Premio Racconti nella Rete 2014 “La IX Legione” di Antonio Milicia
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014Britannia… oh Britannia!
Legionario sono nella Nona legione, l’Ispanica, nel terzo secolo dopo un Cristo che ancora noi romani non abbiamo accettato, mandato sulla terra da Dio per arrestare il dominio di un impero che altrimenti mai l’uomo sarebbe riuscito a fermare.
Eravamo in cinquemila, ma adesso siamo solo la metà.
La legge del ferro vale anche per noi, ed i Pitti hanno fatto pagare cara la nostra tracotante avanzata.
Nei giorni passati abbiamo marciato verso nord, e costruito in pochi giorni un ponte per superare in un tratto adatto un fiume dalla voce rabbiosa che spingeva le sue acque urlando verso il Mare che guarda al nord.
Stiamo riposando dopo una estenuante marcia in un campo al di là dell’ultima linea fortificata dell’Impero di Roma nella terra dei barbari, il Vallo di Adriano.
L’inverno ci sta mordendo le carni come un lupo rabbioso, solo la marcia ci fa sentire di meno la morsa gelida e costante del freddo. Anche stanotte ha nevicato, e abbiamo acceso dei grandi fuochi per riscaldarci, raddoppiando i turni di guardia per paura che i fuochi attirassero i malvagi Pitti. Abbiamo dormito stringendo al cuore l’acciaio freddo del nostro ferro, pronti a combattere al minimo avviso di allarme.
Il nostro comandante, il Generale Marcus Avola, per farci coraggio ci chiede spesso chi siamo, e noi rispondiamo gridando: Noi siamo quelli che stanno sfidando l’ignoto al di là del Vallo di Adriano, alla conquista della Britannia del Nord. Noi siamo quelli che osano in nome dell’Impero Romano e che porteranno l’aquila di Bronzo fino al mare che guarda a Nord. Noi siamo quelli della Nona legione. L’ispanica.
Abbiamo dovuto sedare una rivolta scoppiata tra le popolazioni a Nord della fortezza di Eburacum, ma una volta compiuta la nostra missione a caro prezzo, il comandante della Legione ci ha chiesto di spingerci ancora più a Nord.
Abbiamo incontrato un altro fiume che scavava un profondo solco nella roccia. Ne sentivamo le acque che scorrevano ruggenti dentro quella forra. Il comandante ordinò di piegare verso ovest e risalirne il corso, verso l’ignoto ancora più freddo e nebbioso.
Giungemmo così ad un gruppo di montagne di colore rosso ma rese bianche dalla neve, col freddo che mordeva inesorabile le nostre carni.
Mosso ormai da una folle idea di conquista il comandante ci assicurava che avremmo presto trovato i villaggi dei Pitti, ricchi di cibo, di pelli, e di ogni bene da saccheggiare.
E ci spinse sempre di più verso il sole che muore, alla conquista dell’ignoto, che però passo dopo passo si rivelava essere un grande nulla.
In quella contrada selvaggia nessun uomo, neppure i barbari Pitti, si avventurava per sbarrarci il cammino.
Il grande inganno dei Pitti si rivelò così ai nostri occhi dinanzi a quella sconfinata landa desolata dove neanche gli alberi venivano considerati graditi ospiti.
Non c’era nessuna ricchezza, nessun villaggio da saccheggiare, nessun nemico da sconfiggere, nessuna spada da incrociare. I Pitti avevano semplicemente difeso il nulla, sicuri che sarebbe poi stato quello il nostro peggiore nemico.
Il comandante però sembrava sempre più in preda ai demoni della follia, e ordinava di andare sempre più avanti.
Li seguimmo come ciechi i suoi demoni, fin quando il fiume non si allargò e le sue acque si calmarono. Vasti boschi di alberi altissimi e dritti si stendevano intorno ad un lago per noi senza nome, dalle acque scure e profonde.
Ci accampammo ai margini di quel bosco e riuscimmo a procurarci legna e cacciagione per poter resistere a quel freddo ormai insopportabile.
Il lago si stendeva a perdita d’occhio verso occidente, mentre a nord l’altra sponda ci appariva a tratti nella nebbia. Il comandante decise di attraversarlo facendo costruire delle grandi zattere dai nostri maestri d’ascia, con il legno resinoso degli alberi di quel bosco.
Per cinque giorni la valle riecheggiò dei colpi sordi delle asce con le quali abbattemmo centinaia di alberi e ne lavorammo il legno per costruire dieci gigantesche zattere, ciascuna delle quali in grado di trasportare duecento e cinquanta legionari.
Nessuno ferma Roma, solo gli Dei possono.
Poggiate che furono le zattere sull’acqua calma, stremati dalla fatica ne provammo la resistenza e dopo una notte di riposo, all’alba del giorno dopo fummo tutti pronti per attraversare quel lago dalle acque scure e fredde come il piombo. Una dopo l’altra le larghe zattere si portarono verso l’interno del lago, guidate da dieci rematori per lato ciascuna e bilanciate da un timone a poppa.
