Premio Racconti nella Rete 2014 “Altri anni” di Enrico Valdes
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014“Dal buio un chiarore. Un quarto di luna, nuda.”
“Capivi dove eri?”
“No. Non sapevo né di esser vivo né chi io fossi.
Ricordo solo quella luminosità, che mi pareva abbracciare tutto il mondo.”
“Nient’altro?’”
“Niente. Solo la luce, unica presenza.”
“E dopo?”
“Dopo, il nulla senza pensieri, e poi, distinto, il suono di una campana.
La luce cambiò. Era rosata e calda, e capii in quell’attimo di esistere, ma ero immobile, in un guscio che mi tratteneva.”
“Quanto rimanesti sveglio?”
“Non so: dopo un tempo indefinito arrivò qualcuno.”
“Ingegnere, mi sente?” chiese.
“Ero io. – pensai – Mossi le labbra, senza articolare parola e, come se avessi invece rivelato qualcosa di importante, venni circondato da molte persone.
Discutevano tra loro e gesticolavano.
Un medico verificò i miei riflessi puntando sulle mie pupille un fascio abbagliante.”
Ero seduto nello studio dello psicanalista. Pochi mesi erano trascorsi da quel giorno e dagli avvenimenti che, con lui, cercavo di capire.
Avevo appena compiuto cinquant’anni.
“Una bella età” disse mio padre, il giorno del mio compleanno.
Era vero.
Se fortuna e salute mi avessero accompagnato, potevo dirmi soddisfatto: moglie, due figli, un’azienda efficiente, danaro da spendere.
Eppure dentro di me qualcosa lavorava per farmi perdere tutto ciò che avevo guadagnato e raggiunto con fatica.
Per noia o vanità, non lo so, mi ero infilato in una storia con una ragazza, più giovane di me di vent’anni.
Era la prima volta, non avevo mai tradito mia moglie. Eppure non riuscivo e non volevo interrompere quella relazione, che mi emozionava fino a stordirmi.
Inventavo impegni imprevisti e riunioni che si protraevano fino a tardi, pur di incontrare Diana, così si chiamava la mia amante.
Con lei mi sentivo colpevole per non poterle promettere nulla di certo, ma più il senso di colpa mi angustiava, più mi legavo a lei, e il mio desiderio non trovava sosta.
Perché la volevo? Perché mi voleva? Ero lusingato, attratto dalla sua giovinezza, ma impaurito, pieno di ansie e dubbi.
Carla, mia moglie non meritava questo, e io, come un disco interrotto, ripetevo a me stesso di amarla, e di non volerla perdere.
C’era anche un problema non da poco: come mantenere il segreto? Non so se Carla avesse dei sospetti, non era mai stata gelosa, e si fidava di me. Ma sino a quando?
I rapporti con mio figlio, poi, non erano granché. Sandro lavorava in azienda, ma non gli lasciavo lo spazio che lui voleva. Non delegavo. Mi sentivo insostituibile e unico.
Lui era andato a vivere per conto suo e, al di fuori dell’ufficio, lo vedevo pochissimo.
Avevamo perso da tempo la nostra confidenza.
Fortunatamente in casa c’era mia figlia Sara di diciotto anni. Con lei tutto filava liscio, ma mi sentivo falso, e non riuscivo ad essere spontaneo e affettuoso come prima.
Cinquant’anni.
Una bella età, dicono.
Io ero però scontento e sapevo di essere sull’orlo di un baratro.
Rischiavo di causare l’infelicità mia e di chi mi era attorno.
Il lavoro era un turbinio di impegni. Non bastavano fiumi di soldi per fornitori, dipendenti, tasse, e a fatica cercavo un equilibrio tra le fatture puntualmente pagate e quelle da esigere con insistenza.
Le amicizie superficiali erano tante, gli amici veri pochi.
Le vacanze e i viaggi venivano subito dimenticati.
Restavano sensazioni fugaci e una ricerca di felicità sfuggente, forse inesistente, ma inseguita senza sosta.
La mia salute era buona, non fumavo, pochissimi gli alcolici, e l’attività in palestra era regolare.
Soffrivo però, da qualche mese, di forti mal di testa. Non mi era mai capitato prima, e l’attribuivo allo stress della mia complicata situazione sentimentale. Mi riempivo di analgesici e rimandavo di settimana in settimana un controllo. Avrei superato il problema, pensavo, senza bisogno di medici.
“Ti vedo strano, sei pallido.” mi diceva mia moglie, e io, sempre sul chi vive, minimizzavo:
“Ho qualche preoccupazione sul lavoro, sai quell’appalto che non si conclude.”
“Anche oggi hai mal di testa?” mi domandava Diana.
“Lunedì prossimo ho un appuntamento col medico, ma credo stia diminuendo.”
