Premio Racconti nella Rete 2014 “Testa di donna” di Claudileia Lemes Dias
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014L’autobus a due piani, graffitato lateralmente con scritte in arabo, si arenò in mezzo all’ingorgo di macchine colorate che adornavano il lungotevere.
Nel lungo serpentone di veicoli, nervoso, rumoroso, ma quasi immobile, si trovava il piccolo Dario, rassegnato su di un autobus a due piani giallo e con una colossale scritta: ROMA CRISTIANA. In quel momento, era troppo concentrato su i suoi piedini gonfi perché la sua neofita mente comprendesse il significato di quell’accostamento.
Preparandosi mentalmente a gettarsi a terra, senza però farsi troppo male. Con una vocetta decisa esclamò:
«Voglio andare a casa!».
«Tesoro, per favore, ne mancano solo altre tre…» rispose la mamma, utilizzando però le parole sbagliate, poiché quelle giuste le aveva già sprecate tutte. Cercò nuovamente di consolare il figliuolo anche se l’indicatore di pazienza avvertiva che la saliva era oramai in riserva.
«Ne abbiamo viste dieci! Sono stanco e poi sono tutte uguali!».
«Cucciolo, non sono tutte uguali! Poi andiamo da McDonald’s, dai!» intervenne il padre, trattenendo tra i denti una sequela di parolacce e preparandosi psicologicamente alla nota tragedia greca cui avrebbe assistito da lì a poco, con Dario come protagonista che caracollava a terra come un pacco di patate caduto da un edificio di cinque piani e che apriva le fontane degli occhi, tra urla e singhiozzi, come un maialino pronto al macello, mentre le persone attorno guardavano lui e la moglie, Francesca, come dei sadici torturatori.
Da grande attore, formatosi con il metodo Stanislavskij, Dario non voleva deludere babbo e mamma privandoli del loro spettacolo quotidiano. Aveva per l’occasione preparato un tiptap preliminare degno di Gene Kelly, accompagnato da un muso che si gonfiava e sgonfiava ritmicamente fino a modulare degli acuti vocali da grande tenore.
Bisogna dargli atto che aveva provato di tutto per distrarsi: si era arrampicato sulle statue, aveva toccato i dipinti per far attivare l’allarme, asperso di acqua benedetta tutti i bambini, fatto rumore con le scarpe nel bel mezzo di una funzione religiosa e spento le candele votive fingendo un clamoroso starnuto. Cioè, tutto quello che un qualsiasi bambino di nove anni con tanta voglia di tastare il mondo aveva, secondo la sua filosofia, il “diritto”di fare.
Purtroppo, la sua presunta iperattività, anziché essere decifrata, veniva imprigionata in un acronimo della migliore tradizione statunitense ed enfatizzata con disinvoltura in un problema pronto per essere curato da scienziati.
Qualche volta gli aveva fatto comodo questa sua condizione perché i genitori, pur di evitare le sue scenate, gli facevano concessioni più del dovuto. Una volta a settimana andava dalla psicologa, tanto per non deluderli, poiché provavano una curiosa soddisfazione nel confrontarsi con le altre famiglie e raccontare il martirio quotidiano a cui venivano sottoposti.
E così il piccolo Dario, pur di farsi diagnosticare una sindrome qualunque, smise di vedere la TV, di giocare con i gameboy e picchiò il suo vicino di banco perché lo chiamava “Carota”.
Tutto sommato, dopo tanti sforzi del giovane fantasista, la psicologa sentenziò:
«ADHD, Attention Deficit Hyperactivity Disorder», pronunciandolo con una solennità paragonabile solo allo sfoggio del suo inglese imparato con il corso avanzato comprato all’edicola sotto casa.
Tradotto in italiano voleva dire che il loro figlio era un noioso al quadrato, con grande probabilità di diventare un fallito, un perdente, insomma, un completo disastro nell’ambito scolastico, sociale e familiare. Nemmeno Nostradamus avrebbe potuto prevedere un futuro così catastrofico, ma la intailleurata psicologa sì, grazie alle scoperte americane in campo farmaceutico aveva pronta anche la cura con le nuove pillole “Zombie”.
