Premio Racconti nella Rete 2014 “Il diavolo in solaio” di Sergio Sessini
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014Se non avessi bruciato l’arrosto non avrei mai aperto la finestra. Il freddo che faceva.
Se non avessi aperto la finestra, il gatto del vicino non sarebbe entrato. Mi domando quale gioco di forze lo abbia portato sino a me.
L’ho aperta. È entrato. Va e viene come vuole da quell’infinito terrazzo di ringhiera. Un gatto tozzo e muscolare, dall’aria arrogante. Nero, con una losanga bianca sul naso. Mai saputo il suo nome. Nemmeno chi è il padrone, ora che ci penso. Un campanellino affondato nel folto del collo a commentare con un trillo sordo ogni suo movimento; deve essere un tormento per il suo orecchio sensibile.
Dalla finestra è saltato sul tavolo del mio studio. Ha fatto un giro su se stesso, arcuandosi mentre strisciava il mento contro le nocche della mia mano. Ha annusato i fogli appena usciti dalla stampante. L’ho fatto saltar giù con uno scappellotto quando ha preso a mordere le fatture, già piegate in tre, pronte per essere imbustate e spedite ai miei clienti.
Sono riuscita a non parlargli. Difficile non parlare a un gatto.
Se non avesse iniziato a mordere i miei documenti, non lo avrei picchiato. Non l’ho picchiato. Giusto un buffetto.
Se non gli avessi dato il buffetto non si sarebbe mosso dallo studio.
Invece si è diretto sicuro verso il salotto e ha cominciato a puntare il divano. Ha provato ad infilarcisi sotto, ma quel divano è davvero troppo basso. Allora ha allungato le zampe cercando di afferrare qualche oggetto invisibile; piccoli movimenti impazienti e rapidi finché davvero qualcosa è spuntato fuori. Una trappola per topi. Non una di quelle in legno, con la molla, che si vedono nei cartoni animati. Qualcosa di più semplice ed efficace, un cartoncino spalmato di colla. Che si può piegare a formare un parallelepipedo; un piccolo tunnel mortalmente appiccicoso, con un dadino di parmigiano al centro. Dimenticato lì sotto da mesi. Da quando tu, quasi per scherzo, l’avevi piazzato, perché quando rimanevo a lavorare fino a tardi mi lamentavo di sentire dei piccoli rumori, e perché i vicini avevano visto una pallina grigia ruzzolare dalle scale, mentre rientravano dal cinema, mezzi ubriachi. Chissà cos’hanno visto davvero.
Se non fosse entrato in salotto non avrebbe scoperto il topino morto.
Morto da parecchio, credo. Mummificato, quasi; con peli grigi, ritti e incollati alle pareti della semplice trappola di carta. Mi sono fermata un momento, con la sensazione che quel piccolo cadavere potesse essere il segnale di qualcosa che non va, un monito da parte di qualche presenza sconosciuta che mi sorveglia. Gli animali, vivi o morti, mi fanno questo effetto. Li immagino sempre diretti verso di me da qualche angelo, da qualche demonio.
Ho bloccato il gatto che intendeva giocarci a oltranza e ho raccolto il raccapricciante topino appiccicato al cartone. L’ho subito isolato in una gigantesca busta nera e portato fuori nel cassonetto.
Non ci fosse stato un topo morto sotto, non avrei mai spostato quel pesantissimo divano per disinfettare per bene ogni recesso.
L’ho spostato. Ci ho messo parecchio, da sola. Alla vista dell’aspirapolvere il gatto è schizzato nel mio studio e via, fuori dalla finestra ancora aperta. Ci ho trovato polvere, neanche tanta. Un gemello di madreperla che non trovavi da settimane, ne sarà contento, ho pensato. Una moneta da venti centesimi. Una ricevuta.
Se non avessi spostato il divano non avrei trovato lo scontrino. Una normalissima, impolverata, sbiadita ricevuta di ristorante.
