Premio Racconti nella Rete 2014 “Stellina è morta” di Patrizia Napoleone
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014Stellina è morta
La ronda sotto il lampione, tutte le sere, per quaranta notti. La fiaba racconta che solo alla quarantesima notte, lunga e fredda, con la pioggia sferzante, la ragazza aprì la finestra. L’innamorato però, bagnato fino alle ossa, se ne era andato sette minuti prima della mezzanotte e non vide la finestra aprirsi. Così finì il suo amore. Quarantuno furono invece le sue notti e già l’ultima albeggiava quando se ne andò. Il lampione diventava ormai fioco per l’ accendersi della luce naturale. Stellina riconosceva il suono dei suoi passi, abbaiava. Lo fece per una decina di giorni, poi smise. Forse, pensava lui, avrà continuato a scodinzolare fino a quando, delusa, sarà andata a rifugiarsi nel solito angolo del divano.
Sotto il lampione cicche di sigarette, la bocca amara, la voglia di caffè al rumore della saracinesca del bar, che Armando sollevava per incominciare le pulizie.
Ci si tuffò appena vide la luce accesa nel locale.
“Viene sempre?”
Armando fece un’espressione imbarazzata. Avrebbe preferito non rispondere, ma così è.
“Si”.
Pronunciò a testa bassa.
“Sola?”
Questa volta non rispose e gli servì un caffè lungo caldo.
“Mangia qualcosa”.
Gli porse una brioche che aveva intiepidito nel fornetto.
“Sei giovane. Sai quante volte ti capiterà di innamorarti?”
Intanto puliva il bancone.
“Ce ne sono di belle ragazze!”
Continuò voltandogli le spalle per riordinare le bottiglie sui ripiani di vetro.
Quando si girò, lui era già uscito.
Traversò la piazzetta. Suonò il campanello. Il violaceo dell’alba rendeva livido quel giorno nascente. Guardò su. Si guardò intorno. Nessuno. Un salto e raggiunse il terrazzino del piano rialzato. Era un’alba torrida. Giovanna era calda la notte. Un calore animale; odore acre che violentava i suoi sensi. Lui sapeva che avrebbe trovato la finestra aperta. Giovanna non aveva paura dei ladri. Era tranquilla Giovanna, fiduciosa, sicura. Non aveva paura di nessuno. Le persiane erano dischiuse. Tolse la catenella ed entrò. Giovanna dormiva. La camicia le si era arrotolata sopra la vita, le gambe dischiuse, il pube bruno che pareva alitare col respiro del ventre. Restò immobile a contemplarla, dai capelli appiccicati sulla fronte, a formare riccioli scomposti, alla linea dei seni fino a quello scoperto nido di piacere che da quaranta più un giorno lo tormentava. Ossessione, spasimo, angoscia di perdita, rabbia accecante, quando si ritrovava a masturbarsi con foga pensando al suo pube offerto come frutto spolpato dal nocciolo. Incominciò a sudare. Una calma improbabile lo invase come se quello sguardo su lei si eternasse fino al sollievo del piacere. Fu Stellina a rompere l’incanto. Dal fondo del letto dove era solita accucciarsi incominciò a guaire di gioia, un mugolio sommesso che non avrebbe svegliato Giovanna, se la barboncina non avesse saltellato sul letto per andargli incontro. Giovanna aprì gli occhi e fu come se lo vedesse quando le portava il caffè. Lui di solito si svegliava prima.
“ Fino a tanto?”
Gli chiese sollevandosi sul gomito.
“Perché non mi porti il caffè?”
Lui sentì che nel dirlo la voce le si incrinava. Era commossa. Andò in cucina seguito da Stellina. L’aroma del caffè ovattò il piccolo appartamento.
“Ti ricordi che la nostra storia è finita?”
Disse lei.
“Da quarantun giorni”.
Aggiunse lui.
“Non ho tenuto il conto, ma è finita”.
“Non è vero. E’ stato solo un incubo. Una notte troppo lunga. Lo disse calmo, carezzandole i capelli e con sorpresa vide lacrime che scendevano sul volto di lei.
“Ti ho lasciato, Marco. Per sempre. Non c’era via di uscita per me. L’ho dovuta trovare così”.
“ Così come?”
“Apri l’armadio”.
Come un automa lui obbedì e trovò, confusi con i vestiti di lei, qualche camicia e pantalone da uomo.
Rosso.
Rabbia.
La mascella gli scricchiolò contraendosi.
“Perché?”
“Non avresti capito in nessun altro modo”.
Rispose Giovanna restando tranquilla.
“Troppa gelosia, troppi litigi. Mi controllavi su tutto e io mi sentivo un animale in gabbia. Troppe rinunce, inutili, incomprensibili”.
“Io non ti perderò. Stai certa. Non ti lascerò andare”.
“Ora non è più possibile Marco. Non è più possibile. Quando ti confessai che sarei stata meglio con un altro uomo, meno ossessionato dalla paura di essere abbandonato, quest’altro c’era già. Credevo che tu avessi capito il messaggio. Per me era già tutto finito. Ero tristissima, perché ti ho amato e ti voglio ancora bene. Ma è tutto finito. Ho scelto me stessa. Se restavamo insieme ci saremo scannati, prima o poi”.
