Premio Racconti nella Rete 2014 “Everywhere I Go” di Andrea Laudani
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014Alle cinque del pomeriggio di un freddissimo novembre, Central Park non può essere che vuoto.
Il sole era sparito da un pezzo dietro gli alberi e i palazzi. Il cielo, già grigio, stava virando verso l’azzurro spento della sera. Tra poco più di un’ora sarebbe sceso il buio.
Faceva freddo. Quell’anno non aveva nevicato, non ancora almeno, ma l’erba era sempre un po’ brinata. Tirava un leggero vento polare dall’oceano, che fischiava e ululava sui sentieri del parco, tra gli alberi, trascinando con sé le foglie ormai marroni.
C’era ancora qualcuno su una delle panchine. Una ragazza stava seduta con le ginocchia strette al petto e i piedi sulle barre di metallo della panca, dondolandosi leggermente per scaldarsi. Aveva addosso un pesante cappotto di pelle imbottita, un cappellino di lana viola e una sciarpa dello stesso colore. Non aveva i guanti: li aveva dimenticati a casa per la fretta. Erano viola anche loro. Aveva passato i primi cinque minuti al parco a maledirsi per esserseli scordati. Ora teneva le mani dentro il cappotto chiuso, sul maglione che portava sotto, ed era riuscita a tenerle al caldo. Ma il naso le pizzicava ancora. Doveva averlo tutto rosso, immaginò. La sciarpa non era larga abbastanza da coprire sia muso che gola, così aveva dovuto scegliere: pussa via mal di gola, benvenuto naso ghiacciato. Sempre meglio che niente. Almeno non si era dimenticata il cappello: con quel gelo, le sarebbe esploso un mal di testa da record.
Sentì scricchiolare la ghiaia sul sentiero, d’un tratto. Dei passi. Qualcuno stava venendo nella sua direzione. Lei non osava nemmeno spostare la testa per vedere chi era, aveva troppa paura di scoprire chi fosse: tanta pena per scappare e alla fine ciò da cui sfuggi ti raggiunge comunque. Strano mondo, questo.
L’uomo si fermò di fronte a lei. La ghiaia smise di scricchiolare e il suo rumore fu subito sostituito da quello del vento. Una ventata d’aria gelida le investì la guancia. L’uomo, di cui aveva visto solo le scarpe, emise uno sbuffo seccato, fece un passo verso la panchina e si sedette pesantemente. Lei non si mosse.
«Ciao, papà», disse lei flebilmente. Il tono della voce le uscì più imbarazzato e pentito di quello che voleva dimostrare. L’uomo al suo fianco sbuffò ancora e si portò una mano sugli occhi, come per la stanchezza.
«Che stai combinando, Rachel?». La ragazza non rispose. Si strinse ancora di più a sé stessa e abbassò lo sguardo. Anche suo padre rimase zitto per qualche minuto, forse per darle modo di trovare una spiegazione convincente. Ma lui sapeva bene che di spiegazioni, in quei casi, non ce ne erano. Men che meno convincenti.
«Tesoro, lo so cosa è successo. E so anche cosa stai provando in questo momento…».
«No, non lo sai!», lo interruppe Rachel improvvisamente rianimata. Aveva alzato la testa verso di lui e lo stava guardando negli occhi con un aria di sfida mista a tristezza. «Non lo sai neanche un po’… Come potresti sapere quello che provo? Né tu né la mamma potreste…».
Rachel tornò a rannicchiarsi e scoppiò a piangere. Suo padre allungò un braccio verso di lei, ma la ragazza si scansò.
«Voi siete così felici insieme. Come fate? Come fate ad andare sempre d’accordo, a essere sulla stessa linea in tutto? A scambiarvi di ruolo come se niente fosse… a capirvi così bene?».
«Perché ci amiamo, Rachel, è naturale…».
«Anche noi ci amiamo, papà! Siamo davvero innamorati. Lo sento. Ma non riusciamo a restare in sintonia… come se parlassimo due lingue diverse. E ultimamente non capisco più per niente che cosa vuole… Non capisco più per niente nemmeno cosa voglio io…». Si coprì il viso con le mani e pianse con tutta l’anima. Questa volta non protestò quando suo padre la strinse a sé e si lasciò consolare. A suo padre tornarono alla mente vecchi ricordi, di quando Rachel era piccola e le cose erano più semplici. Tempi lontani, pensò fra sé. Lontani parecchio.
