Premio Racconti nella Rete 2014 “Con Giorgia” di Sergio Sessini
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014Vent’anni dopo, di nuovo nella tua città.
C’è traffico, arriverò in ritardo. Obbedisco alle direttive della minuscola donna nascosta nel navigatore. Io la chiamo Jole. La penso grassa e ruspante. Alta cinque centimetri. Immagino che, quando il navigatore è spento, sia occupata lì dentro a preparare agnolotti e crostate. Non posso fare a meno di Jole; dopo vent’anni che manco, non ricordo, mi oriento male. Riconosco la facciata dei palazzi che incontro, ma non so dove svoltare quando è ora.
Locali e negozi sono differenti. Alcuni macerati nel tempo come frutta sotto spirito, con insegne acciaccate che ricordo nuove di zecca; altri completamente cambiati. Rosticcerie cinesi, poi le solite catene che allora non esistevano e ora sono ovunque. Solo l’acciottolato fitto delle strade del centro, che sembra ostinatamente negare la possibilità di mezzi a motore, non è cambiato. Le ruote premono sulla pietra con un vibrare di fusa. Trrrrr, trrrrr.
Un parcheggio si libera proprio di fronte all’indirizzo che mi hai lasciato. Spengo il motore, chiudo gli occhi, cerco di rilassare i muscoli contratti del torace che non vogliono saperne di lasciar scivolare l’aria nei polmoni con naturalezza.
Le nove e quarantaquattro. Verso le nove e mezza, hai detto. Per strada non ci sei.
Non ci sei più, non ci sei ancora? Sei in ritardo anche tu, immagino. Altrimenti mi avresti chiamato.
Il portone che corrisponde all’indirizzo è chiuso. Aspettami sulla via, non suonare, esco io. La tua indicazione è stata chiara.
Scendo dalla macchina. Fresco, quasi freddo, l’autunno comincia a mordere. Ho con me la giacca pesante, troppo per questa serata. La tengo aperta. Fumassi ancora, sarebbe il momento perfetto.
Il portone si apre, ne escono due, cinque, otto sconosciuti. E un altro gruppetto. Poi ancora una ventina. Sembra un’uscita da scuola. Forse è un uscita da scuola. Un corso serale. Una conferenza, un concerto. Cos’è questo edificio? Faccio per avvicinarmi e leggere la targhetta, quando ti vedo uscire.
Tieni la testa bassa e mi guardi. Un sorriso quieto. Come ci fossimo visti ieri. I tuoi occhi, però, luccicano. Hai ancora quella linea rossa lungo la palpebra inferiore, l’infezione cronica che ti ha regalato un fastidio costante e uno sguardo impossibile da dimenticare.
Sei con un’amica. Una donna coi capelli neri, sulla quarantina anche lei. Io e te, quando stavamo insieme neanche immaginavamo che ci saremmo arrivati, a quarant’anni. E invece eccoci: giusto un tipico gruppetto di tizi sui quaranta. Facce da quarantenni, vestiti da quarantenni, più pacati, meno flessuosi ed energetici di allora. Ancora non si vede, ma portiamo già, come una malattia non diagnosticata, un inizio di grottesco e di inadatto ad affrontare il mondo che d’ora in poi crescerà a dismisura e alla fine si prenderà tutto di noi.
La tua amica ha gambe lunghe, magre, inguainate in jeans scuri, con le ginocchia che sporgono come nodi nel legno di un tronco, e stivali col tacco alto. Avanzate unite, voi due, in sincrono, le vostre spalle si toccano. Certamente siete amiche da tanto. Lei mi guarda con un sorrisetto. Mi sta valutando. Avete parlato di me, non c’è dubbio. Le hai raccontato che vent’anni fa stavamo insieme, e che dopo un lunghissimo oblio, vent’anni esatti in cui non ci siamo sentiti mai, domenica sono apparso al telefono, volevo vederti subito, stasera. No, non a cena da te. Fuori. Da soli. Con il tuo compagno di mezzo, ti ho detto, come avrei potuto corteggiarti?
