Premio Racconti nella Rete 2014 “Mille lire” di Patrizia Napoleone
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014“Non dovremmo insegnare a risparmiare:
dovremmo abituare a spendere”
LE PICCOLE VIRTU’
N. Ginzburg
Sul viale frusciavano foglie ancora verdi, mulinate dal vento, quel libeccio livornese che ti schiaffeggia allegramente e gonfia i tendoni sopra le vetrine, solleva le tovaglie sui tavoli rotondi dei bar.
Davo la mano a papà, dimessa, silenziosa com’ero io, bambina del dopoguerra, nata nell’amarezza di tante illusioni cadute dei miei genitori, testimone di tanti silenzi e di tante parole urlate con rabbia.
Mi piaceva uscire con papà; vagavamo senza mèta e lui mi raccontava i suoi sogni con la malinconia svagata di chi disegna nel pensiero progetti irrealizzabili e la precisione realistica, la lucida fiducia di chi crede nei miracoli.
L’aria fresca faceva tremare i nostri abiti estivi e mi sentivo tranquilla in quel severo ritegno che mi dava un’aria così poco bambina e mi staccava dalle discussioni di tutti i giorni fra mio padre e mia madre, dove facevano ridda parole come ” pagare … cambiali … disoccupato ” .
– Guarda! Gurda cosa vola lassù … guarda! – .
Lungo la parete del palazzo che fiancheggiava il viale scivolava, piccola e leggera, una banconota. Una donna al quarto piano sbatteva una giacca rovesciandola energicamente. Restammo un attimo col naso all’insù, quasi si attendesse il prodigio: farfalle di banconote che si staccassero da quelle tasche rovesciate e scendessero piane ai nostri piedi.
Invece se ne posò soltanto una. – Mille lire – disse mio padre raccogliendola da terra e intascandola furtivamente.
Facemmo un altro tratto di strada. – Mille lire … che tu ce l’abbia o che tu le spenda, sei sempre il solito povero – ragionò ad alta voce papà, e poi – hai fame? – disse dopo un breve silenzio.
Ero una bambina di grande appetito; mangiavo volentieri e di tutto. Ricordo le grosse fette di pane di campagna strusciate col pomodoro maturo o imbevute di olio, le olive verdi con la midolla, i fagioli con l’aringa; l’unica mia ‘sofisticatezza’ era il tè; mentre per la casa si spandeva quell’odore appiccicoso di latte dove galleggiavano nelle tazze macchie untuose di caffè d’orzo, io bevevo il tè al limone. Ma la pietanza che mi riempiva di soddisfazione era la bistecca, che noi conoscevamo in versione povera, ‘la fetta’, più sottile e senza la stecca d’osso.
In quel periodo ‘la fetta’ non riempiva frequentemente i nostri piatti, che mio padre credo ritenesse sempre insufficienti per me. Un pietoso senso di colpa per tutto quello che avrebbe voluto darci e che non avevamo, per la malinconia che forse mi leggeva negli occhi, lo doveva spingere a realizzare in cibo la compensazione, e quello di cui soffriva di più era il non vedermi mangiare in abbondanza e secondo i miei gusti. In fonndo alla via dove abitavamo, dignitosa via borghese testimone di dignitose miserie nei palazzetti ingrigiti dal tempo, si aprivano i ‘borghi’, straducce popolari chiassose, piene di negozietti, dove il sabato andavo con la mamma a fare la spesa. C’era di tutto, accanto al macellaio, al norcino, al venditore di ammollati, c’era il rilegatore che dava i libri ‘a nolo’, vecchie edizioni fine ottocento che mia madre leggeva con avidità, e scambiava anche giornaletti con foto di attori celebri, mercato da me largamente trattato. C’era il venditore di costumi per il carnevale, il merciaio, e una mescita di vini, stretta e lunga, dove si preparava anche qualche piatto svelto.
