Premio Racconti nella Rete 2014 “A Penny for Your Happiness” di Andrea Laudani
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014Siete mai arrivati, ad un certo punto della vostra vita, a chiedervi quanto essa valga?
Io sì. Diverse volte. E credevo di conoscere la risposta, di averla sempre ritenuta ovvia. Ora, però, seduto sul ciglio di una scarpata a guardare l’orizzonte, gambe penzoloni nel vuoto, avevo i miei dubbi.
Quando avevo sei anni, la maestra mi appiccicò una stellina dorata sul tema, dicendomi: «Bravo A****, sei già diventato un eccellente scrittore», sorridendo e strofinandomi i capelli. Ricordo che avevo una manciata di buone caramelle gommose, nella tasca dei calzoncini. Ebbi il permesso di mangiarle tutte, una volta mostrata la stellina a casa.
Al liceo, quando baciai la ragazza più carina della scuola, nel cortile principale, di fronte a tutti, nel taschino del gilet c’erano più di cento dollari, guadagnati facendo i compiti ad un mucchio di babbei della mia squadra di football.
Io ero il quarterback. Quando vincemmo il campionato della contea, ne avevo quasi il doppio nel portafogli chiuso a chiave nell’armadietto dello spogliatoio, assieme ad un assegno da cinquecentosettanta, primo anticipo del mio nuovo lavoro da articolista del giornale locale. Avevo sedici anni.
Mentre strinsi la mano al rettore dell’università, il giorno della mia laurea, dopo aver esposto le duecentoventuno pagine della mia tesi, il mio conto in banca registrava esattamente trentatremila dollari. Più i quasi trecento che avevo in tasca.
Al mio terzo romanzo, raggiunsi finalmente il milione di dollari. Ci fu una festa sontuosa, un sacco di gente, tutti brindavano e mi davano pacche sulla schiena. Nel taschino della mia giacca firmata non c’erano soldi, ma una penna d’argento con cui non avevo scritto altro che il mio autografo su copie e copie del mio ultimo libro. Quando, a fine serata, l’inchiostro terminò, la abbandonai dentro una coppa vuota di champagne.
Mi sentii povero per la prima volta nella mia vita a trentadue anni, quando incrociai il suo sguardo e le strinsi la mano. Mi fu presentata assieme al suo futuro marito, un vecchio riccone di trent’anni più grande di lei. Aveva un vestito rosso di seta, senza spalle, gambe scoperte. Riccioli biondi, profondi occhi azzurri, rossetto della stessa tonalità del vestito. Il mio editore la presentò come Elizabeth Wayne, fidanzata di Carl Roberts, un imprenditore che moriva dalla voglia di conoscermi.
Non seguii una parola di quel che Mr Roberts ebbe da dirmi: nonostante evitassi di fissarla, per non sembrare inopportuno, la mia attenzione era solo per lei, anche quando annuivo al mio editore e a Mr Roberts su non so quale argomento. Ne sentivo il profumo, ne percepivo il calore corporeo, il respiro, lo sguardo. Ogni tanto, gettavo un occhio rapido al suo viso. Mi guardava, senza pudore. Non aveva paura di sembrare inopportuna. Non lo era, non per me. Il suo profumo si faceva più intenso. Quando il mio editore fece una battuta, lei rise di gusto, si coprì la bocca col palmo della mano, e incrociò il mio sguardo di nuovo. Il tempo rallentò. Mi sentii povero. Nel portafogli in tasca avevo mille dollari in contanti.
La rividi cinque settimane dopo, quasi per caso. Quasi. Era tra il pubblico di studenti e accademici ad una mia conferenza di letteratura. Suo marito non c’era. Attese al suo posto finché tutti, anche i miei amici che si congratularono e mi salutarono per ultimi, non se ne furono andati. Rimasi solo con lei nell’aula magna dell’università dove dieci anni prima mi ero laureato. Nell’aria silenziosa, fluttuava lo spettro del suo profumo. I nostri sguardi si incontrarono. Nessuno dei due disse nulla. Ci baciammo e basta. Quella sera stessa, nel letto accanto a lei, divenni l’uomo più ricco del mondo.
Le settimane successive furono felici e concitate come non mai. Il mio editore chiamò diverse volte per dirmi che il magnate Carl Roberts aveva chiuso i rubinetti con cui ci pubblicizzava e minacciava di farmi causa. Ed, il mio editore, parlava seriamente, ma sentivo dal tono che era fiero di me, come un vecchio amico. Trovammo più volte la stampa sotto casa, un esercito di giornalisti, a chiederci chiarimenti e dettagli scabrosi su quel che era successo. Due energumeni neri e pelati, in giacca e cravatta e auricolare, si presentarono al cancello della mia villa e attesero come cani da caccia che uscissi. Se la filarono prima che Elizabeth potesse convincermi a chiamare la polizia. Trovammo comunque un biglietto, attaccato al citofono, scritto dal pugno infuriato di Mr Roberts. Vi era scritta solo una parola, per Elizabeth, la quale dovette dissuadermi, questa volta, ad andare io stesso a trovare Mr Roberts con la mia mazza da golf.
Ci sposammo con una cerimonia privata in una chiesetta di legno bianco in piena campagna, solo parenti e amici stretti. Ed si commosse al momento del “sì”, come un vecchio amico. I genitori di Elizabeth mi abbracciarono e mi baciarono, occhi lucidi. I miei fecero lo stesso con Elizabeth. Brindammo e tagliammo la torta. Partimmo quel pomeriggio per le Keys della Florida. La prima notte di nozze fu la più calda della mia vita. Nel portafogli che avevo dimenticato sul banco della reception dell’hotel, c’erano quattro carte di credito e sette banconote con la faccia del presidente McKinley stampata sopra.
