Premio Racconti nella Rete 2014 “Turno di notte” di Sergio Sessini
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014Negli ultimi anni ho saputo adattarmi a molti cambiamenti, ma il cambio repentino delle stagioni ancora mi sorprende.
È arrivato l’inverno. Stanotte soffia un vento ghiacciato. Sabato scorso ero all’estuario, a pescare branzini con la fiocina a mano, e l’acqua era appena un po’ fredda. Trentaquattro, ne ho presi: un sacco pieno, pesante. Due per ciascuno dei ragazzini della scuola, e me ne sono rimasti sei. Sabato sera c’era odore di pesce arrosto per tutto il villaggio.
Sotto la luna piena, batto i piedi nella neve. Né i guanti né il vecchio cappotto da sentinella bastano a riscaldarmi. La suola della mia scarpa destra ha ceduto di nuovo. Sarà un problema ripararla. Ho dello spago da parte, vediamo.
Cammino lungo il muro esterno, avanti e indietro, da mezzanotte. Saranno le quattro passate. Mentre stappo la fiaschetta per un altro sorso, sento avvicinarsi il camion di Klaus, il rantolo dal timbro gravissimo di dinosauro morente.
Ecco, lo vedo. Ancora parecchio lontano, ma ben illuminato dalla luna. L’autista si ferma, scende, si appoggia alla fiancata. Allunga il braccio all’interno del finestrino aperto, mi fa un segnale con i fari. Ta-ta; ta-ta. Il solito doppio colpo con gli abbaglianti. Accendo un fiammifero e gli rispondo. Non è Klaus, è più magro, più basso. Lascio cadere il fiammifero e istintivamente metto la mano in tasca. Mi assicuro di toccare la vecchia pistola che non ho mai usato.
Ha visto la mia piccola luce. Rientra nel camion, si avvicina, ma non troppo. Sa che nessuno straniero può oltrepassare il cerchio esterno, delimitato dalla linea di cipressi. Gli vado incontro, quando sono a venti metri si ferma, spegne i fari. Resta la luce della luna, nettissima, distinguo i colori. La mia mano, nella tasca, non perde il contatto con l’acciaio freddo dell’arma.
Scende dal camion. Si batte rapidamente il petto con la destra, due volte, in quello che ormai è diventato il saluto convenzionale tra sconosciuti.
“Sono Antonio”, dice. “Klaus è ammalato”.
Mi domando se lo rivedrò mai più, Klaus. La parola ammalato può significare molte cose.
Si avvia verso il retro del camion facendo segno di seguirlo. Zoppica. Non ha paura che gli stia alle spalle.
Apre il portellone, sale aiutandosi con una corda, mi fa cenno di fare lo stesso. Entro. Odore del grasso rancido di qualche animale, sangue sul pavimento. È andato a caccia.
Apre una scatola, ci sono delle coperte di lana. Emanano un puzzo terribile, che da alla testa. Faccio segno di no.
Ne apre un’altra. Due barattoli di sale. Annuisco. Una mola per affilare i coltelli. Annuisco ancora. Una scatola con candele e fiammiferi. Faccio segno di passarmi anche quelli.
“È tutto?”
Subito mi fa cenno di sì. Poi ricorda qualcosa, cammina nell’oscurità in cerca di un oggetto invisibile. Inciampa, bestemmia. Accende una lampada a nafta. Ora che la luce ne illumina il volto, vedo che non può avere più di sedici anni.
“Quasi dimenticavo. Klaus mi ha dato qualcosa. Mi ha detto che a voi della città queste cose interessano”. Le nostre baracche di legno vengono chiamate la città.
Una cassa ammuffita. La apre. La luce ondeggiante della lampada illumina le forme morbide di un oggetto rossastro.
“Un basso”, mi fa.
Mi inchino, accarezzo il legno dello strumento, alla luce ineguale della lampada alcune venature scintillano.
“No, un violoncello” faccio io. Fa una smorfia, per dire: come credi.
Fingo scarso interesse. “Carne secca ne hai?”, chiedo, senza riuscire a spostare lo sguardo dalla cassa. Scuote veloce la testa, non ne ha. Vedo un’ombra di preoccupazione nei suoi occhi. Forse ha portato la cassa per niente?
“Per quello… Per quello ti dò sei pesci”, faccio, sollevandomi.
È dubbioso. Apro il sacco per fargli vedere quanto sono grandi. Annusa. Freschissimi. Pescati sabato, tenuti nella neve. Sembra incerto. Tiro fuori due bottiglie di acquavite dalla sacca, le appoggio accanto ai pesci. Estraggo anche la mia fiaschetta. “Questa per te, per il viaggio”.
