Premio Racconti nella Rete 2014 “Riflessi” di Mirko Zanona
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014Provo una curiosa sensazione. Non che m’immaginassi di veder soltanto me, riflesso in questa grande lastra di vetro che divide il negozio dalla strada. No di certo. Non mi facevo tale illusione. Eppure ora che il tempo mi è amico, ora che la folla è sufficientemente viva – malgrado il freddo – da consentirmi di fare simili riflessioni senza esser disturbato, ora posso dire di provare una sensazione assai curiosa. E posso perfino fermarmi ed esaminarla, questa sensazione. Vedo l’interno del negozio, decorato, illuminato, scintillante. E sui volti dei clienti e delle commesse vedo ora il mio volto, ora le figure incappottate dei passanti, ora altra gente che come me – senza il mio coinvolgimento, ne sono certo – guarda la vetrina. Vedo l’ambiente ristretto e circoscritto del negozio, allo stesso tempo quello allargato della strada e quello infinito dei volti che mi passano accanto. Ecco, quella curiosa sensazione: un sentimento vivo di onnipotente incapacità. Perché se è vero che tutto vedo – perfino coloro che passano alle mie spalle – è anche vero che nulla potrei nel caso in cui succedesse qualcosa dentro il negozio; e perfino se accadesse qualcosa dietro le mie spalle. Rimarrei pietrificato a guardare ed ascoltare. Mi conosco. Tutto vedo, tutto sento, nulla mi sento in grado di fare.
Il negozio è uno spazio aperto. Discretamente ampio. Solo bassi scaffali a muro e qualche tavolo al centro ricolmo di prodotti. Vendono cosmetici, olii per il corpo, prodotti per la cura della persona, trucchi, saponi e profumi, e di tanto in tanto, quando la porta si apre, nonostante il freddo che altera, inibisce e ghiaccia in buona misura le mie facoltà olfattive, qualcosa s’avverte. La fragranza delicata e dolciastra provenire dal collo lungo e sottile di una ragazzina, che ancora non ha indossato la sciarpa per dar modo al profumo di penetrarle fin dentro i suoi sensi ancora troppo sensibili; oppure un odore forte e persistente, di qualche strana erba che non saprei identificare, che impregna uno di quei pezzetti di carta che si inumidiscono del prodotto e che il cliente non smette di sventolarsi davanti al naso prima dello svolto, prima del bidone che già straripa degli stessi, medesimi pezzetti di carta profumati. I profumi escono, si liberano nell’aria e svaniscono, e dentro il negozio le immagini rimangono.
Le commesse sono tre. Tutte donne molto giovani. Una se ne sta in cassa, le altre due si aggirano per il negozio sorridendo e chinandosi ad ogni nuovo entrato. Il pavimento è di pietra e deve fare un gran caldo, nonostante la porta venga aperta ad ogni sbatter di ciglia. Deve fare un gran caldo perché le tre donne – ragazze – sono tutte poco vestite; pantaloni e maglietta che tanto aderiscono al corpo da proiettare a terra l’immagine di tre donne nude che si aggirano in una foresta di giganti, i clienti imbottiti per sopportare il freddo di fuori. Qualcuno, un uomo, si avvicina ad una commessa, lei gli risponde col sorriso, l’ombra di un gigante che fa la corte ad una sirena. Provo gelosia. La voglio per me, quell’ombra di sirena. La voglio per me quella figura snella. Allontanati, gigante. La ragazza ha un anello all’anulare sinistro. È sposata, così giovane. Sono ancor più geloso; non voglio condividere la gioia di una grazia così sublime con un secondo uomo. Siamo io e lei, e la sua ombra non inanellata. Punto. E come se non bastasse sulla figura della mia sirena inconsapevole transitano di continuo le immagini della calca esterna. Anche ora che il gigante infagottato nel suo cappotto se n’è andato. Lei sbuffa e per un attimo perde il suo sorriso, un momento solo, lontana dagli sguardi critici ed indagatori dei clienti. Un attimo soltanto, poi torna a sorridere e si mette a sistemare la merce, la tocca, la sposta. Tutto nel più completo mutismo. Doveva esser così, guardare i film muti negli anni venti o trenta. Immagini che si susseguono sullo schermo accompagnate soltanto da una musica al pianoforte e dal vociare disordinato ed indefinito del pubblico, i passanti.