«Voglio raccontarti una storia. Una storia di molti anni fa. Magari non risolverà i tuoi problemi, ma almeno non ci farà pensare al freddo…».
Sai, queste cose non sono sempre andate bene, per me. Anzi, per la verità, quando sei giovane ti appare tutto molto più grande e difficile di quello che apparirebbe decine di anni più tardi. Specialmente in amore.
Conoscevo una ragazza, tanto tempo fa, quando vivevo ancora in Italia. Avevo vent’anni, lei poco meno. Ci eravamo conosciuti per caso, un’estate, ad un colloquio di lavoro che fallimmo entrambi. Ci innamorammo subito e, più di cinque anni dopo quella splendida estate, ero seduto in casa dei suoi, con tutti loro attorno, in un silenzio triste ed imbarazzante.
Ci eravamo lasciati l’estate dell’anno prima. Per la verità, era stata lei a lasciare me. Si era innamorata di un altro, un certo Paolo, suo compagno di corso all’Università. Si erano baciati un giorno mentre tornavano a casa. E una sera più tardi avevano fatto l’amore. E più tardi ancora, quando ormai avevo capito che qualcosa non andava e le avevo chiesto spiegazioni, mi aveva lasciato, dicendomi che aveva trovato di meglio. Testuali parole.
«Paolo mi da retta. Mi ascolta. Mi da ragione…».
«Oh, povera cara, avevi bisogno di un automa che ti dicesse sì ogni volta?».
«Non capisci niente. Tu non hai mai capito niente. Niente di me, niente di come va il mondo…».
«E come va il mondo? Si sta insieme ad una persona per quasi quattro anni e poi la si lascia per il primo coglione incontrato in giro?».
«Ho capito che con te stavo finendo in un vicolo cieco, ecco come va il mondo! Il nostro rapporto stava marcendo ed è stato chiaro quando io e lui ci siamo conosciuti meglio. Ho capito che era la persona più vicina a me, perché ci somigliamo».
«E tutto questo l’hai capito in quanto, due settimane?».
«Fanculo, Angelo!». Aveva tenuto un tono calmo, anche se vibrante per la tensione e il nervoso, ma ora era esplosa in un moto di rabbia. Le lacrime presero a sgorgare come da rubinetti aperti. «Ora sono felice. Non sono costretta a subirmi i tuoi patemi d’animo, i tuoi malumori e le tue pressioni. Lui è una persona leggera, prende la vita così com’è, proprio come me, e non rende tristi le persone che lo circondano». Si sedette di nuovo sulla sedia. Le tremavano le mani per la rabbia. Aveva il viso rosso solcato da rivoli luccicanti, i capelli biondi corti arruffati e gli occhi verdi leggermente arrossati. Era bellissima anche così, pensai in quel momento.
Mi stava lasciando, per un altro, dopo avermi tradito e avermi strappato il cuore e io la trovavo ancora bella, con la luce della finestra alle sue spalle che la circondava come un aura angelica, la vestaglia leggera che le sfiorava il corpo, e quel profumo di pane e zucchero che aleggiava sempre nella sua cucina. Era quella l’ultima immagine che avrei mai avuto di lei, pensai allora. Un ultimo quadro luminoso e colorato che avrei conservato per anni, finché non sarebbe sparito pian piano, nel corso della vita, cancellato da altri tempi, altri spazi e altri odori, diventando solo un vago ricordo, il ritratto sfocato di un breve istante della mia vita che mi ero ripromesso di non scordare mai, e di cui invece non sarebbe rimasto che qualche dettaglio, un alone di luce, una curva del seno e quell’odore di pane.
Sentii il cuore stritolarsi in una morsa gelida. Cercai di guardarla negli occhi, ma lei aveva lo sguardo perso nel pavimento. La conversazione era finita lì, senza nemmeno cominciare veramente. Non mi avrebbe detto “ti lascio”, non mi avrebbe ridato la collana col mezzo cuore, né avrebbe accettato che lasciassi lì la mia. Niente di ufficiale, o di drammatico, o di teatrale. Era finita. La fine è niente e il niente non si decora. Mi alzai. Respirai a fondo l’odore di quella cucina, di quella casa, di lei, la guardai un’ultima volta e uscii, credendo fosse per sempre.
