Premio Racconti nella Rete 2014 “Eterea” di Laura Fortugno
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014Sullo schermo due coppie si stavano sfidando in una gara di ballo. Una replica del suo programma preferito.
La televisione era ancora accesa sebbene lei dormisse e la luce della radiosveglia proiettasse sul soffitto, a caratteri grandi come il suo zaino per la scuola, le cifre zero-uno-punto-zero-ventisette.
La tv per lei era un’amica; una compagna insostituibile; una voce sempre presente che non la faceva sentire sola e seppur la tenesse a basso volume – in modo che sua madre non sbraitasse – non la spegneva mai, per nessun motivo al mondo, neppure di notte.
Le serviva soprattutto certe sere quando quella “cosa”, a cui non aveva ancora trovato un nome, tornava a farle visita.
La “cosa” non aveva mai appuntamento e nonostante non fosse affatto gradita, come un ladro si calava all’interno della sua stanza, invadendo con sprezzo e prepotenza il suo rifugio e tutto ciò che doveva semplicemente essere uno spazio personale, dopodiché – senza che le venisse chiesto, come fa qualsiasi ospite non desiderato – iniziava a ricordarle, con crudeltà e minuzia, cose che lei non voleva sapere; che avrebbe desiderato dimenticare o meglio ancora, rimuovere completamente dalla sua testa.
Quella “cosa” poi, oltre a non piacerle, era anche brutta. Non di una bruttezza convenzionale o in qualche modo descrivibile: brutta da percepire.
Non possedeva infatti i tratti di nessuno; nessuna espressione e tantomeno aveva una forma o un colore. La “cosa” era soltanto un’ospite inafferrabile che si prendeva gioco di lei.
Essenzialmente – Martina adesso ne era certa – lo faceva perché ormai sapeva troppo, tant’è che conosceva dettagli della sua vita che non aveva mai confidato a nessun’altro. E Martina sentiva che la beffa stava soprattutto in questo – già – perché dovendolo ammettere, tutto quel potere in realtà, glielo aveva conferito proprio lei.
Forse per semplice ingenuità oppure ignorando quelle che sarebbero state le reali conseguenze, ma pur sempre colpevole di averglielo attribuito.
Fu quello il suo errore – ormai si sentiva sicura – perché oltre a “Lei”, Martina di certe cose; “quelle cose” nello specifico, davvero non aveva mai parlato a nessun’altro. Nemmeno ai dottori in seguito a quel giorno.
Ma lo aveva fatto soltanto perché, nei momenti in cui le lacrime non riuscivano a stare al loro posto, sentiva che con qualcuno doveva pur sfogarsi; con qualcuno doveva parlare.
E doveva farlo prima di tornare a sorridere al tavolo con gli altri. Con sua madre che non tollerava vederla piangere; con suo fratello Mattia, che era ancora piccolo e non poteva crescere accanto a una sorella maggiore debole e piagnona; con Pietro, che nonostante tutta la buona volontà che forse ci metteva, non ne sapeva proprio nulla di com’era lei e di cosa provava, e in fondo – si diceva – perché mai avrebbe dovuto?; non era mica davvero figlia sua come lo era invece Mattia.
E quale amico migliore aveva pensato, di una “cosa” che sembrava non esserci?. Di una cosa dentro di te?
Con “Lei” perciò Martina si era ingenuamente confidata più volte, dialogando in solitudine fra le mura della propria cameretta, ma le aveva raccontato dettagli e sentimenti talmente profondi e intimi, che tutte le confessioni fatte, adesso le si stavano addirittura ritorcendo contro.
La “cosa” sapeva tutto di lei e conosceva ogni sua fragilità.
Dai pensieri più intimi alle vicende più pratiche.
Sapeva ad esempio che non le piaceva studiare e che voleva fare la modella per poter far soldi senza continuare la scuola. Sapeva che la mamma invece l’avrebbe voluta medico esattamente come lo era stata lei.