Tre anni dopo, mentre io ero nello studio di Ed a discutere animatamente sulla sua bancarotta e il mio declino come scrittore, Elizabeth prese la pistola che tenevo nella cassaforte e si sparò in bocca.
Quanto vale la vita di un uomo che ha perso ogni cosa, seduto sul ciglio di un precipizio sul fianco di una montagna?
Infilai la mano libera, quella che non stava reggendo la bottiglia mezza vuota di rum, nella tasca della camicia. Tirai fuori un penny. Sorrisi. Era sporco e graffiato. Lo poggiai sul pollice e lo catapultai giù per la scarpata. Non lo sentii nemmeno tintinnare.
«Un penny per la tua felicità».
Mi voltai in direzione della voce. Dovetti strizzare le palpebre più volte per mettere a fuoco la vista offuscata dall’alcol e dalle lacrime.
C’era una ragazza, dietro di me, sul sentiero. Poteva avere sì e no sedici anni, capelli rossi e lisci, pelle chiara, lentiggini. Indossava la divisa verde e oro di un qualche gruppo scout, con un giacchetto senza maniche sopra la maglietta e una gonna verde erba chiaramente accorciata di proposito. Era scalza, ma teneva i piedi dritti e uniti come le avevano insegnato. Reggeva una corda legata ad un carretto coperto da un telo nero. Una delle cose più bizzarre che avessi mai visto. Sicuramente, la più strana della giornata.
«Si dice: “un penny per i tuoi pensieri”», biascicai. Non ero ancora del tutto sicuro che quella ragazza fosse lì davvero. Non l’avevo nemmeno sentita arrivare.
«Non mi interessano i tuoi pensieri, tanto quelli di voi uomini sono sempre gli stessi. È semplicemente così che si usa quassù», disse indicando il burrone di fronte a me. «Si butta un centesimo giù dalla montagna e si ottiene un po’ di felicità».
«È quello che ti raccontano i tuoi amici scout?», risposi, prendendo un altro goccio dalla bottiglia. La ragazza non badò al mio sarcasmo.
«Devi aspettare un po’ prima che faccia effetto. E quella non aiuta, credimi». Indicò la bottiglia. Quando risi tossendo, spostò i suoi piedi scalzi e si allontanò, trascinando il suo carretto cigolante.
Il sentiero saliva ancora verso la cima. Era una lunga camminata in salita, era già una specie di miracolo che fosse arrivata fin lì da sola e scalza. Mi convinsi che avevo appena assistito alla mia prima esperienza allucinatoria e tornai a guardare il panorama.
Appena sotto di me, c’era la macchia verde del bosco. Gli alberi erano lontani, ma non abbastanza da poter essere sicuro di non farmi fermare dai rami. Da quassù, c’era una qualche possibilità di restare ferito, ma vivo, impigliato fra i rami come un sacchetto della spazzatura. Sarei dovuto salire più in alto per poter essere certo di sfracellarmi a terra e morire sul colpo.
Mi allontanai con cautela dall’orlo del crepaccio e mi tirai in piedi. Un po’ di rum schizzò dalla bottiglia, ma tanto ce n’era ancora un bel po’, giusto il tempo della strada. Raggiunsi il sentiero e lo seguii. Le ruote del carretto avevano lasciato dei solchi nella ghiaia.
«Allucinazione, dannazione!», sibilai, e cancellai i solchi col piede.
La salita lungo il sentiero di ghiaia fu lenta e silenziosa. Accanto a me, il costone di roccia era ricoperto di reti protettive per evitare frane. Qua e là, qualche ciuffo d’erba e un po’ di muschio. Dall’altro lato, il crepaccio si avvicinava man mano, rendendo il sentiero stretto appena per due o tre persone. Sulla ghiaia, i solchi del carretto mi accompagnavano dritti e precisi. Il primo quarto d’ora di marcia lo avevo passato a pestarli mentre camminavo, gettando ghiaia fuori dal percorso, poi mi ero arreso, avevo preso un lungo sorso dalla bottiglia e li avevo semplicemente seguiti.
Dopo circa un’ora, il sole giunse all’orizzonte, illuminando il fianco della montagna di luce rossa. Il bordo del crepaccio sembrò coperto di sangue. L’alcol che avevo in testa intensificava i colori. Pensai ai capelli della ragazza. Non ero ancora abbastanza in alto, a giudicare dal fatto che distinguevo, anche se a fatica, un albero dall’altro: dovevo ancora arrivare in cima. Le montagne, in quella zona, non erano altissime. Molta gente le scalava a piedi per campeggiare sulle cime, arrostendo hot-dog e guardando le stelle. Era anche frequentato dagli scout, probabilmente. Molte volte, anche se nessuno ne parlava, certa gente ci andava per gettarsi di sotto. Non a tutti bastava un penny per essere felici.
Sperai che il sole calasse in fretta e arrivasse la notte. Buttarsi da un burrone di notte e ubriachi era molto più semplice. Ci misi un po’ a capire che qualcosa non andava. Fu il calore del sole sulla guancia, che dopo un po’ divenne fastidioso, a farmi rendere conto d’un tratto che era passato diverso tempo, forse addirittura un’altra ora, senza che il sole sparisse. Mi fermai, barcollando e allargando le braccia per restare in equilibrio. Fissai l’orizzonte cercando di capire se il disco rosso si stesse muovendo come doveva. Niente. Era come incollato al cielo, tagliato a metà dalla linea della terra. Niente nuvole. Persino l’aria era immobile, lassù, a poche decine di metri dalla cima.