Continuo a sentire il suo sguardo su di me, noto il sorriso di apprezzamento. Ma guarda, mi considera un uomo interessante; potenza delle tue descrizioni e racconti. Chissà cosa le hai raccontato, Giorgia. Magari di quella volta che abbiamo fatto sesso nei bagni di un aeroporto. Nessuna meraviglia che mi guardi così. Quasi la intimidisco. Guarda me, ma vede il personaggio delle tue storie. Quello che sa sovrascrive quello che vede.
Non mi piace incontrare qualcuno che ha già sentito di me. Mi rende nervoso. Ma ora la cosa non mi disturba troppo; è perché al momento ho altro di cui essere nervoso.
Ci presenti. “Tosca, questo è Dario”.
“Ciao Tosca”. “Ciao Dario”.
Silenzio, sorrisi. Ti guarda, come a chiedere permesso. Poi mi dice: “Assomigli al personaggio di un film che davano proprio ieri. L’avete visto? Quello sulla mafia messicana. Com’è che si chiamava quello? Manolo. Sembri Manolo”.
“Manolo?” Facciamo entrambi. Noto un attimo di preoccupazione nei tuoi occhi. Avete parlato. Avete parlato un sacco, non c’è dubbio.
“Sì, Manolo”, fa lei, frustrata poiché non conosciamo il film. “Il pusher”, volendo con questo chiarire definitivamente la questione.
“Mi sento onorato”, rispondo. Onorato di assomigliare a un attore, intendo, ma mi è venuta male. Lei capisce onorato di sembrare un pusher e arretra con uno scarto nervoso. Di nuovo, si volta verso di te.
“Bè, Giorgia, io devo proprio andare. Devo dire che ti invidio. Ogni tanto mi piacerebbe che qualcuno venisse a prendere anche me, all’uscita della preghiera”. Mi rivolge un sorriso un po’ stanco. La seguo con gli occhi mentre si allontana in fretta. Da quanto tempo una donna con gambe così lunghe non dimostrava interesse per me?
Torno a te. “Preghiera?”
“Sì. Tre volte alla settimana ci troviamo per pregare”. Lo dici in tono neutro, un dato di fatto, come se la Giorgia che ho conosciuto non avesse fatto altro che congiungere le mani e alzare gli occhi al cielo. Invece la Giorgia che ho conosciuto ha sempre rifiutato con aristocratico disprezzo ogni forma di associazione umana: religiosa, politica, o di semplice affinità, liquidandole come debolezza. La semplice vista di due amiche che camminano tenendosi per mano ti provocava un sorriso di scherno. Credono di evitare il male della vita, dicevi. Non sanno che ognuno è solo, che lo voglia o no. Aforismi di ventenne. Il tempo ti ha ammorbidito, Giorgia.
Mio malgrado alzo un sopracciglio lasciandoti capire che mai, in vita mia, sono stato tentato dal collocare le parole Giorgia e preghiera nella stessa frase. Poi ti guardo ancora, mi fermo sui tuoi occhi che hanno preso a somigliare un poco a quelli di tua madre, e in un lampo succede qualcosa di inaspettato. Rivedo momenti della nostra vita insieme; tu al mare che esci dall’acqua tremando e ridendo, che dipingi all’acquerello un gatto che dorme, che abbassi la testa e piangi, che alzi il bavero del tuo buffo cappotto blu elettrico mentre qualche fiocco di neve ti si appiccica sulle ciglia, sulle labbra – e mi viene da pensare che tutta la tua vita invece non è stata altro che una lunga preghiera.
Sembri quasi leggermi nel pensiero. O forse semplicemente sai dove sto arrivando coi miei ragionamenti. Non devo essere cambiato troppo. Forse il tempo non mi ha ammorbidito abbastanza. Ti sembra ci sia bisogno di chiarire. “Non è una chiesa. Solo un posto in affitto dove ci incontriamo. Crediamo nella ripetizione, nella preghiera continua. Ripetiamo una frase. Lo facciamo ogni volta che possiamo. Pregare”.