Solo Dario conosceva il vero motivo per cui andava alle sedute terapeutiche. Non ci avrebbe mai rinunciato, per nessuna playstation al mondo, a percorrere quel tratto di strada che separava la casa dallo studio medico tenendo la mano del padre. Lui, sempre intento a nuotare nei propri pensieri e sempre attaccato all’inseparabile telefonino, in quel piccolo tragitto, forse spinto dalla consapevolezza della propria assenza nella crescita del figlio, accennava la sua migliore stretta riparatrice.
Oramai l’attimo di gloria di Dario era arrivato, la scenografia era perfetta e la sceneggiatura imparata a memoria.
Non rimaneva altro che battere il ciak per combinare il più gran casino che le società dei pullman turistici romani avessero mai assistito.
«Dario, guarda, nessuno degli altri bimbi si lamenta!», gli fece inutilmente notare il padre.
Dario guardò e vide, come in uno specchio, visi infantili annoiati e stanchi, che avevano necessità urgente di un letto senza però il coraggio di farsi portavoce di un diritto inalienabile, come previsto anche dalla Convenzione del Fanciullo, e cioè essere bambini nell’età e nelle azioni.
Il padre, prima di passare al piano B di BASTA! cercava di minare la sicurezza del ragazzo il quale credeva di essere investito da un suffragio del popolo dei fanciulli. Nel piano B il padre diventava rosso, proprio come Dario, ma non si buttava a terra, si limitava a ripetere la parola “basta” e a ruotare gli occhi in senso orario ed antiorario, come se vedesse una squadriglia di mosche girarli dintorno. A volte alzava la mano minacciando uno schiaffo e inseguendolo per tutta la casa, pur sapendo che il ceffone non sarebbe mai arrivato a destinazione, timoroso di una chiamata al telefono blu.
Dario, alla ricerca di un’ultima approvazione da parte degli altri bambini, si imbatté nello sguardo di una ragazzina della sua età che si trovava nell’altro autobus, quello con le scritte in arabo e che, da quasi quindici minuti, era fermo nell’ingorgo accanto al suo pullman.
La bambina aveva dei grandi occhi scuri, sorridenti e pieni di energia, i capelli, nascosti da un velo giallo che contrastava con la pelle del viso lievemente brunita. Pensò che dovevano essere castani e molto mossi.
La prima tempesta di lacrime che Dario aveva faticosamente preparato si fermò, nascondendosi al disotto delle cornee.
Il sistema nervoso centrale gli inviò un telegramma urgente: “No brutte figure.
Bimba bella ti guarda”. Dimenticò il padre, la madre e il dolore ai piedi, l’incompresa arte millenaria divenne un lontano ricordo quando si perse, per la prima volta, in un viso incorniciato da un foulard giallo, il foulard del suo primo amore.
Tahia gli sorrise, prima di voltarsi verso la madre:
«Tahia, fai attenzione, la Mecca è da quella parte», indicò la mamma, mettendo le mani all’altezza del petto, la destra sopra la sinistra, ed iniziando la salat, avendo il sole da poco oltrepassato lo zenith.
Quella mattina, tutti avevano fatto le abluzioni nella moschea e pregato prima di iniziare la giornata. Tahia si era più volte trattenuta dal bagnare con l’acqua le sue cugine più grandi, che la escludevano ritenendola ancora troppo piccola.
Imitò istintivamente le altre donne che, a quel punto, si erano messe le mani all’altezza del petto:
«Sia gloria a Te, o Allah, esaltata la Tua lode!».
Era un po’ strano pregare all’interno di un autobus in mezzo al traffico caotico di una vecchia città straniera, però la sensazione che più la rendeva inquieta era sentirsi attentamente osservata da una platea di turisti.
Quando iniziò la seconda Sura, Tahia lottò per non perdere la concentrazione, distratta dal rumore dei clacson. A quell’ora sarebbero dovuti già essere alla moschea e lì avrebbero dovuto, secondo programma, recitare la preghiera, ma l’autobus era incastrato come un diamante grezzo nella roccia e non si muoveva di un millimetro.