Supponevo fossero poche decine di metri. In realtà non ne avevo idea. Le rocce salivano per un bel po’, anche oltre le reti, e non si vedeva la fine da dove ero io. Tornai a guardare il sole ed era ancora lì, come congelato.
Il sentiero si era fatto ancora più stretto. Il crepaccio era a poco più di un metro da me. Se avessi perso l’equilibrio, sarei precipitato di sotto. Guardai giù, tenendo le braccia spalancate, e gli alberi sembravano essere ancora alla stessa altezza di quando li avevo controllati l’ultima volta. Sollevai la bottiglia di rum, ormai quasi a filo col fondo, la guardai con disgusto e rabbia e la gettai via. Non la sentii frantumarsi. I solchi lasciati dal carretto della strana ragazza erano sempre lì, a guidare la via. Ripresi a camminare, facendo attenzione a non calpestarli.
Passò altro tempo e la stanchezza si fece sentire, sia fisica che mentale. Avevo perso il senso del tempo e non avevo idea di che ore fossero né quanto tempo fosse passato da quando ero partito. Il sole continuava a galleggiare all’orizzonte e a macchiare di rosso me e la montagna. Stavo quasi formulando l’idea di gettarmi finalmente di sotto, lì a quell’altezza, quando i solchi del carretto deviarono improvvisamente e si interruppero sull’orlo del crepaccio. Mi bloccai ad osservarli a bocca aperta, i pensieri che faticavano a formulare cose sensate.
Si era gettata di sotto. La ragazza di prima si era gettata di sotto, col carretto e tutto quanto.
Il sentiero proseguiva ancora, sembrava infinito. Anche le reti, mi accorsi guardandomi attorno, si erano interrotte da tempo. Mi sporsi un poco per vedere di sotto, senza calpestare i solchi. Fu come se gli alberi, laggiù, fossero in fiamme, e non saprei giurare nemmeno ora che non lo fossero davvero. Rimasi come incantato da quello spettacolo allucinante. Mi sporsi ancora, strizzando gli occhi, cercando di distinguere la realtà dall’immaginazione. Non ci riuscii. Mi venne la nausea. Sentii un odore familiare. Due mani si poggiarono sulla mia schiena sudata e mi spinsero. Non urlai nemmeno. Il fiato mi si bloccò in gola e precipitai nella luce rossa, il profumo di Elizabeth ancora nelle narici.
La caduta durò pochi istanti, per la verità. Picchiai il busto su un pavimento di erba fresca e foglie. Urlai quando già ero a terra. Mi sentii ridicolo.
Attorno a me si apriva una radura circondata dagli alberi. La luce era cambiata drasticamente, il rosso fuoco era scomparso lasciando il posto a colori più freschi. Era scesa la sera. Il cielo era di un blu intenso, quasi viola, e una pallida luna d’argento cominciava a salire. Era piena. Qualche stella era già comparsa qua e la. Si vedeva ancora piuttosto bene, ma presto sarebbe scesa la notte.
Un ruscello silenzioso tagliava la radura. Sbucava da qualche parte tra le rocce e scompariva tra gli alberi, giù per la montagna. Oltre al prato e qualche fiore, alcune rocce, probabilmente franate dalla cima, erano sparpagliate in ogni direzione, alcune grandi come palle da basket, altre grosse quanto automobili. Oltre la cinta di alberi che circondavano la zona non si vedeva nulla se non un buio fitto. Era un piccolo mondo nascosto che non avevo notato prima, quasi sicuramente perché non esisteva affatto e io stavo evidentemente sognando. Oppure, ero morto.
«No, non sei morto».
Sobbalzai. Riconobbi la voce e mi voltai nella sua direzione. La ragazza dai capelli rossi era seduta su un grosso sasso sulla riva del fiumiciattolo, con i piedi immersi nell’acqua gelida. Stava leggendo un libro e, seppur ci fosse ancora luce, era comunque troppo scuro perché si potesse leggere alcunché, anche con una luna così. Il carretto era parcheggiato poco indietro.
«Come diavolo…?», quasi le gridai. Ero sorpreso e anche un po’ spaventato. Non l’avevo proprio notata e ora me la ritrovavo davanti con i piedi a mollo a leggere un libro. E i miei pensieri.
«Sssssh», fece, scuotendo la mano nella mia direzione, senza alzare lo sguardo. «Non mi distrarre», continuò. «Sono al punto in cui il protagonista sta cercando di capire dove si trova. Crede di essere morto».
«Molto interessante, ma…».
«Sssh», fece di nuovo, questa volta voltandosi a guardarmi severamente. Aveva gli occhi verdi, notai, e brillavano come smeraldi alla luce della luna. Non insistetti. Attesi per un po’ sperando che si decidesse a chiarirmi le idee, ma dopo diverse pagine e commenti sottovoce, capii che per il momento non ne avrei ricavato nulla. Decisi di fare un giro per capire dove fossi finito e, soprattutto, se quello fosse davvero il mio aldilà o semplicemente un sogno molto strano.
Sul prato umido, notai i solchi del carretto. Partivano esattamente dal punto in cui ero caduto. Non li avevo visti. Presi a seguire il corso d’acqua e arrivai al limitare degli alberi. Nonostante il bosco fosse fitto e nero, ebbi la sensazione che ad un certo punto, qualche decina di metri più avanti, gli alberi scomparissero, come inghiottiti dal buio. Con tutta probabilità, scendevano seguendo il fianco ripido della montagna, e il ruscello con essi. Anche i sogni hanno una loro logica, dopotutto. Infilai solo la punta della scarpa nell’ombra della foresta, che la voce della ragazza mi giunse da pochi passi dietro di me.