Non avrei mai immaginato che più di un anno dopo ci sarei ritornato, in quell’appartamento al quinto piano di una rossa palazzina di Milano. Era esattamente come me la ricordavo, con i mobili bianchi e neri, la vetrina con le bambole di porcellana, la libreria di legno, lo strano tavolo trapezoidale e la sedia traballante. La sedia dove usavo sedermi sempre quando facevo loro visita.
«Sei cambiato, Angelo, ti trovo bene. Si sta bene a New York, allora», ruppe finalmente il silenzio Gianna, sua madre. Era in piedi dietro il tavolo, poggiata al frigorifero. Vittorio, il papà, era seduto accanto alla moglie e sorrideva imbarazzato. Sua sorella era al lavello e faceva finta di sciacquare qualcosa: aveva infilato sotto l’acqua sempre lo stesso bicchiere in quei cinque minuti da quando ero entrato. Lei, il mio vecchio amore, era seduta a capo tavola, di fronte a me. Aveva gli occhi gonfi di lacrime che tratteneva a stento e mi guardava fisso, sorridendo dolcemente. Le tremava la gamba, come stesse aspettando qualcosa che non vedeva l’ora arrivasse.
«Sì, l’ha detto anche mia madre quando mi ha visto, l’altro ieri. Sono dimagrito parecchio in quest’anno. Nell’accademia dove vivo e studio hanno una palestra sempre aperta agli studenti. Ci vado quasi ogni sera: mi ci vuole, dopo una giornata di studio, mi aiuta a sfogarmi».
«Hai fatto nuove amicizie, lì?», chiese ancora Gianna. La gamba della figlia smise di tremare di colpo.
«Non particolarmente strette. Ci vediamo solo nel campus per le lezioni e per qualche rara uscita, niente di speciale. Lo studio e il lavoro ci impegnano un po’».
«Che lavoro fai?», disse finalmente Vittorio, ma senza riuscire a scollarsi dalla faccia quel sorriso drammatico.
«In realtà ne faccio due: quello principale, alla compagnia informatica, è lo stesso per cui avevo fatto domanda qui in Italia. Sono loro che mi hanno chiamato l’anno scorso e per i quali sono partito per l’America. L’altro lavoro l’ho trovato da poco: è un lavoro saltuario in un ristorante italiano che recentemente si è voluto dedicare anche alle pizze. Io sono quello che le consegna e ogni tanto aiuto anche ai tavoli o in cucina. Mi trovo bene con tutti e due, ma spero che una volta finiti gli studi possa trovare di meglio. Una casa di videogiochi mi ha già contattato e dice che mi terrà d’occhio».
«Be’, speriamo, dai!».
«Sì, andrà bene, vedrai!».
«Già. Si spera…».
Silenzio.
Quel vuoto di parole spaziò la mente per i miei pensieri. La testa mi si riempì di immagini e ricordi. L’odore di pane e zucchero era sparito, o forse semplicemente ero io a non sentirlo più, ma lei aveva gli stessi occhi verde smeraldo e gli stessi capelli arruffati, biondi e corti come un campo di grano. Non aveva addosso la vestaglia con cui ci eravamo lasciati, ma portava una maglietta di cotone con una grande ape stampata sul petto. Era bianca a bande orizzontali gialle. Gliel’avevo regalata per il suo compleanno un millennio prima. Si accorse che la stavo guardando e, diversamente da quello che mi aspettavo, mi sorrise, allegramente e senza pensieri, come se dentro la sua testa il ricordo di noi insieme fosse stato rimosso e gettato lontano.
«Ho sentito che le cose non sono andate bene con Paolo…». Non lo dissi per cattiveria. Fu solo la prima cosa che mi venne in mente per togliermi dall’imbarazzo.
Era stata mia madre a dirmelo al telefono, una sera.
«Ha chiamato Gianna oggi, sai? La mamma di…».
«Sì, me la ricordo, ma’. Cosa voleva?».
«Mi ha chiesto delle cose su di te. Dice che sua figlia sta male, è in depressione e cose così. Da quello che ha lasciato intendere, pare si sia pentita di averti lasciato. Lei e quell’altro sono stati insieme qualche mese, poi questo s’è rotto, ha preso e se n’è andato».
«E sapere questo mi serve a…?».