Come se non si riferissero a lui, ascoltò queste parole da spettatore di una commedia falsa. Era indifferente, ma quando udì quel “Troia!” che gli uscì dalla bocca, la rabbia gli sollevò i peli sulla pelle e sentì un brivido che gli percorse la testa. Giovanna chinò il volto. Piangeva sommessa.
“Non lo dire, non lo dire! Aspetto un bambino”.
Si alzò e raggiunse la cucina, con quella camicia corta che le lasciava scoperto il sedere, una grande rosata albicocca.
“Mi hai tradito!”
Urlò lui ringhiando.
“Non è vero!”
Questa volta urlava anche Giovanna.
“Ti ho lasciato, ti ho spiegato il perché e quarantuno giorni fa, tu li hai anche contati, quando ti ho detto di non avvicinarti più a me, ti ho anche confessato che stavo frequentando un altro. Un altro, hai capito? Perché ora sei sorpreso?”
Lui l’aveva raggiunta.
“Ho anche finto di non sentirti tutte le notti sotto la finestra. Ora non sono più sola. Non puoi entrare in casa mia come un ladro. Devo difendermi. Mi dispiace, credi, dovermi difendere da te, ma la mia condizione vuole rispetto. Devo avere rispetto di me stessa e se continui a molestarmi ti denuncio, sì, ti denuncio per stalking”.
Non respirava più. Si fermò, riprese fiato. Quando il battito del cuore ritornò al ritmo normale “Vattene Marco”disse a bassa voce.
“Vattene, ti prego”.
Quel calore che gli era salito alla testa sembrò sprofondargli dentro la pancia. Solo quella vorticava, ma la testa era diventata lucida, fredda. Gli occhi fotografarono tutta la stanza, fino all’ultimo dettaglio: Stellina che scodinzolava in mezzo a loro.
L’afferrò. Questa me la riprendo io. Te la regalai per amore e te la porto via per odio. Rideva Marco, con una smorfia di sconcio sberleffo. Giovanna lo guardò terrorizzata.
“Stellina no! Mai! E’ mia!”
Più rapida delle sue stesse parole riuscì ad afferrare la zampa posteriore della cagnolina che guaiva sgomenta.
“Mai! Fattelo il tuo cucciolo. Puttana!”
“Lasciala! Lei non c’entra! Lasciala ti ho detto!”
“Provati a tirare ancora e io la spezzo”.
Giovanna si immobilizzò quando sentì uno scricchiolio atroce e un guaito secco, sordo. La zampa che stringeva nella mano si afflosciò come un fiore reciso. Schiumò di orrore e afferrò il coltello sul tavolo di cucina, quello accanto al pane.
“Maledetto assassino!”
Urlò verso di lui, tenendo il coltello alto, pronta a difendersi, perché ora aveva paura, ma inciampò nel corpo scaprettato di Stellina che lui aveva lasciato cadere.
Lui raccolse il coltello.
“Puttana” rantolò “Mie, siete mie! Cagna lei, cagna tu!”
Buio.
Lampi al quarzo incandescente.
Amnesia rossa.
L’automobile sfrecciava lungo il viale. Andava impazzita e dimenticata. Lui non sapeva di guidare, fuggiva da se stesso. Ma non sapeva dove e perché. Una sirena sibilò dietro di lui, poi un lampeggiare azzurro lo abbagliò. Solo allora si accorse che andava a duecentoventi all’ora e il motore fumava. Frenò secco, l’automobile s’impennò ruotando a U sull’asfalto. La Polizia lo circondò e due agenti si avvicinarono.
“E’ ubriaco fradicio”.
Senti dire come se la voce venisse da lontano.
“Ma che ha fatto?”Gli chiesero “E’ insanguinato. Si è ferito?”
“Stellina è morta”. Disse.
“Chi è? Sua figlia? Parli, siamo qui anche per aiutarla!”
“E’ una cagna, Stellina. E’ morta”.
I poliziotti si guardarono, passandosi un muto messaggio.
“Ci porti sul posto”.
Docile entrò nell’automobile della Polizia e guidò gli agenti fino all’appartamento.
“Non ho le chiavi, che volete, nella fretta. Entriamo dalla terrazza”.
Prima salì lui, dalla camera passò in cucina e inaspettatamente sentì che un poliziotto lo spinse a terra con un ginocchio puntato in mezzo alle spalle. Gli rovesciarono le braccia all’indietro e avvertì il colpo secco delle manette. L’altro gli puntò una pistola vicino alla testa.
“Chiama la Centrale”disse al collega “ e la Scientifica”.
I capelli neri di Giovanna erano zuppi di sangue. Sotto il suo petto spuntava il muso di un barboncino con occhi vitrei spalancati.
“L’ho ammazzata io, Stellina. Mi dispiace. A Giovanna regalerò un altro cucciolo. Così faremo la pace”.
Un colpo di ginocchio più energico sulle spalle lo fece vomitare. Poi perse i sensi.
Stretta e amara attualità, attraverso una scrittura intrigante e gentile veicola sprazzi di lucida follia che evidenziano l’alienazione dei sentimenti di una quotidiantità al limite. Molto piaciuto.