“Capisco,” dico. E per una volta capisco davvero.
Sei molto bella. Vesti tutta di nero, tranne una sciarpa diafana a motivi azzurri che lasci cadere senza nodo come usavi allora. Hai guadagnato una quindicina di chili, come me. Poco male. Eravamo due fuscelli. Anzi, ora che non contrastano più su un corpo filiforme, la tua faccia larga e materna, il seno prosperoso, le labbra piene, acquistano un senso perfetto.
Mi rendo conto che quando ti ho conosciuta eri un abbozzo, ora sei completa. Mi rendo conto che a vent’anni ci si deve pensare completi, per autodifesa, non si ha modo di prevedere la voragine di cambiamenti che ancora ci aspetta. Strano, penso, investire tutta quella energia in qualcosa di così provvisorio. Ma l’abbiamo fatto tutti. Siamo fatti della materia dei sogni, ha detto quello. Presto un mattino ci avrà scordato.
“Bè, non stiamo qui a prender freddo”, mi fai, dandomi un pugno vero sulla spalla come facevi allora. “Andiamo a sbronzarci”.
Mi prendi per mano, allunghi il passo tra i vicoli finché non appare un minuscolo locale con i muri tappezzati di bottiglie. Botti come tavoli. Sono già stato qui? Sì. No. Forse.
Sediamo. Subito appare un giovane che si accuccia davanti a noi appoggiandosi alla tua gamba, riposando la testa contro la tua spalla. Un benvenuto da cane, penso. Fai tu, gli dici. Vino rosso, qualcosa da mettere sotto i denti. Annuisco in silenzio. Sono certo che è stato a letto con te di recente. Non importa, non sono più io il fidanzato ufficiale. Ci penserà… “Come si chiama il tuo compagno?” “Oscar”. Ecco, sì, ci penserà Oscar. Al barista, e anche a me.
“Perché?” Chiedi con espressione dolce e risoluta, e rimani immobile ad aspettare.
Deglutisco e faccio no con la testa. Non mi riesce di parlare. Se dicessi quel poco che so sul perché sono qui, diventerebbe una bugia. Un malinteso sicuro, come quello del pusher.
Alzo le spalle. So che comprendi che non ho potuto evitarlo, questo basta.
Mi prendi le mani. Ne esplori con le dita tutta quanta la superficie, con un’espressione che sembra dire: ah, sì, è vero, ora ricordo. Questo, è l’indice, questo il medio, questo il dorso della mano, questo il molle del palmo. Hai sempre detto che non avresti avuto figli; mai. Eppure sei una madre. Cosa non avrei dato per essere io tuo figlio. Mi si stringe il cuore solo a pensare che sono già nato, che tuo figlio non posso esserlo più.
Parliamo poco. Neanche so che lavoro fai. Se me l’hai detto, non lo rammento. Va bene così.
Sono contento che non perdiamo tempo a raccontarci tutto ciò che ci è capitato nel frattempo. Vent’anni sono lunghi; ricchi di episodi che possono riempire una serata come questa. Sappiamo entrambi che queste minuzie non sono il punto. Possono essere decifrate, questo sì; ma è un lavoro lungo.
Io, il mio lavoro però te l’ho detto, rivolto ai tuoi stivaletti con appena un po’ di tacco. Disegno scarpe, borse. Cose così.
“Come sei finito a fare questo mestiere?”
Ho due versioni della storia. Una mette in ballo il caso; l’altra, l’inevitabile.
Non faccio in tempo a sfoderare nessuna delle due. Fisso i tuoi occhi. Improvvisamente stai piangendo. Singhiozzi a bocca aperta, sei sopraffatta. Io pure, anche se non piango. Lo vedi, non riesco a non pensare, lo vedi che hai fatto male a lasciarmi?
Mi prendi il volto tra le mani, mi baci con trasporto mentre il ragazzo appoggia due bicchieri di rosso e un piatto accanto a noi. Rispondo al tuo bacio che sa di lacrime.