I passanti. Giacche, cappotti, pellicce, guanti, sciarpe, berretti, soprabiti, maglioni. Il vetro è pulito, la luce dentro intensa, fuori il buio è rotto ad intervalli dai fasci arancioni dei lampioni. I passanti si specchiano e compaiono nitidi, colorati e perfettamente definiti ai miei occhi. Un signore si soffia nelle mani nude una manciata di alito caldo, si avvicina alla vetrina, guarda per qualche secondo, entra, si aggira per il negozio, esce. E mi passano tutti dietro, prima o dopo. Qualcuno mi vede senza guardarmi, molti altri, in realtà quasi tutti, mi ignorano completamente. I bambini sembrano più interessati a me, alla mia figura. Li sento da lontano. Si avvicinano alla vetrina parlando concitatamente a genitori indifferenti. I genitori si fermano ad osservare il negozio – bella, mi piacerebbe, deve esser buono – e non si accorgono nemmeno che i piccoli si sono zittiti e mi guardano. Sento che mi osservano, così come sentirei se mi si rivolgesse la parola. Le loro occhiate sono insistenti, penetranti. Ma a loro non interessa nulla. Mi guardano e basta, senza alcun problema. Non si girano di botto ad ogni mio più piccolo movimento, non hanno paura. Stanno lì finché il genitore non li riprende distrattamente per mano, e con loro se ne vanno e riattaccano col loro parlottare concitato. Io ricomincio a respirare ed a guardare dentro il negozio, a cercare la mia sirena.
La vedo. Mostra un prodotto ad un uomo, un cliente, piccolo e tozzo che si muove di continuo in maniera disordinata, come un folletto. Saltella qua e là come se seguitasse ad avvertire il freddo della strada, nonostante sia avvolto fino al mento in una giacca imbottita che tocca a terra e gli casca male su spalle, fianchi e gambe. Ed ha pure un berrettino di lana. Lui le sorride e lei lo ricambia e da qualche metro di distanza una donna, piccola ed infagottata a sua volta, gli si fa accanto e lo tira per un braccio. La coppia si aggira ancora per qualche istante tra i tavoli bassi, trottando, poi si affretta ad uscire, lei immusonita, lui ancora sorridente per la graziosa visione. La mia sirena li guarda, ancora col prodotto in mano, poi si sfoga in una risata assieme alla collega, che da un angolo ha osservato tutto.
Mi distraggo un poco. Osservo per bene i prodotti in vetrina. Tutti gli articoli sono ordinati secondo un certo cromatismo ma i cartellini dei prezzi sono sistemati troppo in basso, troppo piccoli, scritti con una calligrafia artistica incomprensibile. Se volessi sapere il prezzo dei prodotti in vetrina dovrei entrare. Forse lo fanno apposta. Sapone, bagno doccia e spugnetta duencinquattordici e quarantasettenta, shampoo naturale e balsamo sedirentasinque e vensettotto, set trucchi trentantove e ottentratrotta. Sì, dovrei entrare per forza, se volessi sapere i prezzi. Dovrei entrare e rivolgermi alla mia sirena. Ma che cosa acquisterei? “Ci sarebbe questa simpatica spugna per la schiena, con un manico per arrivare dove non arrivano le braccia”. “Non mi serve. Se la natura ha fatto sì che le mie braccia fossero troppo corte per arrivarci, significa che per quel punto è sufficiente il sapone che cola dalle mie spalle e l’acqua del getto della doccia”. “E questo bel sapone intimo? Delicato, al profumo di margherita”. “A che mi serve avere le mie parti intime che profumano di margherita?”. “È delicato”. “Non c’è bisogno di delicatezza. Perché inventare milioni di saponi differenti per le quattro parti in cui è diviso un corpo umano? Sopra, sotto, davanti e dietro. Che significa? Avete un sapone particolare anche per le orecchie? Uno per le labbra? Del tipo che se bestemmi puoi lavarti la bocca col sapone, che è delicato e non screpola le labbra?”. “No di certo. Forse apprezza di più un profumatore per ambienti”. “La mia casa deve profumare solo di casa…”. Starei delle ore a polemizzare su ogni tipo di prodotto soltanto per sentire la voce della mia sirena ed osservarne il sorriso, per sentire il profumo del sapone all’albicocca che si strofina sul polso. Le immagini svaniscono. Sono di nuovo fuori dal negozio. Tutto è come prima.
