Premio Racconti nella Rete 2014 “Bastianazzo” di Giuseppe Panzera
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014Come quasi tutti i ragazzi italiani, anch’io per molti anni ho praticato lo sport del calcio, giocando in una squadra del mio quartiere che partecipava al campionato allievi.
Allenamenti nei giorni dispari e la domenica in campo per la partita.
Durante gli allenamenti eravamo tutti presenti, tranne uno, che si presentava solo per le partite.
Il suo nome era Sebastiano, ma per quello strano vezzo in uso nel tempo di imbruttire i nomi, veniva chiamato Bastianazzo.
Bastianazzo era un ragazzo della nostra età, come tutti gli altri… o quasi.
Viveva infatti in una famiglia poverissima che non poteva permettersi di mandarlo a scuola e perciò era costretto a lavorare.
Tutti i giorni percorreva le strade su una bicicletta scassata per portare la spesa al domicilio dei clienti di un supermercato del quartiere.
Col sole, con la pioggia, col freddo, col caldo, lui era sempre lì, sulla sua biciclettina che andava avanti e indietro veloce, schivando auto e passanti, per poter fare più consegne possibile e sperare così di ricevere piccole mance che servivano ad arrotondare il suo magro compenso.
Talvolta passava vicino al campo dove noi ci allenavamo, fermandosi un attimo a salutarci e a chiederci contro chi avremmo giocato la domenica successiva; poi filava via sorridente, dandoci appuntamento a quel giorno. E la domenica lui c’era sempre!
Pimpante, allegro, combattivo, lui c’era sempre, con il corpo e soprattutto con il cuore.
L’allenamento fisico non gli mancava, visto che andava in bicicletta molte ore al giorno.
Riguardo invece la tecnica, Bastianazzo ne era dotato quasi per dono divino: aveva un talento naturale che gli consentiva di giocare meglio di tutti noi.
Pur essendo un po’ rustico, ci metteva talmente impegno che era praticamente su tutti i palloni, facendo impazzire gli avversari che spesso non riuscivano a fermarlo in nessun modo.
Se cadeva si rialzava subito, se mancava una palla non imprecava, se l’arbitro fischiava un fallo sbagliato non protestava.
Giocava con il sorriso sulle labbra, felice di poter fare una cosa che gli piaceva, dopo una settimana di intenso lavoro, poco adatto ad un ragazzo della sua età.
Alla fine delle partite, diventava un po’ triste, perché sapeva che avrebbe dovuto attendere un’intera settimana per poter dare sfogo al suo desiderio di libertà, ma comunque non lo dava molto a vedere.
Io me ne accorgevo perché lo guardavo negli occhi, mentre gli altri fuggivano via distratti a festeggiare in caso di vittoria o a lamentarsi in caso di sconfitta.
Un giorno, fissandolo dopo la partita, mi accorsi di una smorfia di dolore sul suo viso mentre si toglieva le scarpe.
Osservai quelle strane calzature e mi resi conto che erano praticamente dei pezzi di cartone assemblati in modo da sembrare scarpe.
Le presi in mano per vederle meglio, ma lui le reclamò subito e, con malcelata vergogna, li ripose in una busta di plastica sottraendole alla mia vista.
Allora mi sedetti sulla panchina dello spogliatoio e spostai l’attenzione sulle mie scarpe, le mie “pantofole d’oro”, ambitissimo regalo dei miei quattordici anni.
Mentre mi crogiolavo in quella visione, Bastianazzo mi passò davanti veloce zoppicando vistosamente.
Lo trattenni per un braccio e gli chiesi: “Ti sei fatto male?”
“No, no, sto bene… Ci vediamo domenica.”
E fuggì via veloce, senza aggiungere altro.
Ma la storia si ripeté puntualmente e anzi più passava il tempo e più il suo strano zoppicare si intensificava, influendo anche sul suo rendimento in campo.
Così il mister decise di farlo rimanere in panchina proprio nella partita più importante del campionato.