«Sei riuscito a trovare i biglietti per Natale?».
«Sì. Mi sono costati un po’, ma almeno ho il mio volo: parto il venti e torno il tre… Perché?».
«Ho promesso che ti avrei convinto a passare da casa loro, per salutare. Non sono riuscita a dire di no, pare che stia davvero male e secondo sua madre è sinceramente pentita di averti…».
«Non ho intenzione di rimettermi con lei, se è questo che sperate tutti quanti. Ho cambiato strada, non ho nessuna intenzione di tornare su quella vecchia. Abbiamo fatto le nostre scelte. Lei ha fatto le sue scelte, giuste o sbagliate che fossero. Non si può tornare indietro ogni volta che si crede di aver fatto una stronzata. Quel che è fatto è fatto, no?».
«Passerai da loro?».
«… Sì». No. Ovviamente no. Dopo che mi aveva lasciato, ero precipitato in un tunnel oscuro fatto di incertezze, paure e totale perdita di speranza. Mi ero immaginato l’intera vita assieme a lei fin da quando ci eravamo dati il primo bacio, ma lei aveva infranto tutto facendosi incantare dal cazzone di turno. E adesso cosa voleva? Aveva scoperto che c’era molto peggio di me in giro? Non aveva più alternative se non elemosinare un po’ d’affetto? Da me, dal ragazzo a cui aveva spezzato il cuore? Con che coraggio mi cercava, ora?
Con quale forza sarei potuto tornare da lei?
«No, non proprio», rispose. «Si è trasferito tempo fa… non l’ho più visto, da allora». Il sorriso le si spense, anche se non del tutto: aveva ancora negli occhi quel pizzico di luccichio speranzoso che le brillava da quando ero entrato. «Siamo stati assieme per poco. Ci siamo accorti abbastanza presto che non eravamo fatti l’uno per l’altra».
«Non così presto, in fondo».
Lei non rispose. Nessuno parlò e cadde il silenzio. Di nuovo.
Stavolta forse sì, lo dissi per cattiveria. Era inutile tenere nascosto il fatto di aver passato quell’ultimo periodo con la rabbia in petto. Non ero riuscito a dirle quello che volevo, quel giorno. Lei non me lo aveva permesso, perché in realtà non mi aveva degnato nemmeno di uno sguardo, di una parola definitiva o di una spiegazione plausibile. Tutto quello che aveva avuto il coraggio di dirmi era di aver trovato di meglio. E mentre lei si godeva il meglio, io finivo per odiare me stesso e quello che facevo, ogni aspetto della mia vita, finché, appena ho potuto, non sono scappato, alla ricerca di una nuova. Evidentemente non era lo stress da studio quello che sfogavo ogni sera in palestra.
«Mi dispiace!». All’improvviso scoppiò a piangere, forte e senza controllo. I suoi occhi erano dighe che avevano retto la pressione fin troppo e ad un certo punto avevano ceduto. «Mi dispiace di aver combinato questo casino. Se ci fosse un modo per tornare indietro e fare le scelte giuste…». Poggiò la fronte sul tavolo, nascondendosi il viso con le braccia, singhiozzando. In quel momento capii quanto fosse sincero il suo pentimento, quanto avesse realmente sofferto in quell’ultimo anno, e non me ne importò nulla.
I suoi genitori e la sorella sgusciarono via, cercando il più possibile di rendersi invisibili. Gianna mi diede un ultima occhiata pietosa prima di chiudere la porta della cucina per lasciarci soli. Dopo qualche momento in cui nessuno dei due disse niente, lei ancora nascosta tra le sue braccia, alla fine parlai io.
«Dispiace anche a me, ma sei tu che…», riuscii soltanto a dire prima che mi interrompesse. Ci avevo provato.
«Hai un’altra?». Aveva alzato la testa, gli occhi umidi e gonfi di pianto.
«No».
«Non hai conosciuto nessuno in America?».
«Certo che ho conosciuto qualcuno, mi sono fatto degli amici che vedo spesso, ma sono troppo impegnato per dedicarmi a qualcosa di più».
«Mi ami ancora?».
“No”, avrei potuto rispondere. “No”, avrei dovuto rispondere. “No” era la risposta giusta. Ma quella domanda era stata così fulminea e inaspettata da lasciarmi senza fiato.