Entra una signora molto distinta. Indossa una pelliccia dal pelo lungo e un cappellone tutt’altro che invernale. Appare curiosa, divertente, esilarante, nell’insieme. È molto truccata. In un primo momento tutti la guardano, perfino le commesse, la mia sirena, poi diventa parte del negozio, come un qualsiasi altro cliente. La cassiera batte i prodotti alla tastiera della cassa, le ragazze si occupano d’altro. E la signora distinta cammina lentamente tra i tavoli, passa accanto agli scaffali, si avvicina ad un espositore, legge gli ingredienti di un profumo, si toglie un guanto – la vecchia signora distinta indossa i guanti -, lo apre, lo annusa, fa per metterlo al suo posto ma protetta dalla bardatura della sua pelliccia se lo fa scivolare in una manica e muove in avanti un profumo che sta dietro, a coprire lo spazio vuoto. Solo io posso vederla. Si rimette il guanto, la vecchia signora distinta, e prosegue. S’infila nella manica un altro profumo, un rossetto, un trucco, una lima per unghie – da ventundinovantasei e ottanntovedici! Non una limetta per unghie economica-. La mia sirena, più per cortesia che per necessità, le si avvicina e le presta il suo aiuto. La vecchia signora distinta fa un elegante segno di diniego ed esce dal negozio salutando. La guardo mentre si allontana. Impotente.
Ecco, la strana sensazione che si ripresenta. A qualche metro da me la vecchia distinta signora ha preso a camminare di gran lena e mi pare di poterla isolare da tutto il resto, come un regista che concentri l’inquadratura su una sola figura in tutta la scena. Il rumore dei suoi piedini intacchettati sul marciapiede, passetti, passetti, il frusciare della pelliccia; l’odore del profumo che indossava sotto le vesti che hanno così abilmente coperto i suoi furti, che nemmeno un ladro avrebbe potuto… ecco. Non una semplice sensazione di impotenza, no. Qualcosa come una palpabile inettitudine. Perché ho visto tutto come sullo schermo di un cinema, ed a tutto avrei potuto mettere fine se solo avessi denunciato il furto ad una guardia, bussando sul vetro alle commesse o a qualche cliente, o soltanto ad un passante qualsiasi. Ma non l’ho fatto. Non ho fatto nulla di tutto questo. Come se fossi io dentro al negozio, io in una gabbia di vetro e tutto il resto fuori. Anche i clienti, fuori, il marciapiede, fuori, estraneo da me, i passanti, la mia sirena la vecchia ladra la cassa i profumi rossetti saponi lime prezzi. Anche i prezzi, fuori.
Sedicindedici e novantottantautre. Un ragazzino mi si affianca. I suoi genitori e altri due amici guardano la vetrina. Di nuovo. Scena già vista. Lui guarda me. Io osservo lui con la coda dell’occhio – o con il pensiero? -. Avrà sì e no otto anni. Forse nove, massimo dieci. Non fa nulla per nascondere la sua curiosità nei miei confronti, come il ragazzino di prima. Mi guarda intensamente, poi si rivolge alla vetrina, ci alita sopra una nuvola di vapore caldo e disegna nella condensa un cerchio con due puntini ed una mezza luna, un volto sorridente, paffuto. I genitori ridono, dicono qualche cosa agli amici, ma non importa nulla a nessuno, nemmeno agli amici, nemmeno a me, perché il vetro è diventato appena adesso la tela di un artista. Come ho fatto a non pensarci prima? Tutto quello che si muovo dentro il negozio, tutto quello che accade in strada e si riflette sul vetro, tutto quanto è l’opera di un artista. Chi disse che non esiste il libero arbitrio? Che le nostre azioni sono determinate esclusivamente da fattori esterni, la qual cosa rende banale e prevedibile qualsiasi sfumatura della vita umana? Chi lo disse? Non ricordo. Guardo la mia tela animarsi attorno al disegno del ragazzino che sta lentamente dissolvendosi nel freddo, sullo sfondo del volto del ragazzino sul vetro. Anche l’arte è banale e prevedibile? Anche l’arte è priva di libero arbitrio? Il bambino mi guarda un altro po’, poi segue i genitori lungo il marciapiede ed esce dalla mia tela. Il disegno ha perso quasi tutta la sua nitidezza. Solamente un occhio attento riuscirebbe ora ad individuare i tratti dell’opera. Ai miei occhi però il disegno rimane. Dell’altra parte, la mia sirena si aggira per il negozio. Non ti ho persa di vista, no. Non ti ho abbandonata. Ride, sorride. Non sono sicuro che lei riesca a vedermi da dentro il negozio. Dentro c’è molta luce, fuori c’è oscurità. Per lei, il vetro sarà come uno specchio. Per me è una tela. Posso perfino immaginarmi, proprio come un artista, la storia di ciascun personaggio decido di inserire nella mia opera. L’arte è selettiva. La mia mente disegna soltanto quello che vuole. Il resto lo tralascia, anche se esiste, anche se è vero. Il vetro non è più un guazzabuglio…