Annuisce. Afferra pronto la fiaschetta, la stringe soddisfatto. Si apre in un sorriso da lupo. Mi batte la mano sulla spalla due volte, l’accordo è fatto. Vuole tornare a casa. Subito, prima che faccia giorno.
Mi aiuta a scaricare la cassa. Riapro il coperchio mentre il camion scompare dietro la bassa collina. Rimango accovacciato nella neve. Non so suonare, ma prendo l’archetto, tento una corda. Ne viene un registro caldo, magnifico. Sorrido pensando a cosa fare.
Le sei, il turno è finito. Il mio vecchio orologio si è fermato da mesi, so che ore sono dal chiarore che si diffonde prima dell’alba. Mi metto la cassa in spalla e mi avvio verso il muro della città. Mi aspetta la colazione e due ore di lezione coi bambini.
Arrivo al magazzino. Tiro fuori lo strumento, gli dò una ripulita con uno straccio. Le corde sono tutte a posto. Ho un po’ di olio da parte, estraggo i piroli delicatamente, li pulisco bene, li ungo, li rimetto controllando la tensione della corda. Sembra tutto in ordine. Niente di rotto. Niente ruggine sul metallo delle corde. Accordarlo, non son capace.
Entro dalla porta della cucina, attento a non far rumore. Maria prepara il tè, è di spalle, non mi sente entrare. Pizzico una corda, si volta, non l’ho mai vista così, immobile a bocca aperta. Mi abbraccia: certamente non vede un violoncello dalla fine della guerra.
Mi verso un po’ di tè, mi siedo mentre lo prende, lo accarezza, lo accorda. Ci mette un attimo.
Mentre addento il mio pane, appoggio la schiena dolorante allo schienale, la vedo sedersi, stringere lo strumento tra le ginocchia. Occhi chiusi, mani che toccano con curiosa frenesia. Movimenti rapidi, soste improvvise, da scoiattolo. Ricorda. Ricorda tutto.
Ho finito. Lavo il piatto e lo ripongo. Il tè lo porto con me. Rumore di risate, di là sono arrivati i ragazzini. Ci guardiamo: niente aritmetica, oggi.
Entriamo, ci aspetta la lezione.
Pochi nel vecchio mondo si aspettavano una guerra, e certo nessuno una guerra così rapida. I primi episodi – Sarajevo, Tbilisi, Lagos – nemmeno li collegammo, e ciò che seguì fu un lampo.
Poche settimane ed eravamo isolati: niente notiziari, telefono, Internet. Ricordo le espressioni smarrite, tutti traditi da quegli aggeggi che prima si erano resi indispensabili e poi erano morti lasciandoci mutilati. Annullandoci.
Io stavo a Milano, con Giulia e i bambini, quando fu attaccata. Contro l’opinione comune che serpeggiava tra la gente, prendemmo la macchina, la stivammo di coperte, biscotti, acqua e taniche di benzina (io, ricordo, portai con me il computer, che pazzo). Ci ritrovammo, nella notte, da qualche parte sull’Adriatico. Un porto con grandi navi. Ci imbarcarono, folle immense sotto scorta militare. Scivolai sulla scaletta bagnata, caddi in acqua, battei la testa. Qualcuno deve avermi ripescato. Ricordo la febbre, una cabina con altri malati e un ragazzino in uniforme che apriva il portello e ci diceva “Si va in Spagna”. Invece, dopo due mesi, sono finito qui. Mi risvegliai dalla febbre, uscii dalla cabina, esplorai la nave senza un’anima viva. Di Giulia, dei bambini, nessuna traccia. Forse non li hanno nemmeno mai imbarcati, su quella nave. Fossero ancora vivi, lo saprei. Non lo sono. Mi tuffai, raggiunsi a nuoto la costa, presi a fiancheggiare l’estuario. Arrivai qui al villaggio. Ero seminudo e disarmato. Mi diedero da mangiare.
Stranieri con notizie favolose e contraddittorie non mancano, voci sulla fine delle epidemie, su grandi città in ricostruzione dall’altra parte di questa penisola; ma io credo che sulla Terra sia arrivata l’ombra della fine. Come lo so? Non lo so. Difficile dire quello che avviene solo a cinquanta miglia da qui. Non ci sono più strumenti di conoscenza che possano abbracciare il pianeta. Solo occhi di viaggiatori ignoranti, impauriti, che per un tozzo di pane raccontano qualsiasi storia. Che mangiano quello che trovano, bevono da pozze infette e cercano di nascondersi terrorizzati quando avvertono il minimo sospetto di presenza umana, stringendo in un buco sordido qualche arma rudimentale che si sono fabbricati.