I passeggeri portarono le mani sulle ginocchia, pronunciando per tre volte:
«Allahu Akbar! Subhana Rabby al-‘azim!»
Tahia cercò di non guardare oltre il finestrino per scoprire se il ragazzino fosse ancora lì. Era consapevole che se lo avesse fatto Allah avrebbe invalidato la sua preghiera e così, pensando che Lui non se ne accorgesse, provò a muovere solo le iridi verso la coda degli occhi, ma in quel momento tutti sembrarono indovinare le sue intenzioni e si prostrarono a terra con le mani al viso. Tahia li dovette seguire:
«Subhana Rabbi al-A’la“!» lodarono.
Dopo un po’, finita la preghiera i bambini ricominciarono a giocare.
Quella mattina erano stati alla Grande Moschea voluta dal re saudita Feysal, dove avevano pregato nel suo interno magico e disadorno, in cui le voci, non assorbite da dipinti e statue, facevano eco per andare dritte al cuore. Poi, erano andati a fare colazione nella pasticceria di Abu-l-Hasan, divorando una gran quantità di dolci annegati in un buonissimo miele italiano. Avevano inoltre visitato la Moschea Mokki dove, incontrando i bambini delle povere famiglie del Bangladesh, avevano capito di essere fortunati. Infine, seguendo il percorso guidato della Roma Mussulmana, le bambine si erano divertite nella bottega di Salah Udeen, venditore da generazioni di perline di vetro provenienti dalla Siria e dall’Egitto.
Le donne si erano perse tra il tintinnio di bracciali, collane e orecchini, mentre gli uomini erano andati a farsi tagliare i capelli da Dhul Fiqaar, il barbiere musulmano più in della capitale. Tahia non vedeva l’ora di uscire da quello “stato di fermo” per continuare a conoscere la città.
Si girò nuovamente verso l’autobus giallo nella speranza di rivedere quel bimbo dal viso stanco e dagli allegri capelli rossi. Lo vide, era proprio davanti a lei, senza che niente altro, oltre al vetro del suo finestrino, si interponesse in mezzo. Era fermo con la mano nella mano di una signora con i capelli rossi, proprio uguali ai suoi.
La signora, imbarazzata, bussò delicatamente sul vetro richiamando l’attenzione di tutte le donne che si trovavano all’interno dell’autobus.
Dodici paia di sopracciglia femminili, incluse quelle di Tahia, si alzarono, andando a sbattere contro lo hijab.
***
Dario accostò le mani vicino agli occhi per eliminare i riflessi del sole e vedere meglio lo strano balletto di uomini e donne all’interno dell’autobus vicino.
«Cosa stanno facendo?», chiese alla madre, dimenticando che avrebbe dovuto entrare in scena e recitare la parte del bambino problematico.
«Chi?».
«Lì, in quell’autobus con le scritte strane», rispose, indicandolo alla madre.
«Pregano. Sono musulmani», disse lei, abbassandogli la mano. «Quante volte ti ho detto di non indicare con il dito?».
«Perché pregano in quella posizione invece di mettersi in ginocchio come noi?», chiese incuriosito Dario, notando che al primo piano dell’autobus si trovavano le donne e i bambini mentre, al secondo, gli uomini.
«L’unica cosa che so è che pregano in direzione della Mecca, la città che per loro è sacra… Comunque, fai troppe domande!», tagliò corto il padre.
«Perché gli uomini sono sopra e le donne sotto?».
«La cosa non ci riguarda. Smettila di guardarli con questa insistenza!», continuò a rimproverarlo il padre.
«Che c’è di male nel guardare? Gli occhi servono a questo!», esclamò stizzito, solo per contraddirlo. «Perché le donne hanno la testa coperta e gli uomini no?» chiese, puntando nuovamente il dito.
«Dario, noi siamo cristiani, hai capito? C-R-I-S-T-I-A-N-I. Sono usanze loro! E smettila di puntare il dito come uno scemo!», disse il padre bacchettando la mano del figlio.
«Le donne forse hanno la testa coperta per… per proteggere i capelli dallo smog, mentre gli uomini non li coprono perché i loro capelli sono più forti», disse timidamente una bambina con le lentiggini.