Un uomo. Un anziano, occhialuto e gobbo, con un vestito tanto pesante da sembrare esagerato perfino per il freddo che fa, un uomo tanto tipico che forse nessun altro pittore avrebbe deciso di ritrarlo. Perché è troppo tipico. Cappotto lungo e curvo sul suo corpo, occhialoni tondi e spessi che aiutano a tener sollevato dal naso adunco un basco talmente largo da far somigliare l’intera figura ad un albero dalla chioma compatta. Volto magro, aspetto gracile, collo sottile fasciato da due o tre giri di sciarpa di lana o flanella. Si chiama Celestino. Celeste, per gli amici. Faceva il macchinista. Guidava i treni, e non passa momento della giornata in cui non gli venga da pensare ai momenti passati a veleggiare sulle sue rotaie. Da trent’anni ormai non lo fa più. Invalido civile. La pensione di invalidità gliel’hanno data le Ferrovie dopo quella brutta faccenda dell’incidente alla stazione di Treviso. Un arrivo un po’ lungo, il convoglio che finisce per metà sulle pensiline. A terra, cinque morti, a bordo trenta feriti lievi e due gravi. I due gravi sono Celestino e Adriano, il secondo. Celestino, Celeste, zoppica mentre si sposta da destra verso sinistra a leggere i cartellini dei prodotti. Ha una gamba finta. Quella vera se l’è tenuta il treno tra le braccia amorevoli delle sue lamiere. Celeste getta uno sguardo rapito ad un set di saponi e spugne, quello a duencinquattordici e quarantasettenta, e se ne va. Dentro il negozio arriva una donna nera con un bimbo tutto infagottato, che nemmeno si riesce a vedere, su un braccio. Fuori dal negozio si riflette una coppia sui quarant’anni.
Il bimbo avvolto nei vestiti invernali che tiene tra le braccia le nera nel negozio appartiene al signore di fuori, al quale a tratti lei si sovrappone. Interessante. Anche sulla tela si sovrappongono le due figure. L’uomo bianco si chiama Bruno, la donna bianca Emma, la donna nera Fathma, il bambino Farik. Bruno e Fathma fingono di non conoscersi; nemmeno si guardano. Bruno indica ad Emma alcuni prodotti, Emma sorride; Fathma parla con la commessa, dentro; Farik si muove, ma in realtà è solamente il fagotto di vestiti che si muove; la commessa sorride al fagotto di vestiti. Farik non può sapere chi è l’uomo dalla parte opposta del vetro; l’uomo col quale diciassette mesi prima sua madre ha fatto l’amore. L’uomo col quale la madre lavorava, in una società che si occupa di traduzioni. Lei traduceva dal francese, dall’inglese, dallo spagnolo; lui, impiegato. Lei è molto bella e giovane, una carnagione del colore del mogano, luminosa. Ha uno sguardo intelligente, si esprime senza gesticolare, segno che per farsi capire le basta l’utilizzo del suo perfetto italiano. Emma tira affettuosamente Bruno per un braccio. Anche lei è molto bella, bianca, quasi diafana, gli occhi chiari, i capelli rossi. Non immagina nemmeno quello che Bruno le ha combinato. Ride beatamente per il folle prezzo di un trucco esposto in vetrina – ottannettannosei e cinquantasettove -. Anche lui ricambia la risata. Non vuole che lei intuisca qualcosa. Si allontanano. Fathma nel frattempo ha comperato qualcosa. Una rapida occhiata alla vetrina, per capire se lui c’è ancora – o l’occhiata me la sto immaginando io? – ed esce dal negozio prendendo una direzione inversa a quella della coppia. È buio che sembra notte fonda. Pare non possa succedere più nulla di interessante.
Potrei andarmene, ora. Che altro mi resta da fare davanti a questa vetrina, tela lucida e luminosa nella tenebra nascente? Ci sono tante altre vetrine. Vero. Ci sono tanti altri prezzi da leggere e tentare di interpretare. Ventrentasettotto e quaranteinque. Tante altre bellissime ragazze da elevare al rango di sirena. Ma nessuna vetrina può più diventare nella mia mente una tela d’artista. Qui mi è venuto di interpretare la vetrina come una grande tela, qui seguiterò a disegnare la mia opera. Chissà come vedevano il mondo i cubisti, i pittori dell’astratto.
