Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2014 “…l’ora è fuggita…” di Marco Di Paolo

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014

A mio nonno

In fila con indosso solo le mutande, ci fanno stare immobili con le mani dietro alla testa; il tedesco sta uccidendo una alla volta tutti i miei compagni. Frasi ingiuriose, poi un colpo alla nuca e cadono giù afflosciati come sacchi vuoti. Quei corpi inermi vengono ingoiati dalla terra che si spacca per poi richiudersi, come la bocca di uno squalo. Il compagno al mio fianco piange disperato, mi volto sono lacrime di sangue quelle che segnano il suo viso. Voglio fuggire via. D’istinto mi metto a correre, o cerco di farlo, ma non riesco a muovere le gambe come vorrei, sembrano incollate al terreno, non sostengono il peso del mio corpo. Allora piango ed urlo dalla disperazione, ma è un urlo strozzato in gola. Nessuno mi sente. Non voglio fare quella fine, no! Perché Dio permette questo ? Se esiste un vero Dio perché non fulmina tutti quei tedeschi. Perché devo morire così. Poi un angelo nero dalle sembianze di un’idra scende dal cielo mi afferra le spalle ed il suo urlo mi entra nelle ossa:
“Italienisch Bastard, Ich werde dich töten wie einen Hund!“ (bastardo traditore italiano ti uccido come un cane).
Il rumore della scarica di proiettili del mitra del tedesco mi fa svegliare. Ho il respiro affannoso ed un tremore alle gambe, sono sudato ed  ho la bocca secca. Il cuore batte forte, sembra voler esplodere dal mio petto. Respiro a fatica. Muovo lentamente il braccio destro in cerca della luce. L’angina pectoris ora mi da un dolore fisso che non riesco a sopportare; maledetta vecchiaia. A fatica mi siedo sul letto ed infilo sotto la lingua la pillola, ed aspetto che il dolore mi passi o che la morte mi sorprenda all’istante senza farmi soffrire.
Ho paura e piango: è così ogni notte da tre anni oramai. Da quando è morta mia moglie sono ricominciati gli incubi.
Quando fui arruolato nel ventitreesimo reggimento di fanti non sapevo cosa mi aspettasse. Tornai a casa dopo cinque anni con trenta chili in meno nel corpo e tanta pazzia nella testa. Mi salvò l’amore. Sposai mia moglie appena un anno dopo il mio ritorno dal fronte. L’angina ora sembra attenuare la sua morsa. Ho sete. Provo ad alzarmi, nonostante la mia età riesco ancora ad essere autosufficiente. Cammino lentamente, entro in cucina, bevo, mi avvicino alla finestra, guardo fuori che sta piovendo. La luce dei lampioni nella strada,  riflette il mio viso sul vetro, la vecchiaia mi ha segnato la pelle, ha imbiancato tutti i capelli, ha modificato i miei lineamenti che quasi non riconosco, ma la guerra, quel mostro, ha marchiato indelebilmente la mia anima. Fisso i miei piccoli occhi scuri nella trasparenza della notte, sembrano due biglie riflesse sul vetro. I ricordi appaiono nitidi ed i pensieri scorrono come la pioggia che cade.

 Non ero pronto a vent’anni alle urla strazianti di quella povera donna, che stava imprecando contro quei maledetti che la stavano violentando, mentre con una pistola puntata in gola i tedeschi mi costringevano a guardarla. Non ero pronto a vent’anni a fare il bagno con il sangue dei miei compagni, mentre li trasportavo in spalla senza più una gamba, senza più un braccio, senza più un occhio, e gridavano disperati di non voler morire, ed io a mentire che c’è l’avrebbero fatta.  Non ero pronto a vent’anni per la guerra, e non lo sarò mai, nemmeno oggi a novanta. Oggi che ho paura più di allora di morire.

 Le mie dita indebolite dal tempo, ossa e carne di una mano grinzosa e tremante, allentano per un istante la presa, ed il bicchiere cade in terra. Vedo l’esplosione di mille schegge di vetro disseminate sul pavimento bianco. Il suono è solo un fugace e trasparente ricordo giovanile, chiuso a chiave nella mia testa. Il ricordo mi appare nitido ed in esso rientro in un istante.

