello di un disegno più ampio, quando la famiglia della donna si era rivolta a lui perché confezionasse i preparati e i rimedi prescritti dalla scienza medica, che avrebbero dovuto procurarle salvezza e salute.
E invece, in quelle misture, piano piano, a poco a poco, lui stava confezionando la morte. Una morte lenta, dolce, ineluttabile.
La morte di cui egli aveva finalmente riconosciuto l’esigenza e la doverosità. L’aveva scritto, per avere fissata di fronte a sé, nella tangibile e concreta corporeità della carta e dell’inchiostro, la necessità di quell’opera. La grande opera. Quelle parole, le sue parole, quelle con cui aveva attestato che “conveniva” che la donna morisse, stavano a ricordargli e a tener ferma la meta.
La donna sarebbe stata strappata a questo mondo, alle miserie della vita mortale, all’imperfezione dei corpi. Sarebbe scomparsa all’angusto e confuso presente di quella città, per rifulgere della luce dell’eternità.
Quell’eternità di cui avrebbe goduto anche lui. L’eternità che avrebbe declamato nei versi e nelle terzine del poema che ancora doveva apprestarsi a scrivere, ma che aveva già tutto chiaro e nitido nella mente. Il poema che avrebbe reso immortali, nei secoli futuri, il proprio nome e quello della donna.
La donna che per tutti era Bice. Bice, la figlia di Folco Portinari. Bice, la moglie di Simone de’ Bardi.
Quella che per lui era e sarebbe sempre stata Beatrice.
Era immerso in questi pensieri di beatitudine e di gloria, quando fu riscosso dal clangore metallico immediatamente dietro la sua porta, e da quell’urlo. “Aprite! In nome del Comune di Firenze, vi intimo di aprire!”.
Sorpreso, intimorito, si levò in piedi, incerto sul da farsi. La porta in legno rimbombò di due, tre urti consecutivi. Sotto quei colpi secchi e decisi, il debole uscio cedette. A quello schianto, si rivelò la figura del Bargello. Dietro di lui, tre uomini in armi. Due con le spade sguainate. Il terzo che reggeva una lanterna.
Si schermò il volto con una mano, a proteggersi da quella luce che impietosa gli veniva puntata addosso, mentre il Bargello, autoritario, proclamava “Messer Durante degli Alighieri, nel nome del Popolo e della Città di Firenze, vi dichiaro mio prigioniero per il tentato veneficio ai danni di Monna Bice Portinari, maritata a Simone de’ Bardi!”.
Confuso, cercò di afferrare la spada che aveva al fianco. Non glie ne dettero il tempo. Due uomini, sicuri, risoluti, lo afferrarono.
Lo portarono via mentre urlava “non potete! La mia opera! La mia grande opera!”.
“Di quale grande opera andava blaterando quel folle?”, chiese uno degli armati al Bargello, che si era portato di fronte allo scrittoio ingombro di carte.
Il capo dell’autorità di polizia scrollò le spalle, dette un’occhiata rapida e sprezzante a quel cumulo di scritti, e rispose “vallo a sapere. Si è sempre piccato di essere un poeta. Un grande poeta. Ma dubito che qualcuno ci abbia mai capito un granché dei suoi versi. Un mucchio di incomprensibile ciarpame”. Poi, con una manata brusca, spazzò via l’ammasso di fogli.
L’altro, con un sorriso di scherno, osservò “ne potrà scrivere ben poche di poesie, ora”.