«Io starei lontana da lì».
Era in piedi, sempre scalza, con la corda del carretto stretto nella mano. Mi guardava con apprensione, come se stesse cercando di convincere un bambino molto stupido a non infilare la mano nella gabbia del leone. Era inquietante come uno spettro, con la sua pelle chiara e quegli occhi brillanti.
«Perché, cosa c’è lì?», le chiesi voltandomi ma senza spostare il piede. Con l’ombra che lo oscurava, sembrava mi mancassero le dita. Un brivido mi gelò la nuca.
«Niente in particolare», rispose la ragazza. «Ma è lì che vanno tutti quelli che scappano da me». Non batteva ciglio, manteneva lo stesso tono di voce. Mi venne in mente che forse nel carretto conservava un’ascia, in mezzo ai pezzi delle sue povere vittime. Deglutii.
«Ah sì? Magari fanno bene», dissi togliendo il piede dall’ombra.
«Non fa mai bene a nessuno scappare da me», disse. Fece un passo avanti. Poi il suo viso si illuminò in un sorriso radioso e anche il suo tono cambiò. «Allora, vuoi comprare qualcosa al mio negozio di souvenir o no?».
«Il tuo cosa?».
«Il mio negozio di souvenir, laggiù», e indicò una baracca di legno con un ampio finestrone e un banco d’appoggio, oltre il corso d’acqua. Prima non c’era, ma non mi feci troppe domande.
La seguii camminando nel prato umido, aggirando i massi e superando il ruscello. Mente ci avvicinavamo, scoprii nuovi dettagli su quella specie di negozietto: era fatto di assi di legno chiaro e aveva un tetto a spiovente come quello delle baite, ma proporzionato. Sotto il tetto vi era una larga apertura che aveva per base un pesante asse, anch’essa di legno, che faceva da bancone. A lato della struttura, vi era una porticina che permetteva l’accesso. La ragazza mi fece cenno di fermarmi e aspettare mentre lei si diresse verso l’ingresso ed entrò. La sentii armeggiare con vari oggetti e imprecare. Si accese una luce, poi un’altra e un’altra ancora, e il baracchino si illuminò tutto. Sul bancone, notai una serie di oggetti, perlopiù giocattoli, ordinati con cura per la clientela. Anche fuori sul prato, a ridosso delle pareti, erano poggiati alcuni oggetti più grandi. C’era anche una chitarra.
«Allora, ti piace?». La ragazza sbucò da sotto il bancone e vi si poggiò sopra. Le si intravedeva il seno dalla scollatura della maglietta. Spostai lo sguardo sugli oggetti in esposizione.
«Molto carino», dissi. Avevo la gola secca.
«Davvero? Trovi un negozio di cianfrusaglie in mezzo ad una radura sulla cima di una montagna e tutto quello che sai dire è: “molto carino”?». Piegò la testa di lato con fare saccente. Sorrideva. Non sapevo ancora se trovarla irritante o interessante. Decisi che era meglio rimandare la risposta.
«Hai molta clientela, quassù?». Domanda impertinente, sarcastica. Sollevò il busto.
«Più di quanto immagineresti», rispose. Mi lanciò un’occhiata e sparì nel retrobottega.
Solo nella notte, non mi rimase che osservare più da vicino gli oggetti.
Passai in rassegna un clown di pezza, un piccolo plotone di soldatini di metallo, una scacchiera a tema fantasy e una tazza con le sembianze di un elefante. Poi, un po’ annoiato, optai per gli oggetti a terra. La notai subito, la chitarra. Inconfondibilmente nera e gialla come un’ape, scheggiata sul bordo, una corda rossa e un cuore disegnato a pennarello. La mia chitarra. Di quando avevo sedici anni. Avevo imparato a suonarla, più o meno bene, in meno di sei mesi. L’avevo fatto per una ragazza che mi piaceva, Meredith Rogen, la ragazza più popolare della scuola e di cui tutti erano cotti. Fu con quella chitarra sgangherata che riuscii a conquistarla. Ci baciammo nel cortile della scuola dopo che le ebbi cantato una canzone sdolcinata. Patetico. Ci lasciammo dopo nemmeno un mese.
Tutti questi ricordi mi inondarono la testa appena sfiorai il legno della chitarra. Potevo sentire l’odore dei suoi capelli, il sapore delle sue labbra, la sua pelle fresca sotto la maglietta, il legno della chitarra nell’altra mano, l’applauso eccitato dei compagni di scuola. Presi la chitarra e la poggiai con forza sul bancone.
«Come fai ad averla?», gridai. La ragazza non rispose. «Sto parlando con te, dove hai preso questa chitarra?».
«Me l’hai data tu», disse dalle mie spalle. Sobbalzai, ma la rabbia accantonò per il momento l’incredulità.
«Come…? Questa chitarra è rimasta nella soffitta dei miei genitori per anni e l’ho portata con me quando sono andato a vivere da solo la prima volta. L’ho dimenticata in quell’appartamento anni fa», replicai minaccioso. La mia voce echeggiava tra le rocce.
«Quanta foga», disse lei. «Se ci tenevi tanto, come hai fatto a scordartela?».
«Mi sono trasferito in fretta, avevo appena accettato un contratto ed ero preso dal lavoro, così… l’ho semplicemente dimenticata». Non avevo risposto subito, un’esitazione di un paio di secondi buoni, il tempo di raccogliere i ricordi. E le scuse. Abbassai lo sguardo. La ragazza era sempre scalza. Il carretto coperto dal telo nero era accanto a lei, la corda arrotolata a terra con noncuranza. Quando mi voltai per indicare la chitarra, il baracchino era scomparso. Non mi fece effetto. Non quanto mi sarei aspettato, almeno. Il sogno durava da un pezzo, d’altronde, tra poco sarebbe finito. Perché stare a preoccuparsi di certi dettagli?