E quel giorno, invece, gli analgesici, a cui oramai ero refrattario, non avevano ottenuto alcun effetto.
Caddi “sul campo”, nel mio ufficio, senza neppure rendermene conto.
La segretaria mi trovò piegato sulla scrivania, rantolante, con la bava alla bocca.
Fui trasportato d’urgenza in ospedale, dove mi venne diagnosticata una grave emorragia cerebrale per rottura di aneurisma.
Ero in pericolo di vita.
Fui operato immediatamente.
Ci furono complicazioni e dovettero tenermi in coma farmacologico per un mese.
Non si sapeva se mi sarei risvegliato e quali sarebbero stati i danni neurologici residui.
Lo psicanalista ricominciò con le sue domande: “Il tuo risveglio avvenne spontaneamente?”
“I medici mi spiegarono di aver ridotto progressivamente e poi sospeso i farmaci che mi tenevano addormentato.
Fu così che ripresi conoscenza.”
“Hai ricordi di quel mese trascorso in coma?”
“Dopo la dimissione dall’ospedale, talvolta mi arrivavano improvvise e indefinite sensazioni di luoghi lontani, che mi rendevano inspiegabilmente felice. Credo fossero percezioni collegate a quel particolare momento da me vissuto.”
“Come definiresti quella felicità?”
“Armonia: nessun bisogno, nessuna paura.”
Le sedute si succedevano regolari, e arrivò il momento in cui il terapeuta volle che gli spiegassi nei dettagli ciò che seguì il mio risveglio.
“Ero irrequieto gli dissi – tra flebo, drenaggi, dolori.
Per fortuna tutto andò per il meglio. Il corpo funzionava, ma la mente, soprattutto la memoria, tardava a recuperare.
Il primo spavento fu quando, per la prima volta, mi rividi allo specchio. Non mi riconoscevo. Chi era quell’uomo che mi fissava, con le occhiaie, i capelli grigi e le guance magre e pallide? Ero io: possibile? La sensazione era strana e mi ci abituai pian piano.”
“Quali erano i tuoi pensieri e le tue sensazioni in quel momento?”
“Il fatto più singolare è che, con l’olfatto, riconoscevo l’arrivo di chi stava venendo a farmi visita, infermieri e medici compresi. Riuscivo persino a prevedere, a distanza, il loro umore.”
“Questa tua sensibilità è poi scomparsa?”
“No! Anzi, superati quei giorni, riuscivo a collegarla ad altre sensazioni.”
“Cioè.”
”Gli sguardi. Capivo gli sguardi e, osservando le mani, captavo cosa esse trasmettevano con i loro movimenti. Ancora oggi è così.”
“Vuoi dire che conosci il pensiero di chi ti è vicino?” disse lui, incredulo.
“Qualcosa di simile. Il trauma cerebrale ha connesso aree del mio cervello che, fino a quel momento, erano rimaste indipendenti.
Il raziocinio da una parte e la percezione dall’altra, ora non sono più divisi.
Questa almeno è la spiegazione che mi ha dato il neurochirurgo.”
Lo psicanalista sembrava scettico, e mi disse: “Ho avuto in terapia casi simili al tuo, e concordo, in parte, con il parere del professore che ti ha operato.”
Continuò:
“Ti ricordi di qualcosa di particolare, avvenuto in quel periodo?” .
Sì, avevo qualcosa da raccontare:
“Un giorno, mi ritrovai ad osservare, dalla finestra della mia camera, il parco circostante l’ospedale.
Ai primi di maggio le magnolie erano in fiore.
Ne ammiravo ogni sfumatura e variazione di colore.
Il cielo era grigio, attraversato da nubi dense, e tutto si tingeva di una cupa luminosità verdastra, mentre il vento piegava i rami facendo vibrare le foglie.
La natura era in attesa.
Una folgore squarciò le nuvole.
Aria di sogno, paura, ma anche dolcezza.
Provai istintivamente un moto di tenerezza per me stesso, e per la mia esistenza, che ancora stentavo a riprendere.”
La settimana successiva, seduto nella stessa poltrona dello studio del mio terapista, mi spiegavo meglio:
“Erano passati pochi giorni dal mio risveglio, quando i medici decisero che era giunto il momento di farmi incontrare i miei familiari.
Sapevo di avere una moglie e due figli, ma non li ricordavo, ed ero agitato per questo.”
“Non ti avevano preparato in ospedale?” mi chiese lo psicanalista.
“Mi avevano tranquillizzato, dicendomi che era normale essere in ansia, ma ritrovare la famiglia e riprendere i contatti era importante, perché avrebbe accelerato il recupero della memoria. Mi raccomandarono di non sforzarmi. Il vissuto sarebbe ritornato spontaneamente.”