Quella domenica, mentre sedevo accanto a lui in panchina, osservai ancora quelle sue strane scarpe: entrambe mostravano una vistosa scollatura fra suola e tomaia e pensai quanto fosse difficile, se non impossibile, riuscire a giocare in quelle condizioni.
Lui fremeva perché voleva entrare in campo e quando il mister lo lanciò nella mischia, si buttò dentro anima e cuore.
Lottò come un gladiatore, finché in un contrasto la scarpa destra gli si aprì del tutto, suscitando la derisione degli avversari e di qualche compagno poco intelligente.
Bastianazzo non sapeva che fare, si guardò attorno imbarazzato e quando l’arbitro lo invitò severo ad alzarsi per non perdere tempo corse verso la nostra panchina, saltellando su un piede e col residuo della scarpa in mano.
Il mister si mise le mani ai capelli: aveva già esaurito le sostituzioni e mancavano quindici minuti alla fine della partita che avrebbe deciso tutta la stagione.
Il terreno non era coperto d’erba ma era di “terra battuta”, o almeno così veniva detto, anche se era in realtà cosparso di piccole pietre aguzze.
Bastianazzo aveva un cuore grande, si tolse anche l’altra scarpa e ritornò in campo, fra lo stupore di avversari e compagni.
Correva scalzo, saltellando come un matto, ma correva più di tutti gli altri.
Ad un tratto, un infido sassolino appuntito si conficcò nella pianta del piede e lo fece crollare a terra rovinosamente.
Si avvicinò alla panchina con una smorfia di dolore e disse sottovoce: ”Non ce la faccio…”
Il calzettone sporco di terra si tinse di rosso per il sangue che fluiva copioso.
Quando se lo tolse, osservai per la prima volta attentamente quel piede: che impressione!
Calloso, deformato, pieno di piccole cicatrici… mi chiesi come potesse camminare in quelle condizioni. Sembrava il piede di un vecchio…
Lui si accorse del mio sguardo e mi disse con un sorriso forzato: ”Quando devi fare ogni giorno chilometri con scarpe dure e scomode… il risultato è questo.”
Mi scese silenziosa una lacrima poi, senza pensarci, tolsi le mie “pantofole d’oro”, di cui ero stato fino a quel momento gelosissimo e le diedi a lui: ”Mettiti queste e torna in campo.”
I suoi occhi brillarono… aveva i piedi martoriati, ma non ci pensò un attimo, infilò rapidissimo le mie scarpe e ritornò felice sul terreno di gioco.
Stavamo vincendo 1 a 0 e mancavano ormai una manciata di minuti alla fine.
Quel risultato ci avrebbe permesso di vincere il campionato, mentre il pareggio avrebbe premiato i nostri avversari che avevano un punto più di noi in classifica.
L’assedio dei nostri rivali era forsennato: tutti nella nostra area, compreso il portiere.
Una confusione pazzesca, con la palla che veniva sbattuta avanti e indietro senza fermarsi mai.
In quei minuti convulsi Bastianazzo lottava con tutte le sue forze, cercando di essere dovunque per ostacolare le manovre degli avversari.
Durante il recupero, nel tentativo di riconquistare un pallone nella nostra area, forse per un improvviso dolore al piede ferito, rovinò addosso ad un avversario.
L’arbitro non ebbe alcun dubbio e assegnò il calcio di rigore.
Ne seguì un gigantesco parapiglia, che durò diversi minuti e si concluse con tre espulsioni.
Alla fine l’arbitro avvisò le squadre che la partita si sarebbe chiusa con il calcio di rigore.
La tensione era altissima, tutti trattenevano il fiato.
Il “colpevole”, che era stato pesantemente insultato dal mister e dai compagni per aver compiuto il fallo che ci poteva costare l’intera stagione, se ne stava seduto solitario vicino alla bandierina del calcio d’angolo, sforzandosi vistosamente di trattenere le lacrime.
Il rigore fu segnato e perdemmo il campionato.