Beviamo. E ci baciamo. E ci baciamo ancora. E beviamo. Perdo il senso del tempo. Deve esserne passato tanto. Ci ritroviamo fuori dal locale, avvinghiati, ti spingo contro un portone, nell’angolo di un portico. Ti sento ansimare. È questo che abbiamo progettato sin dall’inizio?
Passi si avvicinano. Una coppia. Lui si schiarisce la voce. Devono entrare proprio qui dove stiamo noi.
Ci stacchiamo. Ti ravvii i capelli. Faccio un passo indietro. Riprendiamo a camminare.
Abbiamo speso più lacrime che parole, scambiato più baci che informazioni. Siamo stati piuttosto drammatici, abbastanza per oggi. È tempo di scambiare qualche frase. Una conversazione normale. Ma ci manca la pratica, non sappiamo dove cominciare.
Facciamo qualche passo lungo la via deserta.
“Certo è strano vederti abbracciare la religione…”
Scuoti la testa. “Non è religione, è preghiera. Ne ho imparato il valore. Ti cambia dentro”, ribatti a voce bassa.
Annuisco. Ti fermi all’improvviso, mi costringi ad arrestarmi a mia volta e guardarti: mi guardi fisso negli occhi.
“E tu, Dario? Tu cosa hai imparato?”
Mi rendo conto che nonostante sia Giorgia che ho di fronte, Giorgia che indovina le intenzioni recondite, che capisce il significato nascosto nella direzione del volo di un passero, che sa leggere un battere di palpebre, vent’anni sono tanti. Il labirinto di scelte da allora a oggi semplicemente non è spiegabile. Siamo stati insieme due anni, io e te. Li sento come una porzione enorme della mia vita. Al confronto, quello che è venuto dopo è stato un soffio. Non ci siamo ritrovati per raccontare i tre o quattro avvenimenti in questo soffio.
Guardo in alto. Veloci nuvole si diradano lasciando scoperti brandelli di cielo. Stelle, luna.
“Ho imparato che la luna è un predatore”.
“Un predatore?”
“Si nutre delle cose viventi. Piante, animali. Uomini. Quando moriamo, la nostra energia la raggiunge e lei la divora. Così cresce. Ha bisogno di crescere”.
“È quello che ho sempre pensato”, rispondi, tranquilla. Detto da chiunque altro, sarebbe una battuta, una frase grottesca. Ma tu, Giorgia, hai diritto a molte eccezioni. È che io mi sento un matto che parla a un altro matto. È questa la summa dei nostri vent’anni l’uno senza l’altra, una che prega di continuo e l’altro che crede la luna ci divori? Delle due cose che l’età e la sofferenza possono portare, ottusità e delirio, propendiamo entrambi per la seconda. Meno male, dico io.
Cambio argomento.
“Ho scritto un libro, sai?” Gli occhi ti ridono, non dici nulla. “Sei una dei protagonisti. Ti ho chiamato Giorgia”.
Ridi. “E perché Giorgia?”
“È un nome giusto per te. Nella carta tu sei Giorgia”.
“D’accordo. Giorgia. Suona bene. Mi sto già abituando”.
“Ti ho fatto morire giovane”.
Mi accarezzi la guancia. “Mi hai allungato la vita”.
Ci guardiamo. Che faccio, ti invito in macchina? Andiamo in un albergo? Lasciamo il tuo compagno solo, per questa notte?
Ma no. Ad un tratto non è più possibile perseguire un contatto attraverso il sesso. Ci siamo saturati, sfiorandoci appena. Siamo rinsaviti. È altro quello che siamo venuti a fare. Ci siamo toccati di nuovo, questo basta. Questo deve bastare.
Mani nelle mani, parliamo ancora per un po’, forse una mezz’ora. Ci diciamo cose semplici. Ci salutiamo. Non vuoi che ti accompagni. Ti dò un bacio sulla fronte. Risalgo in macchina. Mi volto a guardarti, sei già sparita. Tutto così veloce.