Lo vedevano in maniera distorta, eppure profondamente razionale, un continuo affiorare di sentimenti ed emozioni e vita interiore che vanno a corrodere l’oggetto – la pietra o la tela – fino a farlo diventare arte. Si avvicina un uomo, ma non per guardare i prodotti. Si accende una pipa e tira la prima boccata. Il suo volto ha lineamenti spigolosi, due rettangoli; uno contiene i bulbi oculari, l’altro, più stretto, naso e bocca. Ed anche il fumo che esce dalla pipa è una forma geometrica. Un triangolo rovesciato con uno spigolo rivolto in basso, verso la bocca dell’uomo. Gli occhi di lui sono su due piani differenti. L’uno arriva quasi a lambire i contorni delle labbra – spigolose – l’altro è vicino alla tempia, vicino alla sede delle idee, la mente. Un occhio che si figura quel che l’uomo dice ed un altro che scruta la mente. Lo vedo così. Un tutto spigoli, ed ora che se ne va dalla mia tela lo vedo come se dovesse scomporsi in tante figure geometriche. E svanisce. Compare un gatto, al suo posto. Cammina rasente alla vetrina, tranquillo all’apparenza eppure sempre in guardia, sempre pronto a fuggire dalle mani di un falso corteggiatore. Le orecchie mi ricordano quelle di una volpe del deserto. Mi appaiono enormi, l’una più dell’altra alternativamente, in base al rumore. Le zampe sono piccole, e sono migliaia, sotto il ventre, a lato sui fianchi. Si muovono rapidi all’arrivo del falso amante e fuggono trascinandosi dietro le orecchie che ora gli sventolano dietro, come due lenzuola al vento. È un bambino, quel falso amante. Un altro bambino, ancora un bambino, fuggito alla mano della madre. Mi angoscia più del vecchio che fumava la pipa. Il bambino non ha naso, bocca, occhi. La sua testa è una sfera perfettamente liscia, il suo corpo una forma di gomma, o di plastilina. Sembra una statuina appena abbozzata, e la madre che lo chiama e lo rincorre, riflessa, tiene in mano un attrezzo di legno, una specie di piccola cazzuola, di quelle che usano gli scultori per modellare la creta…
Questa cosa mi turba. Mi turba vedere quello che gli altri non vedono, mi turba riuscire a scavare nelle viscere più intime e nascoste delle persone. Dov’è la mia sirena? Ho paura. Potrebbe apparirmi forse troppo grigia, il bagliore della sua fede forse troppo accecante, il suo volto troppo bianco, il suo sorriso troppo malizioso. Non la trovo. Dov’è? E il mio sguardo torna sul modellino di creta – il bambino – e su sua madre, che ora è vicina alla vetrina. Non mi ero reso conto che avesse una bocca tanto grande e le orecchie tanto piccole e il collo così lungo e sottile. Le sue braccia si allungano come un elastico ed afferrano il piccolo per i fianchi. Non è facile abbandonare questa visione. Non è facile ridare alla madre ed a suo figlio le giuste proporzioni, i giusti particolari anatomici. Forse è sufficiente chiudere le palpebre, così, pochi secondi, poi aprirle, così. Ecco. Di nuovo i suoni della strada – fino ad ora il mondo si muoveva attorno a me come in una bolla di vetro -, ecco il bambino che piange perché il gatto è scappato, e sua madre è su di lui, le braccia normali, le orecchie e la bocca non più sproporzionate. Anzi, è quasi bella. Anche la mia sirena ricompare. È lì dentro, seduta su uno sgabello accanto alla cassiera. Si guarda attorno nel negozio che si è ormai fatto quasi deserto, guarda distrattamente fuori, nella strada – ma lei vede la strada? -, che perde via via vita e animazione. La sera avanza. Da quanto tempo sono qui? Se solo qualcuno si fosse fermato come me ad osservare, e se quel qualcuno mi avesse osservato, forse lo saprei. Ma…
– Ha da accendere? –.
– Non fumo –.