«Non è così semplice dimenticarsi di cose a cui teniamo. Basta solo tenerci davvero, non credi?», disse sorridendomi. Un sorriso dolce. Mi compativa.
«Chi sei, veramente? Perché mi fai questo?».
«È così che vedi questo posto? Come una punizione?».
«Non so nemmeno dove mi trovo».
«E così ti senti talmente in colpa con te stesso da finire in un luogo strano e sconosciuto e pensare subito che sia l’Inferno. Capisco», disse chinandosi a raccogliere la corda del carretto. «Pensi che io sia il Diavolo?». Si voltò e si incamminò di nuovo verso il ruscello, dopo avermi gettato uno sguardo malizioso e provocatorio. Il bordo della gonna le danzava attorno alle gambe chiare.
«Sì». No, non lo pensavo, anche se per un brevissimo istante mi era balenato in testa. Forse quello sguardo.
Lei non disse nulla. Parcheggiò il carretto sulla riva del corso d’acqua e si sedette sul bordo immergendo i piedi. Inarcò la schiena, con gli occhi chiusi e il volto bagnato dai raggi lunari. Il cielo era ormai nero, punteggiato da stelle grandi e luminose. Un cielo che non avevo mai visto prima d’ora e che mi sembrava irreale quanto tutto il resto.
«Sono morto?», le chiesi finalmente.
«Non saprei. Lo sei?». La sentii appena. Sussurrava, godendosi l’aria gelida della notte.
«Credo di sì», dissi. «Sono scivolato dal sentiero e sono caduto giù dalla montagna. Potrei essermi rotto l’osso del collo ed essere morto sul colpo, ma magari sono in coma o qualcosa del genere e tutto questo non è nient’altro che un sogno».
«O un incubo», suggerì lei.
«O un incubo».
Guardai in alto, verso la cima coperta di tenebra della montagna. Mi sarebbe piaciuto arrivare in cima, proprio sulla roccia più alta, e guardare il mondo da lassù. Per provare la sensazione di essere in alto, più di chiunque altro, per poi lanciarmi di sotto e precipitare nel buio.
«Credevo che l’avrei incontrata, una volta morto. In fondo, è per questo che lo stavo facendo. Per rivederla».
«Tua moglie non è qui, A****», disse la ragazza. Aveva riaperto gli occhi, ma guardava le stelle.
«Lo immaginavo. Lei è in Para…».
«Oddio, ma lo credi davvero, allora?». Scoppiò a ridere e spruzzò un po’ d’acqua sbattendo i piedi. «Pensi davvero che io sia…».
«No, e nemmeno mi interessa. Ma so che lei è in un posto migliore. Sono sicuro che, dovunque sia, è felice e sta bene».
«Cosa te ne fa essere certo?».
«Perché è lontana da me».
Lei sospirò trasognata, e tornò a cullarsi nella notte, dondolando la testa di qua e di là, ad occhi chiusi. I piedi danzavano nell’acqua di montagna creando cerchi concentrici che quasi ipnotizzavano. Lei era ipnotizzante, la sua figura, il suo corpo sinuoso, i suoi capelli rossi come il sangue.
Ad un certo punto, prese a intonare un motivo lento e malinconico a bocca serrata. Capii che il nostro dialogo, per il momento, era finito. Guardai di nuovo verso il punto dove poco prima era posizionato il suo baracchino di cianfrusaglie, ma non sperai affatto che ricomparisse, anzi. Il terreno non era nemmeno deformato, l’erba nemmeno piegata per il peso di una struttura, come se non ci fosse mai stato niente poggiato lì. Però, qualcosa brillava, nel prato. Un puntino nel terreno nero che trasmetteva quel poco di luce della notte. Mi avvicinai.
In mezzo ai ciuffi di erba umida e fredda, c’era una penna d’argento. Lucida, incisa capillarmente, con il tasto premuto e la punta estratta, brillava sotto i raggi della luna piena, tanto che riuscivo a distinguerne i particolari. Era la mia penna, ovviamente. Almeno finché non si era esaurito l’inchiostro. L’avevo usata principalmente per firmare: documenti, assegni, lettere, autografi. Tanti autografi. La penna era ovviamente ricaricabile. Cinque dollari, tre flaconcini di inchiostro. Evidentemente non valeva tanto. Non ricordavo nemmeno chi me l’avesse regalata. Perché era stata un regalo, di sicuro. Non avrei mai comprato una penna d’argento. O forse sì, ripensandoci. Giusto per firmare autografi. Giusto perché potevo farlo. Ero ricco, allora.
Raccolsi la penna.
Mi aspettai di sentire il ricordo del sapore dello champagne di quella sera, di udire le voci di tutta quella gente, di riprovare l’eccitazione di essere al centro del mondo, di essere qualcuno. Mi ero aspettato perfino di rivedere i flash dei fotografi, i sorrisi delle belle ragazze, le facce degli invidiosi. Sentii, invece, solo il profumo da uomo, secco e deciso, di Ed.
Era il ricordo di quando lo sentii per la prima volta. Quando ci stringemmo la mano e ci presentammo. Allora, lui era ancora Edward Drake, ma sarebbe diventato solo Ed dopo pochi giorni. Fu questo il mio primo pensiero, di lui: che aveva abbondato col profumo. Una cosa che fanno solo le persone insicure. I perdenti. Non era l’uomo che cercavo. Non era la persona che poteva rappresentarmi. Così glielo dissi.
