Premio Racconti nella Rete 2014 “Passaggio a Est” di Patrizia Napoleone
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014
” E’ il tempo del risveglio per il ritorno.
E’ il tempo nel quale torneranno,
come la fonte dalla quale nacquero”
“Gocce di luce nell’ombra”
Gino Romiti
Il tonfo del cuore, sollecitato dalla corsa, echeggiava nelle orecchie, profondo e cadenzato, ma sempre più rapido, con colpi ravvicinati sul filo sibilante di un respiro acre. I piedi s’impantanavano negli acquitrini della palude, scivolavano su indefiniti corpi viscidi che abitavano le acque melmose. Sul viso e sulle braccia umide sferzavano secche, con schiocchi asciutti, le foglie a lama delle canne.
Eppure si sentiva leggera; il corpo senza peso alitava nell’aria rarefatta e il suo respiro era fresco. Dietro le spalle passi di cerbiatti scorciavano distanze: la raggiunsero. I colpi degli zoccoli coprirono quelli del cuore, poi l’afferrarono in un grido che si confuse con lo starnazzare delle oche, acuto e sordo, come di trombe stonate. Dallo stagno fermo fu tutto un fremere di voli, anatre, beccacce. Ali lente e incerte uscivano dal pantano e un polverio di frulli oscurava il cielo.
Solo lei immobile, senza peso, senza respiro, sospesa nel morso che aveva fermato la corsa leggera. Non c’era dolore, anzi, la mente sciolta dall’impegno fisico si accendeva di colori, liberava cavalli viola che le fiorivano fra i capelli sciolti e galoppavano fanasie. Stupiva di questa sensazione di flusso mentale, come onde liquide che schiumano alla risacca.
Quel tramonto nelle sue regioni dell’est era stato così faticoso. Fino a sera inoltrata i riverberi rossastri del sole avevano ferito i vetri opachi della sua baracca. E come altrimenti chiamarla, la casa di legno del dottor Forsyte, nascosta fra i canneti e abitata dalle zanzare?
Ora costruivano un ponte di cemento, dove un tempo era quello di giunchi sospesi e durante i lavori, che ormai erano incominciati da tre mesi, avevano staccato la rete di alimentazione elettrica. Aghate, la piccola suora, si era procurata qualche vecchio lume a gas, intorno alla cui corta fiamma, la sera, ronzavano le zanzare.
Margie ricordava che il camion si era dovuto fermare prima del ponte e le casse erano state portate a spalla; ondeggiavano, assecondando il movimento dei passi sulle stuoie e le corde tese da una parte all’altra del fiume. Era un habitat di giunchi , di canne, di legni teneri e flessuosi e Margie così volle arredare la sua casa atterrazzata sul lago. I primi tempi andava da un intrecciatore all’altro, sceglieva i vimini, ne stimava il midollo e dava istruzioni per la costruzione dei mobili. Ne venne una casa leggera e chiara, viva di riflessi dorati, che ora piangeva nelle sue giunture marcite di umidità e di vecchiezza. I giunchi scricchiolavano lenti sotto il suo fragile peso, quando accomodava quel suo mucchietto d’ossa consumate sulla poltrona davanti alla veranda, con lo sguardo al retone fermo. Qualcuno dovrebbe sganciarlo. Nelle rare giornate di vento il gancio rugginoso cigola in un lamento querulo. Sì, qualcuno dovrebbe sganciarlo. Dopo la scomparsa di Tony è rimasto lì, come una grande culla vuota, e ormai sono anni; la rete si è smagliata e il gancio cigola. Ma è così difficile ormai che qualcuno raggiunga la sua casa.
Quando il dottor Tony Forsyte e sua moglie arrivarono in quei dintorni di Jasper, sul lago Sam Ray Burn, molti passi attraversavano il ponte di giunchi e tante case come la sua, di legno, col retone calato sulle acque e la baracca degli attrezzi, cingevano ad anello la loro piccola tenuta. Margie ricordava i passi sul legno e le farandole di bimbi fra le canne, reti d’anguille e sfrigolio di fuochi.
In quel tramonto, prima della corsa, le immagini si erano presentate alla memoria nitide, con i loro odori e colori.