Fine della media dei rapporti occasionali tra individui. Una domanda, una risposta. A volte una conclusione. Un “grazie”. Maleducato. Lo vedo nel vetro mentre si allontana. Le sue braccia diventano lunghi rami secchi, il suo volto si allunga e il suo sguardo si incattivisce, si fa famelico. Di nuovo. “Accendere, accendere”. Trova da accendere in breve, da un intimorito passante, piccolissimo, che si mette in punta dei piedi, a braccio allungato, per accendere al mostro. Vedo il lumicino della brace accanto alle sue labbra secche. Si allontana. Cala il sipario. Le luci si spengono. Le luci?
Un senso di inadeguatezza, come se qualcuno mi avesse fatto precipitare con violenza dal fantastico mondo dell’arte alla banalissima realtà. Si sono spente le luci del negozio. Rimangono soltanto due o tre piccole luci in vetrina. Si apre la porta; profumi diversi fuggono nel freddo della notte e si volatilizzano in pochissimi istanti. Escono tutte e tre assieme, coperte fin quasi alla fronte dal collo dei loro cappotti, fin quasi al naso dai loro berretti. Non le riconosco più. Non so quale sia la mia sirena, che ormai, d’altra parte, non avrebbe più nulla di attraente, così coperta. Una di loro chiude la porta a vetri con due o tre sonori giri di chiave e se ne vanno nella direzione opposta a quella dove mi trovo. Le loro voci diventano lontane poi svaniscono dietro l’angolo. E resto solo.
La vetrina ha perso invariabilmente tutto il suo fascino. Non c’è più lei, la mia sirena, non si leggono più i prezzi, più nessuno si riflette e più nessuno traspare da dentro. È diventato tutto più triste. Triste come la realtà. Val la pena di restare? Val la pena di continuare a guardare la vetrina, che ora è solo un pezzo di vetro? Mi sento addosso gli occhi di qualche passante lontano. Ora che la luce del negozio è spenta, ora che non ho più alcun motivo razionale per stare qui, ora che tutto il mondo se ne torna a casa per la cena, la mia presenza diventa sospetta, evoco un senso di angoscia, di paura. Divento una “stranezza”. Prima la mia inedia, la mia inutile staticità, fine a se stessa, aveva un senso. Prima ero “uno che guarda la vetrina”. Ma ora che si sono spente le luci, ora che dentro non c’è nessuno, sono un intruso.
Sono passati soltanto pochi minuti da che il negozio ha chiuso. La gente mormora. Non interessa a nessuno quello che ho pensato e quello che mi sono costruito dentro fino ad ora, le mie elucubrazioni inudite sull’arte e sull’amore. Non interessa a nessuno. Ho freddo. Metto le mani in tasca. Ancora mormorii alle mie spalle. Il mondo intero mi vuole morto. Vogliono rimuovermi. Effettivamente che ci faccio qui? Cosa risponderei alle domande di un sorvegliante che dovesse passare, chiamato da uno di loro?
– Buonasera. Può spiegarmi cosa fa qui? –.
– Nulla. Prima guardavo dentro il negozio, quando c’era della gente. Ho perfino sorpreso una ladra e mi sono innamorato di una donna sposata –.
– Ed ora? –.
– Ora non lo so nemmeno io. Stavo pensando che la gente inizia a notarmi solamente ora, nonostante io abbia fatto fino ad ora meravigliosi pensieri e abbia visto una vetrina in un modo in cui non l’avevo mai vista… –.
– Che senso ha tutto questo? –.
– Non lo so. Sinceramente non lo so –.
Descrizioni ambientali molto precise. Anche il lettore finisce per entrare nel mezzo di questa “coreografia” di viandanti esterni e di clienti, o presunti tali, interni al negozio. Un “pittore” a tratti simpatico, a cui piace troppo essere stralunato ad oltranza. Osserva tutto ciò che avviene davanti ai suoi occhi. Ne risulta come meravigliato e non interviene a cambiare il corso delle cose, neppure quando la sua coscienza gli vorrebbe urlare che è il caso di darsi una smossa. Un delitto far scappare la vecchia distinta signora che ha fatto incetta di profumi. Smascherarla sarebbe stato un punto di partenza per invitare poi la commessa sirena a prendere un aperitivo. Ma il protagonista rimane invischiato, semplicemente immobile come incollato dentro quella bolla di vetro da cui osserva la vetrina e i riflessi della vetrina.
Avevo letto questo racconto settimane fa e non avevo fatto in tempo a commentare, poi non sono più riuscita a trovarlo.
Sono lieta di essere stata ricondotta qui da un altro commento, perché il racconto mi è piaciuto e credo meriti attenzione.