Ma lei non ci pensava proprio. A che serviva – si diceva sempre – diventare un dottore – di quelli che indossano il camice bianco – oltre a vedere ancora più sofferenze di quelle che la vita già ti riserva?. Non serviva a niente, non era servito persino a sua madre che non era stata neppure in grado di capire fino a che punto papà fosse malato.
E, comunque, non era stata in grado di curarlo. Nessuno lo era stato.
Papà aveva un male di cui “non bisognava parlare”; di quelli che non si vedono – le aveva poi spiegato sua madre – di quelli che non danno un dolore al corpo ma soltanto all’anima. E l’anima, le diceva, difficilmente si può guarire.
Ma se davvero di una malattia si trattava e se il dolore da qualche parte c’era, papà andava curato – aveva sempre pensato Martina e la “cosa”; quella “cosa” che non si vedeva ma che praticamente ogni sera andava a trovarla, non faceva altro che ricordarglielo.
E andava fatto – pensava tormentandosi di nuovo l’anima – prima che potesse compiere quel gesto così assurdo e cattivo.
Martina infatti, la ricordava bene quella mattina così silenziosa di fine agosto che ancora non si era cancellata dalla sua mente, e anzi, ogni giorno sembrava imprimersi ancor di più dentro la testa.
Quella calda e muta mattina in cui mamma era di servizio in ospedale e papà se ne stava seduto sulla poltrona davanti al televisore a pensare chissà quali cose; chissà per quale motivo, convinto che lei dormisse serena nella sua stanzetta, quella colorata di lilla, della loro cascina in campagna.
Lei però, rannicchiata come un feto nel suo lettino, non dormiva.
Non dormiva perché pochi minuti prima, proprio lui l’aveva svegliata dandole un bacio sulla guancia, un bacio morbido e pieno di calore che lei aveva finto di non sentire per riceverne altri, per continuare a cullarsi in quello che credeva un bellissimo e interminabile sogno.
Uscendo poi, suo padre aveva accostato piano la porta, ma lei aveva già deciso di raggiungerlo silenziosa, per ricambiare quel bacio e fargli una sorpresa.
Aveva così camminato a piedi nudi leggera come una piuma; come una farfalla, lungo il corridoio e oltre il salone con il camino, quello che utilizzavano soltanto in inverno, specialmente a Natale, quando insieme a lei papà e mamma “facevano l’albero”.
Lo aveva attraversato riuscendo a non far scricchiolare il parquet e si sentiva felice perché, soltanto così, poteva essere una vera sorpresa.
Trattenendo il fiato era giunta fino alla porta della grande cucina, quella dove tutti e tre, insieme, mangiavano, ridevano, si raccontavano le loro giornate e guardavano la tv accoccolati sul divano.
Martina arrivò. Tardi.
Ma perfettamente in tempo per vedere quel colpo attraversare prima il cuscino e poi dall’altro lato, i capelli nero corvino di suo padre seguiti da un bagliore rosso accesso che come vernice di un quadro dipinto sul muro andò a imprimersi sulla parete di fianco a lui.
Martina aveva soltanto otto anni e il televisore di fronte a suo padre, quella mattina, non era acceso.
Complimenti, mi è piaciuto molto… Ha ritmo, è garbato e intenso!
Grazie di cuore Eleonora!. Fa molto piacere scoprire cosa si “trasmette” scrivendo 🙂
Ciao Laura, il tuo racconto è vivo, arriva. Mi è piaciuto molto: continua cosi, e in bocca al lupo!
Mi è piaciuto, è molto intenso: hai un modo speciale di scegliere i particolari, e riesci a catturare l’attenzione tenendola stretta fino alla fine
Cara Laura, mi ero persa questo tuo bel racconto. Molto toccante e narrato col tuo consueto stile pulito e incisivo.
Brava!
Grazie Lucia, felice ti sia piaciuto! 🙂
Grazie di aver letto e commentato anche questo racconto Paolopa e felice ti sia piaciuto 🙂
Grazie di cuore Mara!… le tue parole sono sempre molto incoraggianti 🙂