Lui mi guardò per un istante, sorridendo ma esitando, lievemente scosso dalla mia sincerità.
“Be’, dottor L******”, disse, allungando di nuovo la mano per stringere la mia. “Allora le nostre strade non sono destinate a incrociarsi. Felice, comunque, di averci provato. E lei?”.
No. Perdita di tempo.
“Sì, certo, Mr Drake. È stato un piacere conoscerla”. Gli strinsi la mano e me ne andai.
Non ricordo bene come mai decisi di tornare. Ricordai, all’improvviso, stringendo la fredda stilo d’argento tra le dita, solo una lettera scritta a mano, senza busta e firmata semplicementeE.D., poggiata sul bancone della reception dell’Università dove ero ancora ricercatore.
“L’ha lasciata qui un uomo per te. Dice che la penna puoi tenerla. Un tipo strano, a dire il vero. Troppo profumo”, mi spiegò la segretaria.
La penna d’argento era infilata col suo fermaglio nella carta. Sulla lettera, Ed mi informava che aveva già provveduto a spedire le copie del romanzo e dei saggi che gli avevo consegnato ad altri grossi editori suoi amici, assieme ad una lettera di raccomandazione ciascuno. Mi rassicurava sul fatto che sicuramente avrebbero gareggiato per poter ottenere di pubblicarmi. La lista di nomi era davvero succosa, i maggiori editori degli Stati Uniti avevano, adesso, le copie dei miei scritti pronti per essere valutati. In fondo, conoscere Mr Drake non era poi stata del tutto una perdita di tempo. Ero sicuro che presto avrei ricevuto decine di telefonate.
Tornai da Ed e accettai di farmi pubblicare da lui. Non gli dissi mai che nessuno dei suoi amici pezzi grossi mi aveva preso in considerazione. Per quel che ne sapeva lui, ero tornato perché il suo onore mi aveva fatto cambiare idea.
Nel giro di un anno, quelle telefonate arrivarono sul serio, ma troppo tardi, quando ormai il mio insperato successo era garantito. Grazie a quell’uomo minuto e stempiato, con il vizio di bagnarsi di profumo perché talmente insicuro di sé da raccomandare il più brillante scrittore degli ultimi vent’anni ai suoi amici, avevo raggiunto il mio scopo, ero diventato qualcuno, ero ricco, famoso e promettente, con una base solida e un posto assicurato nell’alta società. Ma queste sono cose che, ad Ed, non avevo mai detto.
Uscii da quel vortice di ricordi e mi ritrovai seduto nell’erba con le lacrime agli occhi, a stringere forte una penna del colore della luna. La ragazza era scomparsa, ma il carretto era fermo al suo posto.
Tenevo l’angolo del telo nero stretto fra indice e pollice da diversi secondi. Mi ero fiondato verso il carretto della ragazza con il deciso intento di scoprire cosa si trascinasse dietro tutto il tempo. Al momento di scoprirlo, però, mi ero bloccato. Non ero così sicuro di voler sapere cosa ci fosse nascosto sotto un telo nero. Forse avevo paura di scoprire chi fosse davvero quella ragazza. Ma la curiosità e il tedio (due delle caratteristiche principali del Limbo, avevo pensato tra me) contrappesavano la paura dell’ignoto, mantenendomi in un equilibrio congelante.
Intuii che la voce della ragazza mi avrebbe liberato da quella stasi pochi istanti prima di udirla.
«La curiosità uccide il coniglio, non lo sai?».
«No. Io sapevo del gatto». Lasciai andare il telo e mi voltai verso la ragazza. Si era cambiata d’abito: ora indossava dei semplici jeans e una maglietta.
«Ma tu non avevi un gatto, giusto? Il tuo era un coniglio. Quello che è morto».
Era vero. Quando avevo dieci anni, una grassa signora di una fiera di campagna mi aveva messo in mano una palla di pelo color carbone. Ovviamente non me ne separai per nessuna ragione e i miei furono costretti a comprarmela. Ma, come tutte le cose della mia vita, durò poco. Un pomeriggio, il coniglietto si avventurò in cantina e volle sapere a tutti i costi cosa contenesse quella scatola nera nell’angolo. Lo scoprii anch’io. Me lo spiegarono i miei, ma ci misi un po’ a capire che il veleno per topi non uccide solo i topi.
«Mi ero dimenticato del coniglio», dissi con lo sguardo perso, immerso negli improvvisi ricordi ritrovati. «Non ricordo nemmeno come si chiamava».
«Che nome avresti dato ad un coniglio?», domandò la ragazza raccogliendo la corda del suo carretto. Prima di farlo, sistemò per bene il telo nero.
«Non saprei. Herbert?».
Mi lanciò una smorfia e andò via col carretto, lungo il torrente. Le piccole ruote di plastica traballavano nell’erba e nel terreno smosso, facendo ondeggiare il telo. Non distinguevo quasi più i particolari degli oggetti, si era fatta notte fonda. Il cielo era nero e intenso, le stelle gelide e la luna, mi accorsi, era sparita.
«Eclisse», disse la ragazza senza voltarsi.
«Come?».
«Il coniglio», spiegò, girando un poco di lato il viso, per farsi sentire meglio. «Il tuo coniglio si chiamava Eclisse».
Non lo ricordavo affatto.
«Cosa c’è nel carretto?», le chiesi all’improvviso.
Lei si fermò e senza voltarsi mi invitò a dare un’occhiata.
«Prego», disse. «È tutto tuo», ma lo disse con voce piatta, senza emozione. Voleva sfidarmi.