«Non vedi che là sopra ci sono tanti pelati!», intervenne un altro bambino. «Mio padre mi ha detto che gli uomini fanno mettere il velo in testa perché sono gelosi!».
«Ah!», esclamò la bambina con le lentiggini, non del tutto convinta di questa nuova tesi. Tentando di riproporre la sua teoria, aggiunse ancora: «forse alcuni sono pelati perché i capelli non sono stati protetti…».
«Sei proprio stupida!», esclamò Dario con aria autorevole.
«Non vedi che anche qua ci sono i pelati e i capelloni?».
«Stupido sarai tu!», ripeté la bimba e, per non farglielo dimenticare, sparò:
«Stupido! Stupido! Stupido!».
«Cicciona!», contrattaccò Dario.
«Ora basta!», esclamò la madre, interrompendo il diverbio.
«Dario, siediti lì!».
«Lei mi ha dato dello stupido!», singhiozzò Dario.
«Hai cominciato tu!», urlò la bimba.
«Dario, non farmi perdere la pazienza!», pregò la madre, mentre il padre stava in silenzio con lo sguardo meditativo di chi contempla il Grand Canyon.
«Balena! Balena!», ricominciò Dario in preda a una crisi isterica.
Caduto nell’abisso più profondo del Grand Canyon e riemerso nella realtà, il padre si schiarì la voce e mise in pratica il piano B:
«Dario, BASTA! Seduto! Adesso!».
«Non sono un cane!», ribatté Dario, consapevole dei limiti del padre. Sapeva che lo avrebbe minacciato con un ceffone cinematografico, ma che mano a mano che il braccio si fosse avvicinato avrebbe perso potenza, fino ad arrivare al viso come una forte carezza.
«Smettetela, tutti e due!», ordinò la madre, con voce tremante.
«Sono stanca! Dario, siediti!».
«Mi siedo solo se qualcuno mi spiega una cosa…».
«Che cosa vuoi, Dario?! Farci impazzire?! È questo che vuoi?!», disse il padre, scuotendolo di qua e di là.
«Perché le donne di quell’autobus hanno il capo coperto?», insistette Dario, formulando la domanda a tratti, giacché il padre lo sbatteva come un chicco di popcorn accaldato.
«Perché sono musulmane! Sono musulmane, hai capito o no?», rispose il padre con gli occhi iniettati di incomprensione nei confronti del figlio.
«Come mai la nostra vicina di casa è musulmana e non usa il velo?», ricominciò Dario con tutta la calma di questo mondo.
«Va bene, è questo che vuoi? Andiamo!», disse decisa la madre. «Autista! Può aprire la porta?».
«Signora, siamo in mezzo al traffico! È pericoloso», rispose l’autista.
«Per favore! Siamo fermi da quasi un’ora. Apra solo un minuto, un misero minuto. Per favore…».
L’autista, sbuffando, azionò un comando dal panello sul cruscotto e le porte si aprirono:
«Signora, un minuto».
Francesca prese violentemente Dario per mano e si diresse verso il vicino autobus cercando di calmarsi e riordinando qualche frase semplice con cui esordire. Era stanca di tenersi dentro il fallimento di non riuscire a capire il figlio, delle troppe e imperscrutabili azioni e domande. Non sapeva più come comportarsi o cosa rispondergli.
Dove abbiamo sbagliato, mio Dio? Signore, aiutami. Dammi la pazienza e la serenità per essere una brava madre…, pregava in silenzio Francesca.
Dario non fiatava più, ancora stordito dal comportamento della mamma, che bussava insistentemente sul finestrino della bambina. Per la prima volta da quando era nato, non era lui a condurre il gioco, a sbalordire tutti. Anni di psicoanalisi lo avevano fatto diventare un esperto conoscitore della mente umana. Sapeva che le reazioni dei genitori erano sempre le stesse, ma questa volta la madre era determinata come non l’aveva mai vista. Comprese come ci si doveva sentire a essere messo in imbarazzo davanti agli altri.
Una donna, accanto alla bambina, aprì finalmente il finestrino:
«Ha bisogno di qualcosa signora?», chiese, con una cadenza arabo-milanese.