Un ristorante che conosco bene. La Caverna di Platone. Un marchio bizzarro e pretenzioso, un anello pieno di ombre, silhouettes di persone che bevono. Un’enoteca nella città vecchia, scavata in parte nella roccia. Mi ci hai portato tre volte: San Valentino, il mio compleanno, il nostro anniversario. Non mi è mai piaciuta. È la tua idea di localino romantico. Non hai fantasia, sei soggetto a quella rozza forma di superstizione per cui se vai in un posto e ci passi una bella serata, allora ogni volta che ci torni avrai la stessa esperienza. A pensarci bene, non è normale che io abbia sempre lasciato passare il fatto che tu non ti sia mai accorto che quel posto non mi piace.
Se non ci fosse stato quell’orrendo marchio color mattone stampato su, non l’avrei nemmeno guardato, quello scontrino. (Se non fossi una grafica, non sarei tanto disturbata da un logo fatto male). Non ho mai controllato un tuo movimento, preso in mano il tuo telefono, spiato una tua email. Dobbiamo stare insieme perché mi vuoi, non perché ti controllo, ho sempre pensato.
Se quella non fosse stata la tua idea di posticino romantico, non avrei avuto alcun pensiero sulla ricevuta.
L’ho avuto, un pensiero. L’ho letta. Cena per due persone. Ho anche controllato la data, per scrupolo. Tre ottobre. Né San Valentino, né il mio compleanno, né il nostro anniversario.
Se non fossi entrato in quel preciso istante, l’avrei buttata via comunque e non ci avrei pensato più. Davvero.
Sei entrato. Hai chiuso la porta dietro di te e in un lampo eri di fronte a me, vicinissimo. Tenevo ancora lo scontrino tra pollice e indice. Stavo per buttarlo. Hai preso a guardare anche tu con curiosità quel foglietto impolverato. Mi hai costretto, a chiedertelo.
“Con chi ci sei stato, alla Caverna di Platone?”
Se non te l’avessi chiesto, ti avrei risparmiato la più meschina figura della tua vita.
Te l’ho chiesto. Non hai risposto. Hai deglutito. Sei arrossito come un bambino, immobile in quella giacca così stretta, che ogni volta che la metti sembri un soldato sotto ispezione, ogni volta che la togli ti espandi di due misure.
Ricordo di essermi sentita male. Non per me, per il tradimento. Non per quello. Per l’umiliazione di essere sposata all’unico uomo sulla terra che non riesce a trovare uno straccio di scusa per nascondere una scappatella. Anche i più squallidi e sprovveduti avrebbero detto, riunione col capo, la ricevuta non è mia, non c’era nient’altro di aperto, ho mangiato per due, sarà un errore, mi devono aver dato quella sbagliata, sono stato rapito dagli alieni e quando mi sono svegliato ce l’avevo in tasca.
Tu, niente. Ho sposato un inetto, ho pensato ritirandomi di nuovo nel mio studio. Ho pensato di non valere una scusa. Che fortuna che non abbiamo bambini, ho pensato ancora; e solo allora, per un momento, mi si è stretto il cuore.
Se tu mi avessi risposto, non mi sarei chiusa in studio a pensare.
Ho pensato. Ho pensato alla successione dei fatti di quel pomeriggio. Come è cominciata?
Vediamo. Brucia l’arrosto, mi metto a pulire e apro la finestra. Il gatto entra, trova il topo. Decido di pulire sotto il divano e scopro lo scontrino. Contrariamente alle mie abitudini, lo controllo. Vedo che la cena è per due. Rientri proprio allora. Ti confondi, non rispondi.
Possibile che tutto sia cominciato con l’arrosto?
No. L’arrosto è per forza l’effetto di qualche altra causa. È successo altro, da prima. Ricordo che ero già agitata e pervasa da una sensazione sgradevole. Fin dal mattino, a pensarci. Ricordo che il topo morto è arrivato come una conferma, non come una sorpresa.