Il proprietario era simile a una botticella, tondo, piccolo e lento nei movimenti. Quando mio padre raggranellava qualche cento lire di cui non doveva rendere conto a mamma, metodica ordinatrice di un marito distratto, e riteneva che la tavola casalinga fosse stata piuttosto magra, mi portava in quella angusta bottega a fare merenda: lui un bicchieruccio di ‘bianco’ e io ‘la fetta’ .
Con mille lire in tasca e il proposito di spendercele ci sentivamo ricchi; traversammo allegramente le strade larghe e grigie di Livorno; ci fermammo a un mercatino a gironzolare tra un banco e l’altro; poi gocce di pioggia grosse e rade incominciarono a picchiare sui tendoni che riparavano le merci; traversammo di corsa la piazza e ci rifugiammo in una cartolibreria. Il carillon alla porta che immetteva in un negozio lucido di vetri, il tappeto ‘moquette’ che ovattava i nostri passi, il ‘buongiorno’ della commessa mi facevano sentire in un luogo di riguardo; subito aspirai l’odore di carta nuova e avvertii una sensazione di benessere. Amavo molto i libri e tutto ciò che si riferiva ad essi, perciò biblioteche, librerie, anche la scuola; prima di quel che c’era scritto, amavo la loro materialità, il loro essere cose, le copertine lucide, le illustrazioni, soprattutto l’odore, quell’odore acre e patinato che esce dalle pagine di un libro nuovo, ancora scricchiolante di colla, e con esso, ogni odore che mi ricordasse la consuetudine con i libri: l’odore dell’inchiostro o del legno delle matite, delle pagine bianche dei quaderni. Non per questo tenevo con cura i miei libri, almeno nel senso consueto della parola. Il rapporto fisico che avevo con essi mi spingeva a considerarli cose da consumare, proprio come il cibo; perciò più amavo un libro, più questo era segnato ai margini, rozzamente sottolineato, arricciato alle punte, insomma ‘usato’.
Già i miei occhi scivolavano sulle colonne di costole lucide ben allineate negli scomparti del negozio, quando mio padre disse – scegli quello che vuoi – .
Presi due libri dalla copertina rigida, le pagine un pò ruvide, un quaderno, un temperalapis, consegnai tutto a mio padre che, prima di portarli al banco di vendita, consultò i prezzi sulle copertine e fece un veloce conto.
– E’ ora di mangiare – disse allegramente quando uscimmo – prima di spendere tutto – .
La pioggia aveva lavato il cielo: quando arrivammo al nostro negozietto, un tardo sole radente segnava l’ora della merenda.
‘La fetta’, arricciolata un poco ai bordi listati di sottile grasso, sguazzava nel suo sughetto. Mangiavo lentamente, gustando ogni boccone; guardavo i miei libri disposti in vista davanti a me e il piccolo ‘bianco’ di mio padre, che, su quel tavolo vicino alla porta, carpiva, col vetro grosso del bicchiere, l’ultimo raggio di sole.
– E a mamma cosa diremo delle mille lire? – feci continuando a mangiare.
Mio padre raccolse in mazzo quei nastri sonanti che si usava mettere all’ingresso dei negozi, guardò i nuvoloni bianchi che pareva lentamente viaggiassero ed esclamò, quasi commosso – Diremo che sono caduti dal cielo! – .
“Il bambino che tace aveva gli occhi chiusi
e niente lo distingueva dagli altri bambini”
YANN ANDREAS STEINER
M. Duras
Salve da Luigi,
Una storia semplice quanto intensa “Mille lire” . Sì, bastono mille lire, come cantavano un tempo, perchè un padre abbiamo un moto d’orgoglio, riscopra una complicità affettiva con la figlia. Alle volte, per godersi i piccoli momenti di felicità, bisogna imparare a tacere e a spendere, o no?
Cartoline da un dopoguerra che stempera l’amaro con le piccole semplice sorprese del quotidiano. Scena di una città di provincia in lenta ripresa che rimanda alla Roma già vista in Ladri di biciclette. Il rapporto padre figlia si nutre di gesti oggi spariti tuttavia autentici, malinconici e perduti nei ricordi.