Mi avvicinai, questa volta sicuro. Mi chinai, allungai una mano per afferrare il telo nero e scoprire il contenuto del carretto. Un lampo di luce ravvivò di elettricità la radura. Non lo toccai neanche, il telo. Un tuono fragoroso fece vibrare le rocce e la pioggia prese a cadere. Tornai dritto con la schiena che già ero quasi fradicio. La ragazza smontò la sua impassibilità e scoppiò in una risata, ovattata dallo scrosciare della pioggia.
«Vieni, ti ospito nel mio rifugio, per questa notte», disse incamminandosi di nuovo.
La seguii. Mi aspettai comparisse dal nulla un nuovo edificio, invece mi ritrovai di fronte il negozio di souvenir, illuminato a tratti dai lampi, questa volta in una posizione diversa, al limitare del bosco, accanto al rivolo d’acqua che spariva tra gli alberi oscuri.
«Tu vivi qui?», le chiesi, mentre entravamo dalla porticina, ormai grondanti.
«Ho detto che è il mio rifugio, non casa mia», rispose lei facendomi strada nello stretto corridoio. L’ambiente, seppur molto poco spazioso, era comunque più capiente di quanto mi sarei immaginato, quasi grande come un monolocale, con un corridoio dalle pareti dense di mensole che conduceva da un lato al banco vendita e, dall’altro, verso il retrobottega ricolmo di scatoloni e scaffali.
«Vieni. Qui ci sono delle coperte». Tirò giù dallo scaffale due pesanti pile e me ne lanciò uno. Mentre mi toglievo la camicia per avvolgermi con la coperta, la vidi spogliarsi. Sotto la maglietta non portava nulla e aveva un paio di mutandine bianche con il disegno di una coda di gatto. Avrei scommesso che sul davanti c’era stampata la faccia del gatto, ma restò di spalle finché non si avvolse anche lei col suo pile, poi si sistemò accanto a me.
Eravamo nel suo magazzino, poggiati sugli scatoloni come due profughi. La baracca era buia ma calda. Entrando, la ragazza aveva acceso un po’ di lumi ad olio, uno dei quali aveva poggiato a terra di fronte a noi. Sul bancone era abbassata una piccola tapparella di legno e corda, di modo che non entrassero il vento e la pioggia. Non c’erano altre finestre. L’unica cosa che mi facesse essere sicuro che il baracchino non scomparisse di nuovo con me dentro era solo il rumore insistente della pioggia.
Restammo in silenzio per lungo tempo, nel quale ne approfittai per curiosare con lo sguardo tra gli oggetti accumulati. Infilando una mano nello scatolone che avevo a fianco, estrassi un portachiavi di ottone a forma di chiave di violino.
«Allora?», ruppe il silenzio la ragazza. «Hai capito finalmente dove ci troviamo?».
Rimisi a posto il portachiavi e la guardai. Si era legata i capelli con uno spago e aveva in mano un libro dalla copertina grigia senza titolo. Con quella luce bassa e debole, le pagine mi sembrarono bianche.
«Devo ammetterlo: la tesi dell’Inferno sta perdendo punti e forse, e dico forse, tu non sei un demone».
«Buono a sapersi. E quale delle altre tesi sta salendo in considerazione?».
«Ho scartato l’idea del Paradiso: avrei incontrato Lizzy. Il Limbo mi sembrava una soluzione, ma, in tal caso, non riuscirei a collocare te. Non sembri una dannata, come dovrei essere io, sembri più una custode, e il Limbo non ha bisogno di custodi».
«Ottima deduzione». Sorrise. Sembrava di cinque o sei anni più grande con i capelli raccolti e la coperta di pile addosso.
«Per dirla tutta, il vero mistero sei tu. Questo posto, questa radura, potrebbe anche essere un sogno, un’allucinazione, o un ambiente psicologico creato dalla mia mente comatosa. Ma tu… sei del tutto fuori da qualsiasi schema rappresentativo, sei incollocabile: non sei il diavolo, non sei Dio, non sei una visione, non mi ricordi nessuno che abbia conosciuto in passato e non sei chiaramente nemmeno una versione di me in un qualche mondo parallelo. La vera incognita sei tu, non questo posto».
«Mmm… Alieni? Non hai pensato che possa essere un aliena?», domandò con un ghigno sardonico.
«Già, e mi avresti rapito per scoprire cosa?», sbuffai, tornando a rovistare nello scatolone.
«Non so, magari come funziona la vita sul vostro pianeta».
«Non c’è molto da scoprire, la vita non funziona e basta».
«Perché? Perché tua moglie si è sparata?». Lo disse col suo improvviso tono gelido. Mentre la ascoltai pronunciare quelle parole, nello scatolone le mie dita sfiorarono un oggetto metallico e liscio, freddo come la sua voce. Tirai fuori una pistola. La pistola. La mia Smith & Wesson Model 4506. Quella non l’avevo persa, ce l’aveva semplicemente in custodia la polizia. Una magia crudele, quella di farmela trovare lì. Piansi, reggendo con tremore quell’oggetto lucido tra le mani.
La ragazza non disse più nulla. Voleva studiare la mia reazione, con fredda oggettività. O, semplicemente, rispettava il dolore che aveva rievocato. Qualsiasi che fosse la verità, non importava. Ero stanco di lei, di quel posto irreale, e volevo andarmene.
«Non possiamo ancora uscire», mi anticipò lei, guardando le strette fessure della tapparella. La pioggia cadeva incessante. «Siamo bloccati qui per un po’, forse tutta la notte».
Non le risposi. Rimasi a fissare la pistola, a immaginare Elizabeth che la prendeva dalla cassaforte, caricava le pallottole e se la infilava in bocca.