Appena il tempo di ripartire, di fare due svolte nelle strette stradine, di cominciare a sentire aria calda dal bocchettone soffiare verso di me, che il telefono suona. Non sei tu, è la voce di Ingrid.
È in vena di scherzare. Parte con la stessa frase con cui la saluto invariabilmente ogni volta che la chiamo.
“Indovina dove sono e cosa sto facendo”.
Abbasso il riscaldamento, comincia a fare troppo caldo.
“Sei a casa”, faccio prontamente. “Sola. E ti annoi. Hai già provato a chiamare qualcun altro, che però non ti ha risposto. E allora tenti con me”.
Un breve silenzio. Sono già nella tangenziale. Lancio la macchina a velocità piena. Devo assolutamente prendere un caffè, subito, penso; ho troppo vino in corpo. C’è un autogrill, accosto.
“Ma come fai?” Dice infine, stupefatta. La prendo sempre in castagna con queste sciocchezze.
Sono sceso. Sussurro un caffè alla barista.
“Facile. Tu non mi hai mai chiamato, Ingrid. Mai, mai una volta sola. Sempre io, ti cerco. Faccio la mia parte da innamorato respinto. Soltanto la noia, e il fatto che qualcun altro non si sia fatto trovare…”
Mi interrompe: “E tu? Dove sei e cosa stai facendo?”
“Mando giù un espresso, proprio… Mmmm, proprio in questo istante”.
Non risponde. Attende.
“C’è anche la questione del sesto senso”, continuo. “Ti sei chiesta perchè mi hai chiamato proprio in questo momento? Per la prima volta in vita tua, sei tu che chiami il tuo spasimante dal cuore infranto. È quasi mezzanotte. E non sembri avere nulla di urgente da dirmi. È per via del sesto senso, non c’è altra spiegazione”.
“Non ti seguo. Che vuoi dire?”
“Sesto senso. Evidentemente hai intuito ciò che ho appena fatto”.
“Ah sì? E che hai fatto? Oltre al caffè”.
“Ho fatto quello che mi hai suggerito”.
“Te ne ho suggerite tante”.
“Una in particolare”.
“Spiegami. Sono stupida, io, lo sai”.
“Ho cercato di distrarmi dalla mia ossessione per te. Sono andato a cercare un’altra donna”.
“Davvero? Bravo!” Esclama Ingrid, improvvisamente entusiasta. È da parecchio che mi spinge a cercare altre avventure; forse vuole liberarmi dalla mia malattia per lei, forse è stufa della mia adorazione appiccicosa.
“E chi? Com’è andata? È ancora lì con te?” Chiede, abbassando irrazionalmente la voce in tono complice.
Sono risalito in macchina. Riparto. Il viva-voce si riconnette subito, senza inciampi. Bene.
“Ti ho parlato di Giorgia, vero?”
“Quella con cui sei stato quando eri giovane”.
Ha cambiato voce. L’entusiasmo ha lasciato il posto a un pensoso interesse.
“Sì”.
“Che amavi”.
“Sì”.
“Che amavi sul serio”.
“Sì”.
“Che ti ha fatto un sacco di corna”.
“Sì, lei”.
Lungo silenzio.
“Ma non è questo che ti avevo…”
“Come, Ingrid? Non ho capito; non si sente”.
Ancora silenzio. Rumori indecifrabili. La comunicazione è sempre più disturbata.
“Ti avevo suggerito un’altra cosa. È solo sesso che dovevi cercare.”
“E chi ti dice che non l’abbia cercato?”
“Ma non con una che ami. Deve essere una che non ti interessa.”
“E cosa cambia?”
“È solo me che… Tu devi amare soltanto…”
“Ti sento male, Ingrid. Comunque, fammi vedere se ho capito. Ecco l’accordo perfetto tra noi:
Tu continui a rifiutarmi. Io continuo ad adorarti. Qualche ragazza senza importanza ogni tanto mi intrattiene e ti risparmia un fastidioso coinvolgimento sessuale. La nostra amicizia si nutre proprio del fatto che io voglio sia più di un’amicizia. Io ti vengo dietro come un cane affamato, tu mi tieni a bada e ti godi la mia energia adorante. E così teniamo in piedi una bella spirale malsana di ossessione e dipendenza. È questo? Ho capito bene, Ingrid?”