Era tanto tempo che non ricordava.
Seduta sul vecchio vimini davanti al retone, ogni sera, le ore scivolavano lente nel buio e immobile attendeva. La sua vista si faceva grigia come i fumi di caldo che salivano dalle acque sporche, poi si spengeva in un sonno faticoso.
Ma quella sera i riverberi del sole rosso sui vetri della veranda la tenevano sveglia, le battevano caldi sulla fronte e sul petto e lei era costretta a strizzare gli occhi per l’abbaglio della luce. Forse quegli occhi miopi, così stretti a fessura, erano riusciti a mettere a fuoco qualcosa di molto distante. L’afa era spessa, si sarebbe potuta tagliare molle sotto una lama, e il sole le informicoliva la pelle. Avrebbe voluto spostare la poltrona nell’angolo d’ombra della stanza, ma Agathe, da basso, non poteva sentire il suo richiamo e lei, da sola, con le mani deformate dall’artrite, non ne era capace. Si abbandonò allora alla stanchezza greve che le intorpidiva le membra, chiuse gli occhi che bruciavano e seguì quella fuga di immagini interiori che aveva messo a fuoco da distanze indefinite. Sul petto il pizzicore della pelle era diventato un bruciore vivo. Ne assecondò la fiamma che le accendeva dentro sensi sopiti, emozioni spente.
Non ha mai rimpianto, in tutta la sua lunga vita, di avere lasciato la città, dove suonava il pianoforte in un complesso jazz, lei così giovane, per seguire il dottor Tony Forsyte, già con qualche capello argentato, che si ritirava nella condotta di Jasper, scegliendo la natura alla storia, le anguille e le folaghe alla carriera. Non lo ha mai rimpianto. Il suo pianoforte fu portato sopra uno zatterone e, due anni dopo, con Sammy, Sandy e Timoty, trombettisti nella banda che suonava sul ferry boat di linea, aveva formato un complesso locale, che era stato battezzato col nome di ‘Lago dorato’. Ma aveva anche imparato ad andare sulle barche basse e lunghe che spariscono nei canneti e si guidano con un remo breve, stando in ginocchio sul fondo. Tony teneva una jeep al di là del ponte e una barca sotto le tavole del retone, pronte per i suoi interventi nella condotta. Una vita calda, piena di umori, di amici del dottor Forsyte, uomini dal pelo rosso irlandese, che fumavano la pipa sulla veranda e giocavano a carte con Tony, uomini alti e neri, che arrivavano portando sulle spalle i figli più piccoli, con testoline irte di treccine lanose. Poi venne Anny, e poi Udo, e lei li educò al bagno nel lago e alle barche basse che scivolavano fra le canne, al ponte che trema sotto i piedi, a imbracciare il fucile e a tagliare le anguille sul marmo; li educò lei così, e intrecciava i capelli biondi ad Anny in treccioline setose e cadenti, ad Anny che giocava con Samantha nera dalle trecciòle forti e spinose.
La bocca le s’increspa in un sorriso che scopre nude gengive e il petto è agitato da respiri corti; come sogni sotto le palpebre chiuse, le immagini si succedono per dissolvenze. Il sole affoca ancora i vetri; deve essere trascorsa non più di mezz’ora, ma dentro una vita è riemersa e dopo tanto tempo sente che pulsa sotto la pelle, quella sua pelle raggrinzita che ha assecondato la deformazione artritica delle ossa.
Ha sofferto tanto, quattro anni di dolori nelle ossa intrise d’acqua, fatte porose, nei fasci di nervi che si stiravano e si stringevano, poi, più niente: ha rifiutato anche il dolore; la pelle come cartone, le ossa come sassi scomposti, che si posano a fondo valle, dopo aver rotolato una china. Più niente, assenza di ricordi, di sensazioni. Un’indifferenza atarattica aveva sigillato la sua espressione e il suo sguardo si era perso, sfocato nel vuoto. Udo allora portò la piccola suora, l’unica superstite di un troppo esiguo ordine religioso in cui le poche sorelle si erano tutte estinte, tranne Aghate, che presso la vecchia Margie continuava a vivere i suoi voti secondo la ‘regola’ da nessuno più riconosciuta.