Bastianazzo si alzò con un’espressione indecifrabile, mi restituì le scarpe e andò via scalzo e a testa bassa.
Io ebbi solo il coraggio di sussurrargli: “Poteva succedere a tutti, non te la prendere! Ci rifaremo un altro anno!”
Lui si voltò un attimo, accennando un sorriso, poi girò l’angolo e scomparve alla mia vista.
Non lo incontrai più.
Non so che fine abbia fatto, so solo che da quel giorno, quando incontro persone povere, mi viene istintivo guardare le scarpe che calzano e mi ritornano in mente quelle parole pronunciate con amarezza ai bordi di un campo di calcio: “Quando devi fare ogni giorno chilometri con scarpe dure e scomode… il risultato è questo.”
Mi hai ricordato quando, nel periodo dell’adolescenza,
in piena fase di crescita, mi ostinavo ad indossare
le mitiche “pantofola d’oro” numero 37,
nonostante i miei piedi nel frattempo si fossero ingranditi…
povero me, che dolore!
Benvenuto!
Racconto dolce-amaro,
accattivante e ben scritto.
Bravo 🙂
A presto.
M
Caro Giuseppe, questa storia andrebbe forse meglio nella sezione” racconti per bambini”, magari farebbe riflettere i più grandicelli.
È una storia che si situa bene nel (mio) passato; adesso, sui campetti di calcio durante le partite dei bambini, si trovano sempre scarpe di riserva e, se la lacrima scende, forse è per il risultato negativo perchè quello che non è cambiato è la foga di voler/dover vincere ad ogni costo, dimenticando che dietro ad ogni giocatore c’è un bambino con la sua voglia di emergere e divertirsi. I Bastianazzo, con la loro voglia di gioco, di vita e di riscatto, ci sono ancora e hanno le scarpe adatte, spesso però capita anche di vedere tanti piccoli protagonisti, gladiatori in erba, applauditi, se non venerati, dagli spalti. Credo che oggi il calcio dei bambini, sia diventato più democratico di quello del passato raccontato bene nella tua storia, ma sembra sempre meno un gioco (anche di vita, come ben racconti)…a me però piace sempre.
Bella storia!
Ciao Silvia, le tue considerazioni sono sempre argute. Bastianazzo, come avrai capito, è realmente esistito e ha lasciato un segno nella mia memoria. Il calcio per lui non era un gioco, ma era l’unica via di fuga da una vita misera ed opprimente. Oggi apparentemente, quelle situazioni non esistono più… purtroppo solo apparentemente. E il calcio incarna questa realtà fatta di apparenze, di immagine, di sensazioni vissute “in superficie” … e, come dici bene tu, sembra sempre meno un gioco.
Triste ma bellissimo. Le “pantofole d’oro” me le ricordo bene, le avevano i miei amici che giocavano a pallone negli anni ’70. In bocca al lupo, Giuseppe.
Nella vita si vince e si perde il campionato praticamente ogni giorno. Resta il rammarico di averlo perso non per demerito ma perché la vita stessa ti ha piegato, anche nel momento della fuga, della rivalsa. Eppure, comunque, vincono la dignità e l’umanità del protagonista, così ben descritte e che colpiscono al cuore il lettore.
Allora sei della mia generazione! Sshh…meglio non dirlo, lo sappiamo solo io e tu. Scherzi a parte, noi di quella generazione abbiamo vissuto anni belli e quanto vorrei che li potessero vivere anche i nostri figli…che hanno tutto e non hanno più niente!
Ciao Roberto, hai ragione, nella vita si vince e si perde ogni giorno e l’esito delle partite che giochiamo non dipende solo da noi. Sarebbe facile, ma non è così… facciamo di tutto per vincere e magari perdiamo lo stesso. Sarebbe bene che imparassimo a non esaltarci nelle vittorie e a non deprimerci nelle sconfitte, restando parimenti sereni in entrambi i casi. Ci sto tentando… non so a che punto sono, ma ci sto tentando