Svegliandomi, ho visto dalla finestra dello studio nuvole nere velocissime, vento furioso che scuoteva gli infissi. Mi rende nervosa, il vento. Anche i miei pensieri prendono a mulinare in direzioni indesiderate, con una forza violenta. Sin da bambina rimanevo felice sul terrazzo a guardare i temporali, accogliendo ogni lampo con estatica felicità come se quelle luci accecanti che incendiavano l’interno delle mie palpebre chiuse fossero lì a pulire qualcosa dentro di me. Ma quando soffiavano certi venti furiosi correvo a rifugiarmi nel letto della nonna, la testa sotto al cuscino, cantando qualcosa per coprire il rumore, fino ad addormentarmi.
Se non avessi avuto certi presentimenti, non avrei bruciato l’arrosto.
Vediamo di ricordare. Ho messo l’arrosto in forno e mi sono scordata di avviare il timer. Strano, lo metto sempre. Qualcosa dev’essere successo proprio in quel momento.
Sì, ora ricordo, la canzone.
In qualche momento il notiziario che non stavo ascoltando aveva lasciato posto a una melodia amara e lamentosa in una lingua sconosciuta, forse turco. La stessa che avevo sentito in quel ristorante a Istanbul. Stessa melodia, stessa voce, stessa donna, ne sono sicura: la cantante stremata, con i capelli neri che sfuggivano al fermaglio pendendo inerti a coprirle la faccia; che dopo il pezzo si era subito rifugiata nel tavolo accanto al nostro, sigaretta in bocca, testa tra le mani.
Le ho fatto un segno di applauso, ha risposto con un sorriso così stanco che subito ho distolto lo sguardo pensando che non avrebbe potuto reggerlo per molto. Tu mangiavi noccioline, battevi il tempo con l’unghia contro il bicchiere, ridevi e non ti accorgevi di niente.
Ecco. Ero già pronta a lasciarti. Strano che non me ne sia accorta sino ad oggi.
Ricordo che discendemmo a piedi i vicoli sbreccati e ripidi per ritornare all’albergo, che vidi un cartello che segnava il museo dell’innocenza.
Ne fui scioccata e confusa. Avevo appena letto il libro di Orhan Pamuk dallo stesso titolo. Il museo dell’innocenza. Non pensavo che esistesse un museo, nel mondo fisico, tangibile, fuori da quelle pagine.
Avevamo bevuto parecchio tutti e due. Dovetti insistere perché prendessimo quella stradina in salita, fermandoci davanti alla casa di cui sapevo tutto, che avevo immaginato in dettaglio, ma non credevo esistesse.
“Che c’è dentro sto museo?” Mi hai chiesto, la voce un po’ alterata dall’alcol. Speravo che l’ombra nascondesse i miei occhi lucidi.
“Tanti piccoli oggetti. Brutti e insignificanti. Ditali. Centrini. Bicchieri. Mozziconi di sigaretta. Fiammiferi bruciati”.
Mi hai guardato aspettando una spiegazione.
“Perché li hanno messi insieme? Li ha messi insieme uno che voleva attenuare il dolore di un errore irreparabile”.
Il giorno dopo litigammo perché io volevo tornare al museo dell’innocenza, vederne l’interno, e tu, visitare il palazzo Topkapi. Andammo al Topkapi. Avevamo già il biglietto da giorni. Abbiamo visto manufatti preziosissimi e squisiti. Abbiamo pranzato in una terrazza sul mare. Eri felice. Rilassato, appoggiato alla sedia, le braccia allargate sul muricciolo dietro di te, il sole che faceva rosse rosse le punte dei tuoi capelli. Sei un bell’uomo. Sei nato per viaggiare, per godere del cibo, della gente, della temperatura, dei colori insoliti, dell’aria variamente speziata, della diversità. Delle donne, mi accorgo ora. Io no. Viaggiare mi ha sempre deluso, non ho mai trovato un luogo in cui potessi sfuggire alla compagnia angusta e desolante dei miei pensieri. Hai preso a far roteare il tuo bicchiere di vino come se ne capissi qualcosa e hai detto:
“Davvero avresti rinunciato a questo per vedere un posto che sembra il solaio di tua nonna?”