Ora quello sguardo spento, rovesciato all’interno, ha trovato il suo fuoco, nitido, come nel cerchio di un mirino, e la vita è riemersa prepotente col suo dolore. Sente lacrime che le bagnano il viso e torna a sorridere, perché riaccogliere il dolore è un nuovo afflato alla vita che aveva perso.
Ora capisce chi é quel vecchio con la testa bianca, con la faccia nera, di tartaruga, che, appoggiato alla porta, batte sul vetro con la stampella e chiede alla piccola suora – Coma sta la vecchia Margie? – – bene, credo, non soffre, vuole vederla? – – no, non sa più chi sono, meglio così, non soffre, addio Aghate -: è Timoty!
Le canne crepitavano e i legni schiantavano in un polverio di scintille. Tony era lontano, nella condotta. Un’epidemia aveva attaccato il villaggio negro e da giorni Tony non aveva neppure il tempo di tornare a casa. Era l’unico dottore della contea, l’unico dottore fornito di medicinali che curava i figli di quei coltivatori.
Lei era sullo zatterone al lago, dove avevano piazzato gli strumenti e suonava con Sammy, Sandy e Timoty. Quando si accorsero dell’incendio, le fiamme, sul lato posteriore della casa, avevano già raggiunto la mensarda dove dormivano i bambini; le scale erano impraticabili. Timoty si arrampicò lungo le tubature di rame, raggiunse il tetto e ruppe i vetri della mansarda, prese Anny e Udo fra le braccia, ma non aveva altra scelta che gettarsi nel vuoto, parando il colpo ai bambini con il suo corpo. E’ lì che si troncò una gamba. Poi gli fu amputata.
Quell’incendio era doloso; un avvertimento per il dottor Forsyte, che prestava cure ai coltivatori negri e non aveva più risposto agli inviti e alle chiamate del senatore Young, sufficientemente sano e pasciuto, lui e la sua famiglia. Ma il giudice
Tory e la giuria popolare emisero una sentenza di non colpevolezza, perché non esistevano prove contro i quattro sbirri sguinzagliati nella notte dal senatore.
Ora riconosceva il vecchio, caro Timoty, e stasera, quando avesse sentito il colpetto della stampella sul vetro, si sarebbe affacciata alla veranda e lo avrebbe chiamato su, magari a suonare un pezzo, se aveva ancora il suo sax. Ma lei, avrebbe più potuto suonare, con quelle mani annodate e chiuse? Però le muoveva, sentiva che le muoveva sul vimini fragile della poltrona. Si appoggiò ai braccioli, li strinse e avvertì sotto la sua pressione il gemere della canna intrecciata, poi allargò le palme e rise: lei e Timoty avrebbero suonato, quella sera, come quando girava un poco le spalle dalla tastiera del pianoforte, faceva scorrere lo sguardo sulle trombe gialle sotto la luna e poi sulla testa reclinata dei bambini, addormentati al caldo senza vento.
Perché Udo non veniva mai a trovarla? Forse, quando fosse stato completato il ponte di cemento, avrebbe condotto anche la moglie e i figli, e lei, la vecchia Margie, avrebbe conosciuto i nipoti. O forse sarebbe andata lei, sì, a trovarlo, appena tramontato quel sole troppo acceso dietro l’orizzonte; gli avrebbe fatto una sorpresa.
Una cascata di note, grappoli sospesi sull’ultima striscia rossa che orlava le colline, la invasero con una solarità gialla di sax e le sue dita picchiettavano il vimini dei braccioli.
Fu allora che incominciò la corsa; era un passaggio faticoso, prima lento, poi rapido e leggero, oltre la palude e i canneti, verso quelle note del sax sospese nell’aria troppo calda, verso Timoty, Udo, oltre i vimini che avvolgono e frustano le gambe, che tenaci e flessibili trattengono. Ma si sentiva leggera, solo il cuore batteva sempre più forte e il respiro era un sibilo. Sapeva che ci sarebbero state le acque dorate che ingoiano.
Fu allora il morso dei cerbiatti feroci, lo stupore immobile del tempo davanti all’abisso.
