Premio Racconti nella Rete 2014 “Con il cuore altrove” di Francesca Berti
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014La mia bellezza non è opinabile. E’ un dato di fatto. Come il sole che sorge e le castagne in ottobre. Ma a differenza del sole e delle castagne, che si propongono da soli al momento giusto, la mia bellezza deve essere offerta a ragion veduta. E’ il pensiero generale.
Che ci siano in me talenti apprezzabili o addirittura superiori in misura alla perfezione del mio aspetto, è una possibilità fastidiosa e come tale la si scaccia, al pari di una mosca dalla frutta. Che poi io cerchi di far emergere questi talenti, è visto con sospetto, come una forma di empia ingratitudine verso la natura e il dono visibile che con tanta abbondanza ha voluto prodigarmi.
I primi che avrebbero dovuto accorgersi del pericolo incombente e adoperarsi per farmi da riparo, gli spalancarono invece le braccia, felici delle possibilità tangibili e sonanti che esso lasciava intravedere. E chi ha detto che ciò che ci genera debba anche amarci? Un albero si preoccupa forse della sorte dei suoi frutti? Se marciranno o saranno mangiati, crudi, cotti, o spiaccicati e ridotti in marmellata? E le foglie, allora? Cadono ad un certo punto, e un rastrello diligente se le porta via. Che fine fanno? L’albero forse se lo chiede?
Cominciò così la mia stagione itinerante, dove mi abbronzai a dovere sotto luci innaturali con scenari fantastici alle spalle, mi buscai bronchiti passeggiando mezza nuda su improbabili spiagge invernali alle sette di mattina e mi candidai al mal di schiena restando in piedi per ore, mentre mani alacri mi trafiggevano di spilli prima di spingermi su un palcoscenico lungiforme che tagliava lo spazio, dividendo in due una moltitudine di teste.
Chissà se Mosè attraversando il Mar Rosso pensò di essere divorato da una voragine di buio.
Con un coraggio impensabile mi rivoltai e confessai la mia ripugnanza per tutto ciò, ricevendone in cambio uno stupore deluso e, da quel momento in poi, una totale indifferenza, che mi regalò però la libertà di provare per me un destino diverso e di percorrere strade più congeniali.
Mi iscrissi all’università. Lingue e letterature straniere.
Rivedo il sorrisetto obliquo dell’impiegata che raccolse i miei documenti e mi consegnò il libretto, con la foto tessera fatta alla macchinetta all’angolo della strada, che non era riuscita a compromettere ciò che i miei geni avevano assemblato sul mio viso. Non me lo spiegai sul momento quel sorriso. Me lo spiegai più tardi, quando partecipai alla mia prima lezione. Letteratura tedesca della seconda metà dell’800.
Entrai nell’aula già gremita di studenti, e il Mar Rosso si divise di nuovo davanti a me, come sulle passerelle.
Cercavo di incrociare uno sguardo, un cenno amichevole, un gesto di complicità, “Salve, sei nuova? Anch’io, ti va di sedersi accanto?”. Macchè. La componente femminile distoglieva lo sguardo arricciando il naso, come in presenza di qualcosa di maleodorante. La componente maschile era, come al solito, spaccata per psicologia fra insicuri complessati fingenti indifferenza, e ussari arditi rimasti a bocca aperta, ma con il cervello subito in azione a progettare futuri attacchi a spada sguainata. Anche Mosè si sentì così solo?
Dopo qualche sporadico contatto sociale, maschile s’intende, mi arresi all’evidenza del pregiudizio che secoli di umanità pensante ha decretato, e cioè che l’aspetto dell’involucro sia inversamente proporzionale alla qualità del contenuto. In parole povere significa che la letteratura è fatta per le altre, per quelle che capiscono. Per me apprezzamenti pesanti e pizzicotti sul sedere.
E’ una legge universale scritta sulla pietra, come le tavole di Mosè. Ancora Mosè, sempre lui.
E come chiedere alle donne di perdonare un’ingiustizia così infame come quella di girare il coltello nella piaga delle loro insicurezze? E una me me di coltelli ne deve aver girati parecchi.
Il mio tentativo di volo ebbe termine quando all’ennesimo colloquio con l’ennesimo insegnante, mi sentii proporre di discutere con più agio la mia carriera accademica e un futuro luminoso in una sede più tranquilla e in ottima compagnia.
Sugli uomini ho imparato presto. Ho imparato cioè che ogni categoria di donna può avere aspettative su determinate categorie di uomini.
Scartiamo gli uomini cosiddetti comuni o medi, che con una come me si comportano come nella favola de “La volpe e l’uva”: “Si, è bella, ma è senz’altro scema, frivola”. Oppure: “Così bella non può certo essere una donna seria, chissà quanti ne avrà avuti, sai com’è”. Come se loro lo sapessero esattamente, com’è.