Ecco. Bravo. L’hai detto. A volte hai la capacità di centrare il bersaglio, bendato, senza sapere di avere un arco in mano. Il vero sapere è non sapere di sapere.
Il solaio di mia nonna. Ogni domenica, quand’ero piccola, si andava a pranzo da lei, in un appartamentino al piano terra così pieno di piante che ci si muoveva a fatica. Io giocavo alla donna selvaggia e scambiavo sanguinosi agguati con Ugo, il gattone bianco, vecchio come la nonna, ma come lei ancora pieno di voglia di giocare. Ancora oggi mi stupisco, quando vedo un gatto o un vecchio che non hanno voglia di giocare.
Quello che è entrato oggi assomiglia a Ugo, a pensarci. Colore a parte.
Ogni volta, prima di pranzo, la nonna andava ad aprire una scatolina intarsiata e mi consegnava una chiave. Vai a prendere una bottiglia di vino buono in solaio, sai quale dico, no? Diceva sempre, con un sorriso per me ma allargato ai miei, il sorriso di chi la sapeva lunga e voleva dire molto di più di quel che diceva.
E in effetti ogni volta io ero terrorizzata e stupita che proprio il compito più difficile venisse affidato a me, il più recente e inesperto germoglio della specie umana. Abbassavo la testa senza dire niente, prendevo la chiave e salivo nel solaio. Un solaio senza sole, dove il vento soffiava tra angusti spazi tra le tegole un suono dalla qualità di respiro. Un labirinto serpeggiante e polveroso e così pieno di oggetti che non si poteva non tornarne tutti grigi di polvere dalla testa ai piedi.
Ogni volta, percorrendolo, era necessario che dicessi qualcosa. Sempre diverso. Spesso insensato.
Ad esempio, potevo dire: Urgaz – alisimagnatefékk – zuàrmag.
Oppure: Le Efelidi contano quattro a tre nel caso in cui Zundlapf sia mancino.
Perché là dentro, nascosto da qualche parte, c’era un diavolo.
No, non Satana. Parlo di un vecchio demonio subalterno, scorbutico e pieno di rancore che sedeva nascosto lì dall’eternità con l’unico incarico di ascoltare quello che avrei detto.
Di tutti i miliardi di miliardi di possibili combinazioni di suoni dell’universo ce n’era una, una sola – che mi avrebbe dannato, all’istante.
Non ho mai osato attraversare il solaio in silenzio. Il diavolo è furbo. E se fosse proprio il silenzio il suono che mi avrebbe dannato? E così dicevo sempre qualcosa, passando.
Le prime volte parlavo semplicemente per vincere la paura di quel diavolo. Poi mi sono resa conto di essermi cacciata in una trappola, di aver innescato una legge terrificante. Quello era uno dei difetti dell’universo, per altri versi così mirabilmente costruito. Una falla nella creazione, piccola, che coinvolgeva proprio me. Se avessi pronunciato quella determinata sequenza di suoni decisa all’inizio dei tempi, sarei stata dannata e trascinata all’inferno in un istante, in un battere di ciglia.
Poteva essere qualsiasi cosa, anche il suono m. Comunque non è il suono m. Ho provato.
Ignoravo se la regola demoniaca della frase riguardasse solo me o se chiunque entrasse in quel solaio era in pericolo. Non c’era modo di saperlo. Sapevo però che piagnucolare e chiedere che ci andasse uno dei miei genitori, a prendere il vino, era patetico, vile e non teneva conto delle inflessibili leggi che governano il cosmo. Così andavo, tremando. Non c’era altro da fare.
Oggi mi sono sentita di nuovo in quella cantina, non al sicuro nel mio appartamento moderno e per nulla polveroso, nel mio corpo adulto, in questi occhi che, a guardarli allo specchio, sembra che sappiano tutto.