Silenzio. “Ingrid?” Ha messo giù. Oppure la linea si è interrotta, chissà.
Svolta a destra tra cinquanta metri, dice Jole. Coglione, coglione, faccio io. A quest’ora in strada non c’è nessuno. Sono proprio l’unico coglione in giro, Jole. Io e te. Tu a fare i tortellini, io a fare come mi dicono le donne. Tutte. No, non parlo di te, tu non c’entri. Tu, va bene che mi dici cosa fare. Parlo di quelle alte. Anzi, parlo di me stesso. Ha un nome questa cosa con Ingrid? Idiozia. Sì, giusto. Stupido a vent’anni, imperdonabile a quaranta. Sadomasochismo, penso poi. Malattia. Nevrosi. Disperata ricerca di amore incondizionato, penso ancora.
Mezzanotte e un minuto. È il mio compleanno. Quarantun anni, fa Jole con la sua solita voce venata di sorriso; Si prega di crescere. Non penso più. Sfreccio nell’autostrada deserta. Un’altra ora di guida prima di arrivare a casa. Stanco morto.
Sussurro tra i denti: Grazie Giorgia. Un’ora sola con te e già vedo chiaro.
Rido. Tempo vent’anni e ricorderò anche questo come una specie di idillio. Rido di cuore, esageratamente; non mi fermo più. Non c’è niente da ridere; io però rido lo stesso.
…e tre!
Bravo Sergio,
altro bel racconto,
colpevolmente trascurato.
Ennesimo indizio
di talento creativo,
visionario e reale
allo stesso tempo.
Intanto, grazie!
Comunque, Maurizio, mi sa che te ne sei perso uno…
nascosto tra le pieghe del cncorso c’è un quarto mio racconto…
“Turno di notte” non l’hai letto, giusto?
Infatti…ne avevo considerati solo 3.
Il tuo è proprio un investimento 🙂
(ma anche io non scherzo),
però ben ponderato…
Provvederò.
A presto
Bellissimo questo racconto… lascia la voglia di conoscerlo di più questo Dario!. Di conoscere tutti i suoi pensieri e la sua storia in un libro intero, non solo in un racconto. Perché non è capace soltanto di illustrare perfettamente ciò che gli accade ma anche di trasportare il lettore dentro tutti gli “spostamenti del suo cuore”; le sfumature; le cose che lo muovono e quelle che lo rallentano. Complimenti!. Davvero un bel racconto che lascia la voglia di leggerti ancora… 🙂
“È che io mi sento un matto che parla a un altro matto. È questa la summa dei nostri vent’anni l’uno senza l’altra, una che prega di continuo e l’altro che crede la luna ci divori? Delle due cose che l’età e la sofferenza possono portare, ottusità e delirio, propendiamo entrambi per la seconda. Meno male, dico io.”
Frase molto bella questa.
Nel complesso davvero una bellissima scrittura. Il racconto fila liscio, senza interruzioni, a parer mio grazie a dei periodi brevi utilizzati in maniera perfetta. Non sfoci mai né nella retorica né nella banalità.
Davvero bravo.
grazie Laura!
Attenta che il problema coi desideri è che si avverano…
Devi sapere che Dario (ma anche Giorgia e Ingrid) sono protagonisti di un romanzo che ho già scritto da tempo e che si chiama “Idraulico Cosmico” ( e sono pure a metà di un secondo romanzo, sempre con Dario… )
Ho inutilmente provato a farlo accettare da diversi editori, ma alla fine non me l’hanno mai preso. L’ultimo giudizio: scrittura buona, ma troppo prolisso.
Dopo un ennesima discussione, ho deciso di fare una drastica revisione e poi pubblicarlo, un capitolo a settimana, nel mio blog. Intendo farlo da qui a un paio di mesi.