Scartiamo i timidi che mai avrebbero l’ardire di tentare e che si limitano a scoccare occhiate malinconiche e senza futuro.
Scartiamo gli intellettuali, che davanti a me inalberano il crocifisso: “Vade retro, creatura di Satana!”. Sempre per la legge dell’involucro e del contenuto.
Le categorie a me riservate sono due: bastardi sfrontati, pieni di lussuria e di saliva, tormentati da passioni disturbate e turbe emotive risalenti all’infanzia e al rapporto con la madre, oppure yuppies cinici, emotivamente piatti, plurilaureati ma semianalfabeti, agguerriti e determinati ad entrare in possesso di qualsiasi cosa assomigli anche vagamente ad uno status.
Va da sé che essendo la prima categoria improponibile, mi rivolsi alla seconda. Scelsi il meno peggio che mi si offriva e lo sposai.
Mio marito. Non è una cattiva persona, anzi, con me è sempre galante e delicato e così inesistente che non so mai dove si trovi e questo fatto che pur dovrebbe dispiacermi, non mi reca invece alcun dilemma, trattandosi di un’assenza così utile da farmi riflettere sull’inutilità di presenziare nel mio cuore, nei miei pensieri e in una qualsiasi altra parte di me. La nostra unione è stata benedetta dalla nascita di due figlie, gemelle, due minuscole riproduzioni di me, con tanto di valore aggiunto. Avendo ormai gli strumenti per indovinare il loro destino, non mi sono permessa la distrazione di amarle, ma mi occupo di loro in maniera esemplare, perché questo ci si aspetta da una madre.
L’aggettivo più usato dal mondo per descriverle è: “incantevoli”. Che incantevoli visini, che incantevoli occhi, che incantevoli manine, ecc., ecc.. Così nel mio lessico sono rimaste “le due incantevoli” e in questo modo le chiamo dentro di me.
Per comprendere meglio la mia vita di moglie e madre posso riportarne un esempio, un piccolo fotogramma.
E’ mattina presto. Sono seduta al tavolo di cucina e sto facendo colazione con le due incantevoli, prima di uscire per accompagnarle all’esclusiva scuola privata dove frequentano senza futuro la seconda elementare.
Mio marito entra nella stanza, allacciando al polso l’orologio che costa quanto l’affitto annuale di un attico in pieno centro storico. Mi si avvicina e deposita un tenero bacio sui miei capelli.
“Cara, stasera vengono a cena i clienti americani, te l’avevo detto, ricordi? E’ gente rozza, del midwest, poco più che bovari, ma valgono un pacco di soldi. Non sforzarti di conversare in inglese, non c’è bisogno, c’è già Corradini che lo parla così bene, ci penserà lui a intrattenerli. Vorrei che ti mettessi l’abito nero, quello da sirena, così li stendiamo per bene, che ne dici?”. Mi fa un cenno di intesa.
Lo guardo, al di sopra di due incantevoli teste, e gli sorrido. “Certo, mi sembra una buona idea”. Complicità, ecco cosa ci si aspetta da una moglie.
Così, dritta e lesta, io procedo nella vita, giro intorno agli angoli, salgo scale, salto fossi, ma con il rossetto giusto, anche se fradicia di pioggia, leggera e insoddisfatta, danneggiata ma perfetta, e sempre con il cuore altrove, ma con la mente salda sul collo e i piedi ben calzati nei miei stiletti tacco dodici, perché questo ci si aspetta da una come me.
Mi chiedo se davvero esistano vite così e mi rispondo di sì. Mi chiedo se esistano anche vite diverse e ancora mi rispondo di sì. Tu hai raccontato una storia che esiste, ma sembra non ci sia rimedio…credo di sì, il rimedio esiste. Inizia proprio dalla lettura di un racconto come il tuo; una riflessione amara e ben scritta su un certo modo di vivere il benessere materiale che abbiamo la fortuna di conoscere. Una scrittura coraggiosa che merita attenzione.
La protagonista della storia è una donna vinta, che si è arresa. Nessuno la vuole (e la vorrà mai) per ciò che ha dentro, e lei è troppo intelligente per non capirlo. E’ un’emarginata, che si è costruita un suo mondo interiore per sopravvivere, con la consapevolezza di essere una “diversa”.
Fa parte della mia galleria di personaggi femminili.
Grazie per il tuo riscontro. Ne sono onorata.
Ciao.
Racconto amaro, intenso e toccante che riesce a far centro. Tristemente vero per molti aspetti e ben scritto. Complimenti e grazie per averlo scritto!
Grazie a te per averlo apprezzato. L’ho scritto in mezz’ora, perché me lo portavo dentro da molto tempo.
