Premio Racconti nella Rete 2014 “Schegge” di Federica Politi
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014Si è alzata dal letto. Si è diretta verso la finestra a piedi nudi. Attenta a non fare rumore. Granelli di polvere, peli, capelli e pelle. Sono rimasta immobile. Ho continuato ad osservarla da sotto le coperte. Fibra di cotone, lana scadente, polvere, peli, capelli e pelle.
Ha appoggiato la fronte al vetro. Era circondata dalla luce della Luna, come in un’aurea magica. Ho creduto di avere una visione ma ho sempre preso le medicine. Tutto reale. Nessun sogno.
E’ restata così per diversi minuti. Non potevo scorgere il volto. Ho scostato le lenzuola. Ho sollevato appena il capo. Nulla si è mosso. Nessuna si è svegliata. Il silenzio della notte è interrotto solo dall’ansimare di anime perse dentro ai sogni, dal lamento continuo di spiriti in fuga dai propri incubi, dal respiro regolare di chi è sprofondato nella nebbia del sonno.
Continuo ad osservarla. Ho paura che faccia qualcosa. Qualsiasi cosa. L’ansia cresce riempiendomi il petto. La controllo a fatica. È così difficile concentrarmi, distrarmi dalle mie fobie. Dalle mie ossessioni: così le chiamano. Sono solo pensieri, rispondo io. I dottori mi ascoltano ma poi le mie parole volano via, lontane. Non riesco a dargli un peso. Le vedo sciogliersi in lettere e come bolle disfarsi nell’aria.
Lei è ancora lì, in piedi davanti alla finestra. Vorrei chiamarla. Ordinarle di tornare a letto. Se le infermiere la scoprono saranno guai. Sussurro il suo nome. Piano, così piano che sembra solo un respiro profondo. Lei si gira. Si volta verso di me.
Lo sguardo, perso nel vuoto. Gli occhi, spalancati sul nulla. La bocca, socchiusa. Le guance, bagnate di lacrime. La mente, persa in un labirinto. Ricordi di dolore, di rimpianto, di rimorso, di struggente tristezza.
Con un movimento lento, appena percettibile, inizia a picchiare la testa contro il vetro della finestra. Una volta. Due volte. Piano. Meno piano. Veloce. Più forte. Il rumore si sostituisce al silenzio della camerata. La sua voce. Le sue grida. Le sua urla disperate squarciano la notte, raggiungono ogni angolo dell’ospedale.
Il vetro va in frantumi. Le schegge si spargono in ogni direzione. Lame taglienti. Lei non riesce a fermarsi. Il sangue le ricopre il volto, viola il candore della camicia da notte. Arrivano le infermiere. La portano via. Chi si è svegliato si rimette a dormire. La camerata piomba, di nuovo, nel silenzio. Qui, le malate non si spaventano per i deliri . A stento si rendono conto dei propri.
Vedo schegge ovunque. Le sento sulla pelle. Le sento nei palmi delle mani. Sotto alla pianta dei piedi. Negli occhi. In bocca, giù fino allo stomaco. Le sento scorrere nelle vene. Mi sento pungere. Ovunque. Non riesco a muovermi. Ho paura. Paura che penetrino ancora più in profondità. Sono sicura di morire. Lo sento. Un nodo si stringe in gola. Non respiro. Ansimo. Il mio cuore batte forte. Lo so. Tra poco le schegge raggiungeranno l’atrio, il ventricolo e allora sarà la fine.
Non so cosa fare. Non riesco a muovermi. Non so chiamare aiuto. Vedo solo schegge. Schegge di vetro insanguinate. Il respiro si fa più corto. La paura cresce, diventa un gigante che mi preme sul petto. Affogo. La testa gira. Sento un fischio forte nelle orecchie. Le ombre si disperdono nell’oscurità. Non sento più nulla.
Quando apro gli occhi, i primi raggi di sole illuminano la camerata. Le altre si stanno svegliando. Qualcuna è già vestita ed esce trascinando i piedi.
Sono stordita. Guardo verso la finestra. Hanno tolto tutti i vetri. Hanno pulito per terra. Sembra non sia successo niente. Le infermiere cambiano i letti chiacchierando dei propri morosi: hanno visi sorridenti, espressioni serene.
Forse sono svenuta ma ricordo quello che è successo. Mi guardo attorno. E’ tutto in ordine. Il lenzuolo è stropicciato ma pulito. Mi faccio coraggio. Metto un piede giù. Poi l’altro. Mi alzo. Il pavimento è freddo. Muovo un passo. Poi l’altro. E la sento. Minuscola. Infilarsi nella pelle, proprio lì, nella piega dove comincia l’alluce.
Mi appoggio al materasso. Prendo il piede con entrambe le mani. Lo porto oltre il ginocchio con la pianta rivolta verso l’alto. La vedo. Una scheggia acuminata e lucente, come un pietra preziosa, sprofondare nella carne, affogare nel sangue. Non riesco a smettere di fissarla. E’ tutto fermo. Sospeso, sull’abisso.
L’infermiera, vedendomi lì immobile in una posizione strana, mi chiama, pronuncia il mio nome. Alzo il volto. Tutto comincia a crollare . Grido come una matta. Devono togliermi la scheggia. Lo urlo con tutto il fiato che ho in gola. Gliocchi sporgono dalle orbite. Digrigno i denti. Serro le mascelle. Le vedo venire verso di me. Lente. Infinitamente lente.
Inveisco. Contro il mondo. Contro gli uomini. Brutte stronze. E’ tardi. Già la sento penetrare a fondo, sempre più in profondità. Già la sento, quell’unica scheggia affilata, in viaggio verso il cuore.
Veramente molto intenso. Complimenti. Non so a te, ma a me il rock piace. E il tuo racconto mi fa venire in mente i The Cure…
In bocca al lupo!
Bello. Coinvolgente, aspro, delirante. Tagliente come una scheggia…
Grazie Angelo Chiafari!
Grazie Mara Ribera
Un “zoomata” all’interno della sofferenza. Una lettura cruda e vicina alla protagonista, che in certi attimi prende la pancia del lettore.
Il tuo testo supera l’orizzonte del racconto, con una scrittura ben impostata che accompagna chi legge.
Silvia
Molto ben scritto. Si entra nella storia alle prime righe e non se ne esce più. Sincero e intenso, brava.
Grazie a tutti