Ora pensaci bene – se davvero ti interessa ti faccio una pazza proposta: scrivimi privatamente ( sergio@sergiosessini.com ) io ti mando il manoscritto così com’è, tu impari vita, morte e miracoli di Dario e mi dai pure qualche consiglio su quali parti tagliare impietosamente…
non te l’aspettavi, giusto? 😉
Ti ringrazio Francesco per il tuo giudizio positivo. Cerco di essere attento alla scrittura. Quando posso utilizzo la frase più breve possibile e il termine più semplice possibile. A parte quando mi prende voglia di giocare e “forzare” i termini sino a cambiarne il significato. Ma anche in quei casi ho la scusa pronta: un termine più preciso non c’era…
a presto
S.
Ora li ho letti tutti! Altro che 10 minuti passati bene, qui c’è da imparare! Anche questo è un racconto che fila via liscio e semplice, che lascia emozioni e apre a nuovi pensieri. Si immagina senza divagare. Come lettore non posso che farti i miei migliori complimenti.
Un film! A me piace molto leggere tramite immagini e i dialoghi sono precisi e veri. La storia “acchiappa”, a me ha acchiappato. Bella, grazie.
Ti ringrazio tantissimo, Massimo. Come sai dal mio commento, anch’io ho apprezzato molto il tuo racconto, che mi ha lasciato con un impressione di autenticità, di verità, e che lascia anche molto spazio a sviluppi nella mente del lettore – sviluppi che sarebbe piacevole leggere in un prosieguo…
E già che ci sono ne approfitto anch’io per lasciare il mio commento a questa bella storia che mi ha tenuta incollata allo schermo dall’inizio alla fine.
Mi chiedo come si possa definire “prolissa” la tua scrittura… forse perché siamo nell’era del consumo compulsivo che non deve lasciare memoria? È questo che si pretende anche dalla narrativa, oggi?
Sergio, spero sinceramente di vederti nella prossima raccolta di Raccontinellarete.
Grazie Mara, questo sì che è un incoraggiamento!
Come puoi immaginare, ho speso molto tempo sulla questione… 😉
Provando ad esaminarla in modo pragmatico e oggettivo, il mio romanzo era stato preso in carico, mi pareva con convinzione ed entusiasmo, da un agente letterario serio (quindi qualcosa di buono c’è), che lo ha presentato ad almeno sei editori e non è riuscito a venderlo (quindi qualche problema c’è).
Tendo a prendere sul serio il parere di un professionista. Se mi dicono questo, qualcosa da correggere ci dev’essere. Devo però dire che i commenti entusiasti e molto calorosi che mi sono arrivati in questa sede mi hanno fatto esultare e dire “lo vedi allora che c’è qualcuno là fuori a cui questa scrittura piace!”
Come ho detto, mi sono messo il cuore in pace: lo rivedrò drasticamente e lo pubblicherò sul mio blog. Chi lo vorrà leggere, lo leggerà.
Intanto, grazie davvero. Questi commenti infondono fiducia ed energia.
Molto interessante. E imprevedibile altresì. Tre personaggi in cerca d’autore, direi. Anzi, quattro, ma la Jole mi sembra la più equilibrata e indipendente da qualsiasi tipo di dipendenza.
Molto bravo, per la costruzione e lo svolgimento che tiene fino alla fine.
Hai provato a farne la versione sceneggiatura?
Francesca
Scorrevole. L’ho gustato un po’ alla volta.
Angela
Grazie Francesca. Non ho mai pensato a farne una sceneggiatura. Potrebbe essere un’idea…
Su Jole mi dispiace ma devo contraddirti: è fortemente dipendente dalla cartografia e dai ricettari.
Sergio
Ti ringrazio Angela, non posso sperare di più dalla lettura di un mio racconto.
Jole spacca! E anche la correttezza della scrittura.
Jole spacca! E
anche la correttezza della scrittura.
Grazie Rosalia, anche Jole ringrazia e mi chiede se la crostata di albicocche ti piace… certo che se te la prepara lei sarà al massimo grande come una monetina… buona però.