Se non avessi bruciato l’arrosto. Se non avessi sentito la canzone. Se non avessi picchiato il gatto. Se uno solo di questi nodi non si fosse verificato, staremmo ancora insieme. Tutto è successo nell’unica maniera che poteva generare un risultato. Impressionante. A che si devono tali brutture? Forse queste velenose combinazioni si devono a un autore.
A Istanbul, su parecchi muri ho trovato una scritta, fatta con una mascherina e una bomboletta spray. L’ho notata perché ce n’erano tante, tutte uguali; e perché non era in turco, ma in latino. L’ho fotografata., più volte. In una foto ci sei tu che ridi e sembri un neonato che si meraviglia.
Quorsum haec tam putida tendunt?
In albergo, ho cercato su Google. È Orazio. Dice: a che si devono tali brutture?
La mattina dopo siamo ripartiti, vacanza finita. Lo stesso giorno a Istanbul sono cominciati gli scontri di piazza. La stessa piazza dove abbiamo mangiato caldarroste, bevuto tè in quegli stretti bicchieri.
Le cose. Le cose brutte. Le cose non sono come sembrano. Come sono, però, non ci è dato sapere. Ci resta l’apparenza.
L’apparenza non inganna, rilascia immagini. Siamo noi che ci vogliamo ingannare, ci incastriamo indecisi sulla sulla loro ambiguità, scegliamo di vederne solo alcune, dimentichiamo di tirare le somme, ci impigriamo o spaventiamo quando si tratta di decifrarle.
A che si devono tali brutture?
Mi raggomitolo sotto le coperte e penso. Come si chiama quel demonio? Forse quel suono misterioso è il suo nome? E se la sua azione non fosse immediata? Se aspettasse la notte, il momento in cui mi assopisco e chiudo gli occhi, per sbucare silenziosamente dalla sua dimensione nascosta e prendere possesso della mia anima?
Ho trent’anni. E se avesse deciso di aspettarne venti? Possibile che io abbia già detto la formula tragica vent’anni fa e solo stanotte, essendosi fatto introdurre da piccoli segnali inquietanti, quel demonio antico sbucherà da sotto il letto e mi reclamerà, lasciandomi a rinsecchire per l’eternità in un angusto cunicolo spalmato di colla giallastra?
Mi piace molto come scrivi. Sai introdurre fatti e personaggi con un’abilità da scrittore consumato, non annoi mai, leggendoti riesco a visualizzare ciò che racconti come davanti a un film. Tutto scorre in modo piacevolissimo.
Curiosa coincidenza, Istanbul è stata anche per me il teatro di una rivelazione amara ma inevitabile… forse quel luogo magico ha il potere di rendere le maschere trasparenti e ci costringe a vedere le brutture che non sappiamo accettare.
Ti ringrazio moltissimo Mara.
Istanbul è una città che mi rimane nel cuore. Ci vivrei senza esitazioni. La scritta a cui faccio riferimento è realmente in diversi muri della città, ed è anche vero che le rivolte sono iniziate pochi giorni dopo la mia ultima visita… il resto è finzione.
Se mi posso permettere una facile saggezza via internet, vedere una bruttura è un passaggio inevitabile per superarla.
Grazie ancora,
Sergio
Mi correggo: anche un’altra cosa è vera nel racconto: in un vicoletto, subito dopo aver letto il bellissimo “il museo dell’innocenza” di Pamuk, ho improvvisamente scoperto, con emozione, che quel museo esiste davvero.
Se vuoi leggere altre mie storie, puoi sempre curiosare presso: http://sergiosessini.wordpress.com/
Ne posto uno a settimana.
Sergio
Se non mi fossi annoiato a vedere la solita Inter,
se non mi fossi messo a sbirciare il meteo sul pc,
se non avessi letto l’ultimo commento su raccontinellarete,
forse non avrei scoperto una scrittura accattivante,
scorrevole e colma di piacevoli divagazioni…
C’è del talento, bravo. 😉
Notevole.