Quando la bomba esplose, mi ritrovai ficcato a testa in giù nella terra sollevata dall’esplosione senza nessuna possibilità di movimento: ingessato dalla testa ai piedi. Tutto accadde improvvisamente ed in un istante mi ritrovai dalla luce del giorno al buio assoluto. Silenzio. Non sentivo più il mio corpo. La testa che mi scoppiava dentro quella tomba di terra e fango. Le immagini della mia vita che scorrevano nel mio cervello come il riavvolgere di una vecchia pellicola di un film. Mia madre, mio padre i miei fratelli, i lunghi momenti vissuti insieme passavano in un batter di ciglia impressi su quella pellicola. Avrei voluto rivederli. Il freddo improvviso mi avvinghiò il corpo, e iniziai a tremare. Non riuscivo più a respirare ed il fango stava entrandomi in gola. Stavo morendo, era giunta la mia ora. Implorai Dio di farlo il più velocemente possibile. Quando mi sentii tirare per i piedi credetti che l’angelo della morte stesse portandomi giù nell’inferno, poi vidi la faccia del tenente De Amicis che urlava per farmi capire che gli alleati stavano bombardando il campo, ma purtroppo per me quell’esplosione, che mi avrebbe liberato dalla lunga prigionia, aveva dato  inizio alla mia sorda agonia.

 Vivo con la mancanza di udito da quel maledetto giorno, quando i rumori si sono trasformati in fantasmi. Molti anni sono passati ed i suoni si sono fatti sempre più sfocati finché li ho dimenticati. Ho dimenticato il rumore delle onde del mare, dell’abbaiare di un cane, ho dimenticato il tono della mia voce. Quello scoppio ha sigillato nella mia testa, come un nastro, solo gli atroci rumori della guerra, che si sono cicatrizzati sul mio corpo nel momento stesso della deflagrazione, e mi sono rimasti dentro vivi e lancinanti. Avevo ventisei anni e molti sogni frantumati.
Guardo l’ora, le quattro. Osservo la foto di mia moglie sul camino. Era proprio bella. Il suo sguardo catturato da quella foto è quello del nostro primo incontro. La stessa intensità, la stessa emozione. La fisso negli occhi così come mi accade durante il giorno seduto davanti al camino, quando cerco il ricordo della sua voce che mi chiama: “Mario”. Il ricordo arriva come un pugno nello stomaco.

 Erano quindici giorni che ci tenevano chiusi dentro ad un vagone, fermo su un binario morto della stazione di Belgrado, ci avevano catturato in Macedonia e ci stavano deportando in Germania, dove avrei dovuto vivere, come un animale, per tre anni in un campo di concentramento. La puzza di escrementi e corpi in decomposizione dentro quel vagone era oltre immaginabile. Il minimo che ci potesse capitare era di prendere il colera. Il lamento  della disperazione delle persone era la colonna sonora di ogni secondo, minuto, ora del giorno e della notte. I topi grandi come gatti si cibavano dei nostri rifiuti corporei, le pulci e i pidocchi erano colonie giganti. Ma la cosa che non riuscivo proprio ad accettare erano quei poveri bambini, i loro sguardi terrorizzati e disperati con un corpo oramai ridotto ad un mucchietto d’ossa. Dove era Dio in quegli anni ? Mi chiedevo puntualmente ogni giorno. Dove si era nascosto ? Perché permetteva che dei poveri bambini subissero tali mostruosità?
La vidi la prima volta in quel vagone, uno scheletro con due occhi color azzurro. Mi guardò e, nonostante la nostra dignità calpestata dagli eventi, ebbe il coraggio di sorridere. Quel sorriso mi ha accompagnato per la tutta la vita, ed ogni volta che me lo ha regalato sembrava che mi dicesse: “nonostante tutto siamo stati fortunati”.

 I ricordi si muovono nella mia testa come nuvole spostate dal vento. Lentamente raggiungo lo studio. Entro. La cartella verde è sulla scrivania, l’apro. Più di mille fogli ingialliti dal trascorrere del tempo, l’inchiostro nero pece che riempie ogni angolo di quei fogli. Le mie poesie. Le osservo, ne prendo una, la leggo per assaporare una traccia del mio passato. Scrivere mi ha salvato la vita. Il silenzio se non provo a gestirlo mi porta alla follia, un labirinto dal quale non posso fuggire ma con cui cerco di convivere. Mi siedo sulla sedia davanti alla scrivania, prendo un foglio e la penna. Provo a scrivere quelle parole che stanno riaffiorando nella mente da molto, molto lontano, da un passato che pensavo avessi cancellato. E’ solo un puzzle da ricostruire, tante tessere sparse qua e là buttate nella mia testa. Una scossa, il soffio delicato di un’energia che sta cercando di riaffiorare come se fosse stata imprigionata dentro di me per tanti lunghi anni. Un’energia scritta con inchiostro indelebile nella mia anima, e che questa notte ha deciso di liberarsi. Tremo perché scrivendo, mi accorgo di riuscire a percepire nella mia testa distintamente un accenno di melodia, che sembra essere tutt’uno con queste parole. Sento una scossa profonda ed il mio cuore batte forte per un’emozione che non provo più dalla gioventù. Ecco che ora la melodia si sta facendo più incisiva ed insistente, è qui nella mia pancia e sta cercando di venire su, è dirompente ha una forza indomabile, spinge con veemenza, mi attraversa lo stomaco, provo piacere e dolore nello stesso istante. Poi un lampo negli occhi, lo squarcio nel petto, l’esplosione di un fuoco d’artificio in uno scintillio di note dimenticate. La melodia che si rivela. Il canto della voce  e le parole riempiono il vuoto nella mia testa.