Il cielo ci nascondeva il sole da giorni, e la nostra carne esposta al freddo soffriva. Dal lago si sollevava una nebbia a banchi fitti, che in alcuni tratti ci rendeva come ciechi. Il silenzio era rotto solo da rumore dei remi e dell’acqua, nessuno di noi voleva parlare, anche le armature tacevano. Marcus Evola era il primo uomo della prima zattera, con a fianco i portatori dell’Aquila di bronzo, e dava ordini ai rematori per la direzione da prendere. Nei momenti in cui il cielo era più chiaro vedevamo apparire le montagne nella sponda opposta del lago, che ci sembrava lontanissima.
L’acqua era dappertutto ormai, navigavamo come se quello fosse un mare senza onde.
Gli uomini si davano il cambio ai remi, e una dopo l’altra le zattere somigliavano ad un lungo serpente che galleggiava sull’acqua. I brividi del freddo si univano a quelli dell’eccitazione e della paura per l’ignoto ancora più ignoto che ci attendeva.
Eravamo quasi a metà dell’acque quando scorgemmo nella nebbia una montagnola bruna, e tosto il comandante dette ordini di piegare a sinistra per non urtare quell’isolotto in mezzo al lago. Un banco di nebbia lo nascose, ma quando si dissolse la montagnola non c’era più. I nostri occhi increduli cercavano quella massa bruna che tutti avevamo visto apparire nella nebbia. Ma niente! Acqua, solo acqua dappertutto. Erano forse i demoni che ingannavano i nostri occhi? Soli in quel nulla tutto era possibile. Chiedemmo così aiuto ai nostri Dei, invocandoli ad alta voce.
Per tutta risposta una nube di spruzzi si sollevò dall’acqua e si confuse con la nebbia. Qualcosa percosse il legno dal basso fino a scuotere tutte le legature, sollevando la zattera tanto che molti di noi persero l’equilibrio e caddero nelle acque gelide, incontro a morte certa. La zattera dietro la nostra ci venne incontro, e altri uomini caddero in acqua. Disperati tentavano di aggrapparsi ai bordi scheggiandosi le mani, ma i loro muscoli si intorpidivano per il freddo e non riuscivano a risalire. Alcuni venivano tirati su dai compagni, altri cedevano presto all’abbraccio gelido di quell’acqua impietosa e scomparivano verso il basso come rapiti dalle sirene. Il comandante dava ordini agli uomini, gridando di rimpiazzare i rematori caduti in acqua. Eravamo inermi, la nostra armatura e il nostro gladio che vincevano sui popoli del Nord adesso nulla potevano contro un nemico che si dimostrava invisibile.
Un altro potente colpo di maglio squassò la zattera e ne fece gemere le legature fino allo spasimo, tendendole fin quando con uno schiocco pauroso il legno si aprì al centro e l’acqua potè conoscere finalmente la paura della nostra carne. Si aprì allora sotto di noi un gorgo che per tre volte ci fece girar con tutte l’acque, mentre gli uomini vi scomparivano dentro come se cadessero dentro un pozzo senza fondo.
Di fronte all’inferno liquido che nella nebbia filtrava davanti ai loro occhi, quelli delle altre imbarcazioni tentarono di deviare la rotta, ma le prime due furono anch’esse devastate dalla forza di quel vortice, e lentamente il legno cominciò a perdere la battaglia con i legamenti, che cedevano come fossero fili di capelli sottili.
Furono pochi attimi, ed anche le altre zattere cominciarono ad esplodere una dopo l’altra e nello stesso modo. L’ultima immagine che rimase nei miei occhi fu il nostro comandante trascinato giù dal peso dell’aquila di Bronzo alla quale si era aggrappato, forse spinto dall’ultima estrema speranza di conquista. Le nostre armature e il peso delle nostre armi furono la nostra condanna definitiva, e quel poco tempo che avemmo per aggrapparci ai legni prima che il freddo ci facesse perdere la morsa delle mani lo usammo per guardare il cielo, cercando disperatamente il sole che da giorni e giorni si nascondeva al nostro sguardo.
Come quella assurda violenza esplose, alla fine scemò, e nel silenzio rimasero soltanto i più resistenti di noi aggrappati ai tronchi. Giusto il tempo di salutare nella nostra mente i cari che non avremmo più rivisto, e ad uno ad uno scegliemmo l’abbraccio gelido di quel lago fatale, infin che l’acqua sovra noi si richiuse, e non ci furono più occhi per guardare e bocche per raccontare.
mi sono divertito a fondere due grandi misteri… ispirandomi allo scrittore Clive Cussler
Mi è piaciuto il tuo racconto. Il comandante sembra un invasato come Achab , la terra dei Pitti , la balena bianca che lo trascina con se all’Inferno. Bravo
grazie Luigi, a me piace tantissimo la tua interpretazione, anche se mi ero ispirato al XXVI canto dell’Inferno
Sarà ispirato al XXVI canto dell’Inferno ma la tua prosa è convincente. Lo sforzo di conquista di Roma è stato fermato dalle tecniche di guerriglia dei Pitti e dalla natura ostile. Un popolo irriducibile si oppose a Roma da cui non volle accettare la pax romana e né la colonizzazione. Belle pagine degne di un romanzo storico.
Emanuele.
la storia rimane sempre grande fonte di ispirazione e di suggestioni… grazie Emanuele