Dario non aveva il coraggio di alzare lo sguardo. Si era arreso, passando il comando alla madre e limitandosi a muovere nervosamente le dita, fingendo di essere occupato.
«La prego di scusarmi se la disturbo», disse la madre.
«Questo è mio figlio Dario. Vorrebbe farle una domanda, se non le dispiace».
«Ma certo! Dimmi, Dario».
Dario avvertì gli occhi del mondo puntati su di sé. Era come annegare in una piscina di punti interrogativi che non avrebbero mai avuto una risposta all’altezza dei suoi dubbi.
I clacson smisero di suonare, gli uccelli si fermarono sui cornicioni per non fare rumore sbattendo le ali, le foglie secche, in incipiente caduta dai rami, si trattennero con tutte le forze per non staccarsi in quel momento. Gli automobilisti misero la testa fuori dai finestrini in attesa della formulazione di quella fatidica domanda.
«Dario? Coraggio, parla», esortò la madre, incrociando le braccia.
«Perché… coprite le vostre teste e gli uomini… no?», balbettò, con gli occhi bassi ed un finissimo filo di voce.
«Questo velo sulla testa si chiama hijab», spiegò la signora, con un generoso sorriso.
«Noi lo portiamo perché, secondo il nostro libro sacro, che si chiama Corano, così ha voluto il profeta Maometto. Alcune di noi lo usano, altre no, dipende dall’interpretazione che danno ai testi Sacri e dalla loro appartenenza al mondo islamico… Comunque sappi, piccolo Dario: coperta o scoperta, la testa è la parte più bella del corpo di una donna…».
Gli uccelli ricominciarono a sbattere le ali, le foglie a cadere, i clacson a bestemmiare, manovrati da autisti impazienti, che non riuscivano a trattenere le dita.
La madre disse qualcosa alla signora, qualcosa che lui non riuscì a sentire o forse non riuscì a capire rendendosi conto, in quel momento, di essere solamente un bambino di nove anni. Fu trascinato in fretta nel suo autobus, non prima di cercare nuovamente lo sguardo castano scuro della bambina col velo giallo. Lo vide allontanarsi per sempre, senza nemmeno sapere il nome del suo primo amore…
La madre, stremata, si sedette al suo posto, accanto al padre. Dario notò uno sguardo complice tra i genitori. Pacatamente, si mise accanto alla ragazzina con le lentiggini che dormiva pesantemente, con i capelli biondi sparpagliati sul vetro del finestrino.
«Figlio!», udì la voce della madre.
«Sì, mamma».
«Si chiama Tahia».
Bello e delicato! Hai preparato il finale molto bene. Complimenti!
Ma che bello! Delicato e vivace, profondo e leggero, sembra quasi un quadro di Hieronymus Bosch, pieno di particolari tanto surreali quanto autentici. Hai una bella mano Claudileia, continua a scrivere, non ti mancheranno le soddisfazioni. p.s.: io sono un amante della cultura araba e mi ha fatto piacere leggere i tuoi sapienti richiami.
Scritto benissimo. È colorato, evocativo e con un sapore dolce amaro perfettamente equilibrato.
Grazie per le vostre parole! Siete stati molto gentili nel commentarlo. Ringrazio a Giuseppe Panzera per gli auguri fatti nella speranza di meritarli per davvero… Ora vi leggo anch’io, con molto piacere!
Davvero brava!
Divertente e colorato,
oltre che ben scritto.
Mi piace troppo la frase:
Il sistema nervoso centrale gli inviò un telegramma urgente: “No brutte figure.” 🙂
Meritevole.
A presto.
M
😉
🙂
Peccato, mi era piaciuto molto.
Sei davvero brava.
Un abbraccio per te.
😉
Molto ma molto divertente. Quando ci si sente solidali con genitori non proprio perfetti, ma costretti a gestire un figlio “rompiglione”.
Ti faccio i miei complimenti augurandoti grandi successi che, a mio parere, meriti davvero.
Angela
Grazie mille a voi che l’avete commentato! Un po’ me l’aspettavo. L’importante è che il maggior numero di persone lo legga e ci rifletta sul messaggio dato. Un abbraccio.