A presto.
M
Grazie Maurizio, se non è un pesce d’aprile sono molto lusingato!
Su un altro piano, appena si spegne la televisione si accendono delle possibilità… 🙂
grazie ancora.
Complimenti, un piccolo capolavoro.
Che storia Sergio! Mi sa che devo rileggerla più volte ! Sarà l’età, ma mi ha fatto girare la testa! Però mi ha tenuta allo schermp, quindi deve avere qualcosa di magico! Sicuramente una scrittura che cattura e ambienti interessanti in continuo e repentino cambiamento, ma…devo davvero rileggerla.
Un particolare mi punzecchia….quel topo morto da tempo…non puzzava nemmeno un po’? Però ti ripeto, appena mi riprendo la rileggo!
Silvia
Sergio, la saggezza che hai espresso non è per niente facile, è una necessaria verità.
Curioserò con molto piacere sul tuo blog.
Maurizio, lieta di averti portato col mio commento alla scoperta di un racconto così originale e ben scritto.
È sempre un piacere rileggerti, sia come autore che in qualità di “commentatore”.
Grazie Silvia!
Per quanto riguarda il topo, ho consultato la protagonista senza nome della storia, la quale mi ha detto che questo è proprio uno degli elementi che l’hanno colpita. Il topo morto era rinsecchito, mummificato. Lei si è affrettata a buttarlo via e non si è certo soffermata ad annusarlo, e inoltre non sa se era lì da due giorni o tre settimane, fatto sta che non si era accorta di nulla. C’è da dire che il gatto lo ha sentito immediatamente, l’odore… qualcosa c’era, se si possiede un olfatto sufficientemente raffinato.
Per quanto riguarda la testa che gira, questo mi preoccupa un po’. Nelle mie intenzioni, la particolare costruzione a ritroso della storia dovrebbecomunque rimanere facile da seguire. Penso che una storia possa essere semplice o complessa, ma dovrebbe sempre offrire un’esperienza positiva di lettura. Ci dev’essere qualcosa che non ho saputo costruire bene se a tratti affatica e non scorre come dovrebbe.
Può anche darsi che questo tipo di storia non sia nelle tue corde. Apprezzo moltissimo che tu abbia riportato la tua esperienza e proverò ad esserne consapevole quando scrivo.
Grazie. S.
Eleonora, non so che dire. Grazie.
Se non avessi letto questa tua storia, mi sarei persa qualcosa di veramente particolare. Scrittura veloce, precisa, bello l’uso di alcuni termini e parole. Condivido la tua definizione di apparenza, mi è piaciuto molto. Complimenti e in bocca al lupo per questa avventura.
Veramente bello!
Complimenti ed un grande e meritatissimo in bocca al lupo!
Emanuela
Francesca, ti ringrazio per le tue parole. Scorrevolezza e soprattutto esattezza sono qualità a cui aspiro.
a presto!
S.
Grazie Emanuela, apprezzo molto. Crepi!!
S.
Quando è presente un gatto, o più di un gatto, dentro ad un racconto, va a finire che leggo con attenzione. E pure questa volta è successo, i due felini hanno contribuito ancora di più a farmi piacere la trama interessante, mai banale del tuo racconto. Poi è molto intensa la descrizione del solaio pieno di ostacoli della nonna e dei vicoli di Istanbul.
Grazie Roberto. Sono tentato di inserire un gatto in ogni racconto che scriverò. 😉 Che ne dici se per cambiare ogni tanto metto un puma, una lince?
Grazie per i complimenti sulle descrizioni. Essere stato parecchie volte a Istanbul e in solai polverosi ha aiutato.
S.
Faccio reading letterari e perciò sono allenata a leggere le storie con le orecchie, oltre che con gli occhi. Questa storia ha, tra le sue qualità, quella di avere una voce precisa. E, poiché è una voce femminile, questa è la prova del nove secondo me dell’abilità dell’autore nel costruire un personaggio.