Bel racconto che descrive la sofferenza e la rassegnazione di una donna per la solitudine, “con il cuore altrove”, in cui la sua bellezza fisica le crea intorno. La protagonista è consapevole dello “status sociale delle donne belle”, trova le ragioni del suo isolamento nella sfera dei sentimenti; è il modo di ragionare della società che vede nella bellezza un ruolo
di successo non collegato all’intelligenza e alla cultura. La bellezza è un elemento che non compare nel curriculum vitae ma apre le strade comunque nella selezione. Considerazioni amare su questa società che dà molta importanza all’apparire, ma in ogni epoca troviamo queste situazioni. Brava e, permettimi una battuta: dovevi iscrivere la protagonista a “Antropologia”, vista la capacità di analizzare le situazioni, e non a “Lingue e Letterature straniere” o falla diventare scrittrice.
Ciao
Emanuele
Questo racconto incantevol… (oops, scusa: bello) mi era sfuggito. Non essendo né donna, né bello, mi è difficile identificarmi con la protagonista. Eppure si è subito creato, leggendo, un senso di aspettativa che sperava in una sua reazione. Anche perché, con tutti quei rimandi a Mosé, pareva profilarsi un futuro luminoso e predestinato. Il tuo cuore è altrove, d’accordo, ma dove? Facci vedere un gesto di coraggio, una situazione dove sei veramente tu… E invece, ahimé, la corrente delle cose ha avuto la meglio.
Molto amaro. Anche perché non succede nulla di tragco. Si parla di vita normale, anzi privilegiata. La tragedia è nel distacco.
Il racconto coglie nel segno. La prova è che sono ancora qui che mi interrogo su di lei, quindi dentro la storia; ad esempio faccio fatica a considerarla interamente innocente rispetto a quello che le capita.
Grazie Emanuele e Sergio per il vostro commento.
Per Emanuele: chissà che prima o poi la protagonista non diventi una scrittrice … Le carte in regola ce l’ha, direi.
Per Sergio: lei non è innocente (sono davvero poche le situazioni che ci vedono del tutto innocenti riguardo a ciò che ci succede), è solo che non è una guerriera, tutto qui.
Una verosimiglianza sfacciata con ciò che ci si aspetta – mi metto nella categoria delle bruttine invidiose – sia il giusto contrappasso per una bellona.
Se poi è anche intelligente cavoli suoi, doveva nascere con qualche difetto!
Il tuo racconto soddisfa tutti i miei criteri di valutazione: incipit accattivante (mi piace l’aggettivo opinabile, non si sente spesso, e amo i dati di fatto), rispetto di grammatica e sintassi, metafore originali, storia coerente, finale amaramente scontato ma non consueto.
Ho letto in un commento in bozza che pensi che la protagonista potrebbe diventare scrittrice: beh, non ti crucciare, anche se questa fosse per lei l’ennesima sconfitta tu la stoffa ce l’hai SENZA ALCUN DUBBIO.
In culo alla balena! (che ci vuoi fare: amo i lupi e la balena non se ne accorgerà nemmeno)
Ciao
Ciao Francesca hai affrontato un tema controverso, da una donna bella, non ci si aspetta altro, tantomeno l’intelligenza. Ho sempre difeso questa categoria di donne, sembra assurdo ma è vero, le donne stanno alla larga per la solita e scontata competizione e gli uomini che si avvicinano non guardano al di là del loro naso. Racconto amaro di una donna che si è rassegnata, ma da grande sognatrice, vorrei che in un altro capitolo, la protagonista si riscattasse, facendo conoscere la sua intelligenza e il suo mondo interiore, magari incontrando anche qualcuno degno della sua vicinanza. Brava, molto bello.
io stessa ho scritto in altra sede, un racconto che
Il racconto semiserio,o meglio, amaramente ironico
della (doppia ) vita di una bella. La vita che si vede e quella che sente dentro, perche’ questa e’ una bella intelligente e pensante e, forse, proprio per questo rassegnata alla sconfitta: le si chiede un ruolo preciso da semore e alla fine si e’ adattata a svolgerlo.Bello il capoverso finale e anche il doppio riferimento biblico. Scorrevole, si legge fino alla fine con curiosita’ e piacere.
Complimenti Francesca.
Marco
Un ruolo preciso da eseguire..sorry Francesca.
La bellezza crea distanza e quando è accompagnata da intelligenza e talento difficilmente viene perdonata.
Hai saputo individuare e descrivere con grande realismo le sensazioni e le reazioni che una donna “troppo” bella scatena nel prossimo. Qui come nell’altro tuo racconto emerge anche la triste realtà della competizione tra donne, che invece di essere sorelle e solidali diventano spesso nemiche per la conquista dell’attenzione del maschio.
Mi piace immaginare che la protagonista di questa storia ritrovi sè stessa dopo i 40, quando tutto si ridimensiona e trova la giusta collocazione (bellezza compresa). Se saprà resistere alle tentazioni della devastante chirurgia estetica, potrà finalmente essere ciò che vuole invece di modellarsi sulle aspettative altrui.
Complimenti, un racconto amaro ma molto efficace.