– Il lago è a est, dove in queste regioni sorge il sole – diceva Tony – non aver paura, ci sono io, di qua –
– non ti vedo –
– perché il sole ti abbaglia. Io sono dentro il sole, di lì non mi puoi vedere; è come se la sua luce mi avesse ingoiato, vieni avanti! –
Margie gridò, immobile, come trattenuta alle spalle da un morso animale, davanti a sé, il lago; oltre quel passo, le acque profonde. Lei non sapeva nuotare e Tony voleva insegnarle, insegnarle a passare a est, diceva, chiamandola verso l’abbaglio del sole: – devi vincere l’attimo di annullamento totale, lasciarti andare, solo per un attimo le acque ti ingoieranno. E’ l’attimo di paura, l’abisso che precipita, l’ingorgo che strozza, ma è solo un attimo. La natura ci ha fatto per riemergere. Un attimo, poi le acque ti restitueranno alla luce! –
Margie, come da infinite distanze, vide gli occhi dorati di Tony e dette quell’ultimo strattone che scosse tutte le sue ossa rotte e la strappò dal morso del vimini marcito.
Un grido lungo e schiocchi sordi nelle orecchie, il viluppo buio delle acque e un’ascesa d’ali impazzite, poi si sfece impalpabile sulla superficie dorata, restituita alla luce.
Dicono che l’urlo della vecchia Margie fu sentito da molto lontano, ma Agathe dormiva profondamente e la sera era tanto calda.
Timoty era arrivato troppo tardi alla baracca di legno, la porta e la finestra di Agathe erano già chiuse. Allora non picchiò la spampella sul vetro. Era accaldato e un pò sbronzo. Con gli amici, al circolo, aveva suonato il sax, come ai vecchi tempi e ora, guardando i tronchi marci che galleggiavano ancorati alla secca, quello che restava della zattera della musica, si era lasciato vincere da una malinconia soffocante come l’aria. Piegato sugli scalini di legno della vecchia casa, aveva incominciato a suonare, nella sera accesa appena da un orlo rosso sulla collina e gli parve che aliti senza vento portassero note di pianoforte. Lo sapeva che era sbronzo, ma risentire le dita di Margie sulla tastiera lo fece piangere di tenerezza.
Poi, l’urlo delle folaghe fra le canne e frulli d’ali nella notte. Timoty si appoggiò alla stampella e scomparve nel buio pesante.
Ancora per poco avrebbe dovuto sentire il peso del suo corpo sotto l’ascella, sì, forse, proprio per poco; era rimasto lui e la vecchia Margie, erano già andati tutti. Mentre tastava il terreno fra le canne, con la testa più leggera e il corpo più pesante del solito, vide un’ombra più chiara dalla parte del lago, che per un momento gli ricordò la massa di capelli ramati di Margie, tanto, tanto tempo fà. Gli scherzi dell’alcool!
Anche Udo, a molti chilometri di distanza, mentre faceva il giro d’ispezione del recinto di confine, fu costretto ad essecondare la spinta del cane verso il cancello: – Black, perché mi porti per di qua, ci siamo passati prima – .
Fu agli incerti bagliori della luna che vide qualcosa di indefinito e non seppe mai spiegarsi perché, con un tonfo al cuore, quasi gridò – Mamma! -: una massa di capelli ramati, il breve abbaglio di un ricordo e il rimorso di crudeli lontananze.
Avevano costruito l’autostrada e dal ponte il barbaglio dei fari creava nella notte illusioni di luce.
Dicono che l’urlo della vecchia Margie fu sentito da molto lontano, ma Agathe mai aveva dormito così tranquillamente e quando al mattino andò nella stanza della vecchia, la trovò distesa in terra, ma leggera, come un corpo riportato in superficie dalle acque, e gli occhi come persi nella luce.
E’ tempo di lasciare questo ciclo di vite
COME UN CAMMELLO IN UNA GRONDAIA
L’OMBRA DELLA LUCE Franco Battiato
Un giro di vite intense descritto con rara poesia, sospeso fra realtà e premonizioni, bella anche l’ambientazione diversa in un sud di un’America di canneti e paludi.