Lei si tirò su con la schiena e si asciugò il viso. Quando abbassò le mani notai che stava sorridendo. Perché diavolo stava sorridendo?
«Saremmo stati felici un mese, in totale», continuò. «Io e Paolo, intendo. Prima, quando stavo ancora con te, sentivo il brivido del proibito, di qualcosa che non avrei dovuto fare, qualcosa di compromettente e terribilmente eccitante. Dopo averti lasciato, la sensazione fu di liberazione: ero libera di dedicarmi a qualcosa di nuovo, qualcosa su cui avevo lavorato segretamente e che ora potevo mostrare a tutti. Ero felice, o così mi sembrava. Non impiegai molto tempo a realizzare che tutto quello che avevo fatto era stato solo provare qualcosa di nuovo per uscire da una apparente monotonia. La verità è che, mentre stavo con te, avevo paura che la vita non potesse più offrirmi occasioni. Ero terrorizzata dall’idea di conoscere già il mio destino, che tutto, le mie passioni, i miei studi, il mio lavoro, la mia vita con te, fosse già stato scritto, senza obiezioni o alternative. Mi sentivo come se avessi già vissuto tutta la mia vita. Come riguardare un film più volte e sapere già come andrà a finire. Quel pensiero mi aveva rivoltato la testa sottosopra. Per questo mi ero illusa che con Paolo le cose potessero andare meglio, perché mi era sembrato di vedere un alternativa, una strada diversa, una storia di cui non conoscevo la fine». Si interruppe per passarsi una mano tra i capelli. La ragazza che mi stava fissando ora non era la stessa con gli occhioni pieni di lacrime di poco fa. Ora stavo guardando una ragazza saggia e consapevole di sé. La ragazza di cui mi ero innamorato più di cinque anni prima. «Ma sai cosa ho scoperto, alla fine? Che le altre strade non hanno fine: precipitano semplicemente nel vuoto, un pozzo oscuro da cui è difficile risalire. Rimasta di nuovo sola, mi era diventato chiaro che l’unica strada possibile, per me, era quella che avevo abbandonato. Che stupida! Ero stata così fortunata a trovare il mio destino. Molte persone lottano inutilmente per scoprire il proprio e io che ce l’avevo di fronte l’ho lasciato per… per il niente». Si alzò in piedi e si buttò ai miei piedi, afferrandomi le mani. «Sei tu il mio destino. Era con te che dovevo stare. Sei sempre stato il mio sentiero certo che sapevo sarebbe andato a finire bene. Ora l’ho capito, e se riuscirai a perdonarmi potremmo riprenderlo insieme, perché è anche il tuo destino, la tua unica strada».
Deglutii. Lei, l’unica ragazza che avevo amato con tutto me stesso in tempi andati, mi stava di fronte, in ginocchio, tenendomi le mani fra le sue, mentre con quegli occhioni verdi mi implorava di perdonarla e tornare con lei. L’aria si era fatta pesante e carica. C’era odore di chiuso, in cucina, e i suoi capelli sapevano di frutta. Usava ancora lo stesso shampoo.
«E’ questo che mi stai chiedendo? Che dimentichi tutto e torni da te per riprendere quello che avevamo lasciato, come se non fosse successo niente?», dissi con un sorriso amaro tra le labbra. Lei allentò la presa e il verde dei suoi occhi si spense un poco. Nessuna traccia di quell’odore di pane e zucchero. Solo puzzo di chiuso e shampoo dolciastro.
«E’ finita», proseguii. «Finita tempo fa. Io e te siamo stati un capitolo che tu stessa hai deciso di chiudere. Fine della storia. Non c’è motivo di tornare indietro: sappiamo già come andrebbe a finire».
Che presuntuosa. Si era aspettata davvero che le dicessi di sì, senza nemmeno esitare, perché appena le dissi quelle cose si allontanò lentamente da me, con gli occhi sgranati e il respiro irregolare. Si alzò in piedi e si poggiò al muro, continuando a guardarmi, incredula.
«E’ ora che vada». Mi alzai e aprii la porta. Sentito che stavo uscendo, sua madre sbucò dal fondo del corridoio che portava alle camere da letto e mi si avvicinò preoccupata.
«Vai già via?», mi chiese guardando la figlia mentre uscivo dalla porta d’ingresso.
«Sono già andato via da tempo», risposi, e mi chiusi la porta alle spalle.