L’andirivieni delle frasi, che ogni volta ritornano accompagnate dalle loro conseguenze, dà ritmo al racconto.
E funziona come un orologio.
Hai riportato con semplicità e chiarezza le forze che governano le nostre vite. Nodi li hai chiamati. Mi è piaciuto. In più, a mio parere, la chiave di lettura della protagonista ritornata bambina è quella giusta per scorre i nodi e farli fluire sia nel senso del tempo che scorre ma anche nel verso contrario. Come hai fatto tu in questa storia.” Ho pensato di non valere una scusa” è la frase più bella e terribile del racconto.
Grazie Carmen per le parole molto lusinghiere! In ogni racconto che scrivo mi piace soprattutto scegliere un punto di vista. La protagonista è l’unico testimone che abbiamo di questa storia. Non ci resta che crederle, e vedere gli stessi suoi demoni.
Ti ringrazio Roberto. Nodi, incroci, bivi, punti di scelta, opzioni, crocevia… a un certo punto la protagonista si accorge che tutte queste opzioni apparentemente infinite e aperte (come quando si inizia una partita di scacchi, apparentemente aperta e indeterminata, in realtà controllata e ristretta da un abile avversario) puntavano in una direzione sola: farla tornare bambina, sola, indifesa, in preda alla paura non giustificabile e non spiegabile di un demonio che attende un suo passo falso. Tutte le costruzioni della sua vita: professione, matrimonio, psicologia adulta e matura, si sono rivelate insufficienti a far fronte al demonietto.
nodi, gioco di forze, eventi? così è la vita, mi sento di dire. Il tuo, Sergio, è un racconto bellissimo. E grazie per aver inserito “Il Museo dell’Innocenza”, credo proprio che sarà una delle mie prossime letture. Liliana
Davvero un bel racconto, bravo.
Grazie Liliana. Il museo dell’innocenza è un libro strano, per tre quarti la storia è fatta di eventi e oggetti piccolissimi, che descritti da un altro risulterebbero senz’altro noiosi. Ma l’autore è riuscito a caricarli di significato in una maniera tale che a mio parere la lettura è molto intensa e mai noiosa. Buona lettura!
Grazie molte Tina. Felice di averti intrattenuto per dieci minuti.
Casualmente, mi soffermo ancora una volta
dalle parti di un racconto che mi ha colpito.
Forse il migliore,
sicuramente il più intenso,
quello che ti fa entrare fin dentro
il vortice della scrittura.
Davvero bravo, Sergio.
Un vero talento,
come già detto.
😉
Maurizio, come ho appena scritto in risposta all’altro tuo commento, sono lusingatissimo. Sapere che qualcuno si è intrattenuto con le mie fantasie per dieci minuti e li ha passati bene è impagabile. Grazie.
S.
Bello davvero. Il gatto apre un varco, ho sentito lo zolfo.
🙂 grazie Sara
Zolfo, dici, Sara Maria? Ma allora non era l’arrosto…
E zolfo sia.
Mi piacciono i racconti in cui riesco a immaginare gli odori e profumi!
Che fatica trovarti!
Un abbraccio anche per te.
Ho apprezzato tanto le tue storie, c’è del talento.
Peccato, ma il prossimo anno
ti leggerò ancora.
Continua così anche tu.
A presto.
M
😉
Grazie per l’incoraggiamento Maurizio, e complimenti!! 🙂
Questo è un altro racconto che mi sarebbe piaciuto vedere tra i vincitori. Sergio, spero davvero di leggerti nuovamente qui il prossimo anno. 🙂
Mara, ti ringrazio tantissimo – e continuo a scrivere imperterrito.
Complimenti! Sai come la penso sulla tua fantastica scrittura
Sergio
Molto ben scritto, davvero belle l’introduzione al racconto e la psicologia dei personaggi
grazie Luca.
Era in concorso lo scorso anno, ma apprezzo comunque molto che ti sia piaciuto.