Un tuono, più forte degli altri, mi fece sobbalzare. L’immagine del sangue sulle pareti mi danzò per la testa qualche secondo, poi svanì. Le immagini si dimenticano in fretta, è il dolore a non passare mai.
«Rimarrò qui per sempre, vero?», le chiesi, accarezzando delicatamente il grilletto.
«Sarebbe così orribile?», rispose, tornando allegra.
La guardai negli occhi. Con quella luce, il rumore del temporale e la coperta che la avvolgeva tutta, tranne che per quella striscia di pelle sotto le spalle, era stranamente piacevole stare lì con lei.
«Quanti anni hai, in realtà?».
«Per avere un’età dovrei esistere, non ti pare?».
«Ed è così?», dissi sorridendole, seppur con le lacrime che mi solcavano le guance. «Esisti?».
«Una ragazzina disinibita, sexy da morire, in un piccolo rifugio buio in una radura isolata dal mondo, che provoca e si spoglia di fronte al primo che incontra. Ovviamente non esisto». Si avvicinò a me, lentamente. Mi guardava dritto negli occhi. La coperta le scese giù, lungo il busto, fermandosi all’altezza del seno. Il mio sguardo rimase incollato ai suoi occhi verdi spettrali. «Ma tu, A****? Tu esisti?».
Un altro tuono. Il pavimento della baracca vibrò leggermente.
«Non lo so più, a questo punto», deglutii. La luce delle lampade si stava affievolendo, nel corridoio. Anche quella a terra accanto a noi stava cominciando a morire. Nell’oscurità incombente, quegli occhi facevano un po’ paura.
«Scopriamolo», disse. La sua voce vibrava, carica di una sensazione che non riuscivo a distinguere. Il corridoio divenne buio, la luce vicino a noi si affievolì tanto che riuscii a stento a vedere il barlume selvaggio nei suoi occhi. Lei mi afferrò le mani, le strinse e afferrò con esse la pistola. La lasciai fare, ero paralizzato. Non dalla paura, che pure provavo, ma da un senso di trasporto. Ero ipnotizzato.
Avvertii il calore del suo corpo, la coperta era caduta, ma non vedevo altro che un briciolo di luce riflessa nei suoi occhi. Portò la pistola all’altezza del mio viso e, con delicatezza, me la portò in bocca.
Sentii il sapore dell’acciaio sulla lingua, i miei denti strinsero la canna. La ragazza respirava forte, quasi ansimando, mentre il temporale fuori cresceva d’intensità e la pioggia e il vento battevano forte sulle pareti.
«L’unico modo per scoprire di essere vivi, di aver mai vissuto davvero… è morire», sussurrò.
Non feci in tempo a replicare. Non ne avrei comunque avuto la forza. Il colpo vibrò sordo. Avvertii una sensazione di vuoto quando il proiettile mi trapassò il cranio e il sangue e le cervella si liberarono fuori dalla mia testa, mentre vidi il furore smeraldo degli occhi di quella ragazza. Il tutto durò il tempo di un battito di ciglia, poi la luce tornò, feci un respiro profondo, reso aspro dal sapore del rum e mi ritrovai a fissare la giovane scout in piedi sul sentiero. Ero penzoloni sul ciglio del burrone.
«Come scusa?», le chiesi con la voce impastata.
«Un penny per la tua felicità», ripeté lei, ora visibilmente non più sicura di aver fatto bene ad essersi fermata per parlare con me. Guardava la bottiglia di rum. «È così che si usa quassù…», continuò lei, ma la fermai.
«Fammi indovinare: si butta un penny di sotto e si ottiene un po’ di felicità?».
«No», rispose lei divertita. Si chinò sul carretto che portava con se, sollevò il telo nero e prese qualcosa, un piccolo oggetto rotondo luccicante. «Questa felicità. Costa solo un penny, ne vuoi?».
Sorrisi anch’io divertito e le feci cenno di sì con la testa. Lei mi lanciò la caramella che afferrai al volo.
«Un penny», ribadì lei.
Mi controllai le tasche dei jeans, poi quella della camicia. C’era una monetina dentro, sporca e graffiata, ma pur sempre un penny. Gliela lanciai. Anche lei afferrò al volo. Ragazza in gamba.
«Grazie!», esclamò radiosa, e si incamminò di nuovo su per il sentiero, tirandosi dietro il suo carretto carico di caramelle. Era scalza, notai. Prima che fosse troppo lontana, si voltò di nuovo.
«Non ti ho chiesto come ti chiami», gridò. L’eco della sua voce fece il giro della montagna. «Ci dicono di presentarci sempre. Io sono Hope».
«Aaron. Aaron Lensing», replicai in modo da farmi udire.
«Lo scrittore?».
Annuii.
«Il Cuore di Pietra è il mio libro preferito». E dopo una pausa. «Mi dispiace per tua moglie». Ci guardammo per un istante, io percepii il suo sorriso compassionevole, lei il mio di gratitudine. Si voltò e andò via.
Roteai la caramella tonda tra le dita. Aveva un incarto verde smeraldo lucido, che aprii. La caramella era grigiastra e non particolarmente invitante. Vi era incisa una scritta, però, solo una parola: Happiness. Ovviamente.
Risi di gusto. Feci rotolare la bottiglia di rum giù per la scarpata e infilai la caramella in bocca. Era un po’ amara, ma mi piacque lo stesso. Mi sollevai in piedi, barcollando, ridendo, con le lacrime agli occhi, e mi diressi per il sentiero. Giù. Dovevo tornare a casa, alla mia scrivania, al mio computer: c’era una storia che volevo scrivere.