“Come avvenne l’incontro?”
“Apparentemente fu un incontro banale: una moglie che si avvicina al marito in ospedale. La realtà era che entrambi, Carla e io, eravamo tesi, in ansia.
Appena la vidi la riconobbi.
Le venne consigliato di mostrarsi calma e di usare modi pacati.
Così fece. Aveva paura di rompere qualcosa che sapeva essere fragile e in pericolo.
Le sorrisi, allungai una mano verso la sua, e notai che tratteneva a stento l’emozione: dunque mi amava, e anch’io sentivo di amarla.
Il problema era dentro di me. Lì covava un presentimento che non mi lasciava pace.”
Lei pronunciò il mio nome e disse:
“Tra poco tornerai a casa. Non temere.”
Era ciò che più volevo. Desideravo la mia casa e la donna che fino a poco prima non ricordavo, e che ora era la mia salvezza.
Avrei voluto che mi abbracciasse e anche lei lo voleva.
Me ne accorsi quando avvicinò la sua alla mia guancia.”
“Tornerò domani – mi disse – non devi preoccuparti più di nulla.”
“Fui felice. Era come ritrovare la vita, ma non ero tranquillo. Quel presentimento era incessante come il battito del mio cuore, e come un’ombra, inseparabile, non mi lasciava mai.”
“Come andò con i tuoi figli?”
“Dopo aver incontrato Carla, nella mia mente si ricomposero rapidamente i tasselli del puzzle, e quando li vidi ero pronto.
Sara non poté resistere e mi abbracciò subito come una bambina, e ne fui felice. Sandro, più freddo e quasi imbarazzato, mi disse qualcosa dell’azienda, che io non ricordavo. “Non preoccuparti. – affermò però sicuro – Penso io a tutto.”
Non capivo a che cosa lui dovesse pensare, ma mi piacque l’idea che mio figlio fosse in grado di provvedere da solo a qualcosa di importante.”
Arrivò il giorno in cui la terapia richiedeva altri dettagli.
“Adesso parliamo del periodo finale.” mi disse l’analista.
“Fu allora, che accadde.” risposi, guardandolo dritto negli occhi.
“Spiegati.”
“Oramai ero autonomo e trascorrevo la maggior parte del tempo nel soggiorno dell’ospedale. Leggevo e pensavo.
Era l’ultimo giorno di ricovero, e aspettavo mia moglie.
Dovevo andar via la mattina seguente.
Avevo superato una situazione critica, – riflettevo fra me – sarei potuto rimanere menomato, e invece tornavo a casa, guarito.
Ringraziai la sorte per avermi concesso un’altra possibilità.
I miei cinquant’anni, con Carla al mio fianco e i figli, sarebbero stati magnifici.
Solo una nota strideva, ma non la conoscevo. La intuivo, la sentivo, la portavo dentro, senza riuscire a scoprirla.
Era opprimente e non mi dava tregua.
Ma infine anche questa ultima tessera del mosaico andò a posto.
Fu una cosa improvvisa senza motivo apparente, e mi fu chiaro quale era il lato oscuro che mi perseguitava: si trattava della mia relazione con Diana.
Mi fu addosso, con tutta la forza e l’incertezza che sempre si era portata appresso, e ne fui schiacciato.
Forse io Diana non l’avevo mai amata, – pensai per sfuggire a me stesso – forse era solo un’infatuazione, forse mi ero fatto travolgere dalla sua giovinezza.
Doveva necessariamente essere così.
Avevo il cuore in allarme. Mi tormentavo. Pensieri diversi lottavano tra loro: aveva saputo? Cosa dovevo fare con lei? Chiarire? Dimenticare? Nascondermi? Cercarla? Quando, e come?
Fu ancora il destino a venirmi incontro.
Quella sera Diana venne a trovarmi.
Non ricordavo quanto fosse bella.
Mi mancò il fiato.
E nell’attimo in cui fu davanti a me, ogni proposito di mettere ordine nella mia vita svanì, e desiderai solo una cosa: andar via con lei.
Nient’altro mi importava.
Nulla di tutto quello che era successo mi aveva reso più saggio.
Una sensazione, dolce e dolorosa insieme, mi stringeva il petto, e
volevo dirle tutto quello che sentivo agitarsi dentro di me.
Fu lei a risolvere la situazione.
Poggiò una mano sulla mia spalla.
Sentii intensissimo il suo profumo.
Ero stordito.
“So che stai bene – mi disse – ne sono felice, ma sono qua per dirti addio…”
Mi guardò a lungo negli occhi, poggiò le labbra sulla mia guancia, ed uscì.
Dalla finestra la vidi camminare lungo un viale.
Con Diana l’illusione di una nuova giovinezza volò via.”