 Quando Filippo rientrò in casa, dopo aver fatto il turno di notte, aprì la porta e cercò suo nonno Mario in camera, e poi in bagno, ma non lo trovò. Quando entrò nello studio lo vide, aveva la testa appoggiata sulla scrivania, gli occhi velati e fissi nel vuoto, la bocca spalancata. Dopo lo sgomento, Filippo sprofondò nel dolore: suo nonno Mario era morto. Vide la poesia accanto alla sua mano, la lesse e riconobbe le parole dell’aria cantata dal pittore Cavaradossi nell’atto finale della Tosca.

E lucevan le stelle,
e olezzava la terra,
stridea l’uscio dell’orto
e un passo sfiorava la rena.
Entrava ella, fragrante,
mi cadea fra le braccia.
Oh! dolci baci, o languide carezze,
mentr’io fremente le belle forme disciogliea dai veli!
Svanì per sempre il sogno mio d’amore…
l’ora è fuggita,
e muoio disperato!
E non ho amato mai tanto la vita!

Filippo pianse e lasciò che le sue lacrime cadessero sulla mano di suo nonno, come se quelle lacrime potessero in qualche modo fargli sentire il suo terribile dolore. Pensò a suo nonno che per colpa della guerra aveva dovuto interrompere la sua fulgida carriera da cantante lirico, e rinunciare alla passione della sua vita per via di quella maledetta bomba. Filippo sapeva che suo nonno Mario nonostante la tragedia della guerra, l’odio verso chi aveva ucciso i suoi compagni d’armi e l’amarezza per aver perso la possibilità di cantare nei più grandi teatri del mondo, non aveva mai smesso di amare la vita.
“La vita è una magia, e come per tutte le magie, nell’oscurità si cela un segreto” aveva scritto in una delle sue poesie. Filippo guardò ancora una volta quel volto segnato dalla vecchiaia, lo accarezzò e gli regalò un sorriso. Ricordò quella volta che suo nonno lo aveva accompagnato in teatro ad assistere alla prima della Tosca, ed eccitato come un bambino, gli aveva scritto su di un biglietto “Non preoccuparti, la Tosca la conosco a memoria,  me la canto dentro, mi basta questo.”

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2 commenti »

  1. Marco il tuo racconto è toccante. Vedo che è dedicato a tuo nonno e immagino quindi che quello che hai raccontato (o almeno una parte) sia storia vera.
    So cosa voglia dire avere avuto un nonno che ha fatto la guerra e ne è ritornato segnato, so anche cosa sia il coraggio di un nonno che, pur ferito nel corpo e nell’anima, racconti al nipote le cose belle della vita e gli risparmi la sofferenza. Si capisce solo da adulti il coraggio di voltare pagina e farla voltare alle generazioni più giovani. Scrivendo di tuo nonno gli hai fatto l’onore che merita.
    Il tuo racconto scorre ed è ben scritto. Destabilizza forse un po’ il cambiamento repentino dall’io narrante alla narrazione, forse in un racconto lungo andrebbe meglio perché si può cambiare capitolo o marcare lo stacco con un titolo. Non è una critica, solo un’opinione; capisco però la narrazione era da cambiare …
    Auguri per il concorso!

  2. L’urlo di chi ha dovuto sopportare, per i casi violenti e strani della vita, di aver tarpate le ali, quelle della sua passione, del suo desiderio di realizzarsi.
    Un megafono messo avanti alle labbra di chi è muto o a poca voce per far capire che non tutti, anche per pura sfortuna e non per poco impegno non riescono a realizzare i propri sogni. Oggi molti, e soprattutto ragazzi dovrebbero ascoltare i racconti degli anziani e comprendere i veri valori.

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