Credo di essere finito in una delle poche sacche di sopravvivenza del pianeta, anche se non posso esserne certo. Io e i duecento sopravvissuti della città. Qui ci sono capre, conigli, datteri, olive, frutta. Un bosco con animali selvatici. Le epidemie sembrano essersi fermate al di là dell’estuario, dove non ci avventuriamo mai. Perché proprio noi, perché proprio qui: lavoro per gli storici, se ce n’è ancora qualcuno. Ma la storia è finita. Forse soltanto io, con la mia mania per i numeri e i conteggi, ricordo che per il vecchio calendario oggi è il primo gennaio dell’anno duemilaeventotto.
I bambini sono seduti e si guardano l’un l’altro con risatine soffocate, l’ingresso del violoncello li diverte. Non sanno cos’è. Non hanno mai visto nemmeno un disegno di uno strumento musicale, a parte il rudimentale flauto di canna che ho costruito per loro la scorsa estate; esperimento riuscito maluccio. Ancora un poco assonnati, le guance rosse per la camminata al freddo, sono belli. Comincio la lezione. Maria siede, sistema lo strumento, guarda i ragazzi uno ad uno, ha le guance rosse anche lei. Non è per il freddo.
“Mettete via i quaderni, oggi niente aritmetica. Oggi, grazie alla nostra solita fortuna, avremo modo di conoscere un uomo straordinario, dal nome strano: Johann, Sebastian, Bach. Tra un po’ ne parliamo. Ora rilassatevi e ascoltate. Ascoltate bene”.
Maria attacca. Il suono è caldo e avvolge subito l’aula, trasformandola. Nessuno sembra respirare. Devo avere acquistato uno strumento buono, che vale tutti i suoi sei pesci, le due bottiglie di acquavite e soprattutto la mia preziosa fiaschetta. Maria suona con sicurezza e perfetta espressione quella crescita di note sempre più complesse. Strumento o non strumento, non ha mai smesso di esercitarsi. So a memoria ogni passaggio anch’io, con Maria l’abbiamo cantata tante volte nelle notti buie, a bocca chiusa. Quanta musica nella nostra memoria, ora che non ci sono più strumenti per ascoltare. Più di una notte mi sono svegliato al mormorio lamentoso della sua voce e l’ho trovata madida, nel mezzo di qualche incubo inaccessibile, a fraseggiare nel sonno con le dita mobilissime qualche sconosciuto pezzo usando il mio braccio come tastiera, indugiare con un vibrato sul mio polso.
Stringo la tazza calda tra le mani, mi appoggio alla finestra assaporando ogni nota. Un angolo del vetro è rotto, uno straccio arancione lo tampona. Non ho più pezzi per sostituirlo. Chissà se qualcuno di noi potrebbe imparare a fare il vetro? Cosa ci vuole? Una fornace, sabbia… non lo so di preciso. Alzo il braccio per salutare Maurice e Nina, che passano con secchi fumanti di latte di capra. Oltre la grande vetrata, la linea obliqua del volo di anatre. Dall’estuario si è levata una specie di nebbia, gialla di luce mattutina.
Sono felice. Mi prende sempre così, dopo il turno di notte.
Come dicevo in risposta al tuo commento per il mio racconto, forse la musica sarà davvero la nostra salvezza. Probabilmente è stata la prima forma di espressione artistica dell’uomo, come probabilmente Demetrio Stratos voleva dimostrare con la sua ricerca.
Da vecchio lettore di fantascienza ho particolarmente apprezzato il tuo racconto. Maria e il suo violoncello mi hanno fatto pensare al Preludio alla Suite N. 1 di Bach. Anche tu pensavi a quel brano stupendo quando hai scritto il racconto? Se sì allora, vedi, la musica ha fatto un altro miracolo …
Bravissimo.
Grazie Vincenzo, si tratta proprio della suite no. 1 di Bach! Niente di più adatto per far conoscere la musica a quei ragazzini, giusto?
Nel racconto è stata recuperata grande musica, ma anche un brandello di quanto di nobile l’umanità ha saputo produrre.
Grazie ancora e in bocca al lupo.
…e quattro!
Tempi al presente,
sguardo al futuro.
La solita scrittura scorrevole,
per un’altra storia sempre diversa dall’altra.
Spero di non vederti più qui il prossimo anno.
E questo è un augurio.
🙂
@Maurizio: 😉
Adoro la fantascienza! Soprattutto quella scritta bene, anzi benissimo come questa. La delimitazione dello spazio e del tempo si aprono insieme e regalano al lettore la consapevolezza di un mondo che non c’è (ma potrebbe benissimo esserci). I dettagli lo rendono vivido e vitale. Proprio bello.