Era calato il buio a Central Park. Suo padre aveva raccontato quella storia per così tanto tempo che si erano accesi i lampioni, ad un certo punto. Ora i sentieri e gli alberi erano di un brillante arancione e le luci della città circondavano il parco con il loro blu elettrico.
Rachel sentiva ancora freddo, ma le luci le davano un certo senso di calore, per cui non vi badò più molto. Avrebbe anche potuto dormire lì, dopotutto.
«Che storia triste», disse infine.
«Già», rispose Angelo. Aveva addosso solo una giacca e un paio di guanti di pelle, vestiva sempre così d’inverno, nonostante le proteste della mamma. Rachel si chiese come facesse a non sentire freddo.
«Te ne sei mai pentito? Insomma, anche se lo meritava, sei stato comunque un bastardo».
«Non mi sono mai pentito delle mie scelte: se credi nel destino, sai bene che in qualsiasi luogo tu vada, andrà sempre come deve andare».
«E tu ci credi, nel destino?». Rachel aveva lo sguardo immobile sulle foglie dell’albero di fronte a loro, nell’altro lato del sentiero. Si muovevano seguendo la corrente sotto il lampione, sembravano lampeggiare passando e ripassando sotto la luce. Suo padre non rispose. Qualcuno si stava avvicinando lungo il sentiero. Potevano sentire lo scricchiolio dei sassolini farsi sempre più chiaro. Rachel ebbe di nuovo paura che fosse lui e si preparò a urlare e dare in escandescenza, o a piangere e correre via. Ma quando di fronte a loro si fermò una donna, capì che i suoi problemi per ora erano altri.
«Ciao, mamma», salutò, tenendo basso lo sguardo.
Sua madre non si mosse, né disse alcunché per un po’. Era una bella donna snella e slanciata, dalla pelle chiara e le guance rosse per il freddo, i capelli biondi tagliati corti e due luminosi occhi smeraldo. Portava un pesante cappotto imbottito lungo fino alle caviglie, ma nonostante tutto stava congelando sul posto. Mamma ha sempre sofferto il freddo, pensò la ragazza, e come se non bastasse sembrava molto irritata.
«C’è Jacob in macchina. Vacci a parlare», pronunciò alla fine, con le labbra che le tremavano leggermente.
«Cosa?», esclamò Rachel destandosi di colpo.
«Sono stanca di questa storia. E’ una settimana che andate avanti così. Ora vai in macchina, parli con lui e vi decidete una volta per tutte: o state insieme o non state insieme. Non esiste un limbo per queste cose».
Rachel aprì la bocca per replicare, ma suo padre le poggiò una mano sulla spalla. Avevano ragione: bisogna scegliere sempre quale strada prendere, non ci si può fermare ad ogni bivio. E se papà ha ragione, qualsiasi cosa si decida di scegliere, andrà comunque come deve andare.
Così sbuffò, si alzò e si diresse verso il cancello. La loro auto era proprio di fronte, già vedeva la sagoma del ragazzo al posto del passeggero. Non era sicura di quello che sarebbe successo, ma ormai era decisamente ora di scoprirlo.
«Bene, ci siamo riusciti, finalmente», disse Angelo soddisfatto.
«Ci siamo? Io ci sono riuscita! Da quant’è che eri qui con lei, due ore?». La donna si sedette accanto al marito, nel posto lasciatole caldo da Rachel.
«Sai come sono io. Ho un approccio più… riflessivo».
«Tradotto: hai passato le ultime due ore a farle una testa così con qualche tua vecchia storia. Quale delle troppe?», chiese appoggiando la testa sulla sua spalla.
«Oh, la migliore di tutte», disse voltandosi verso di lei e guardandola negli occhi.
«Ah, sì. Quella che finisce con te che chiudi la porta e te ne vai per sempre?».
«No. Quella che finisce con te che quasi ti fai linciare dagli altri passeggeri per aver fermato il mio volo».
«Bella storia, quella. Soprattutto perché abbiamo evitato il linciaggio».
«Meglio la parte finale: i due si corrono incontro in mezzo al check-in e si baciano come non mai, incuranti della folla e dell’allarme che suona».
«Questa te la sei sognata».
«Forse. Ma chissà come, alla fine i sogni mi rincorrono sempre. Ovunque io vada».