Premio Racconti nella Rete 2014 “Il pedofilo” di Fulvia Rizonico
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014Aveva dieci anni e sconvolta dalla paura aveva bussato alla porta dei vicini, sua madre era al lavoro e suo padre in un attacco d’ira aveva sferrato due pugni ai vetri di una finestra della loro casa e ora il braccio destro dell’uomo sanguinava copiosamente. Un taglio netto aveva reciso il tendine del polso.
– Vi prego aiutatemi!- aveva urlato.
La porta si era aperta. Ma i vicini non c’erano. Avevano traslocato da poco e due operai stavano imbiancando le pareti.
Mentre uno dei due si precipitava a soccorrere il padre l’altro l’aveva abbracciata, tenuta stretta e baciata sulla bocca. Lei tremava.
Lui le accarezzò il viso. Scappare, diceva il cervello. Ma le gambe non ricevevano il comando.
-Basta così –deve aver pensato il tipo, perché la lasciò lì da sola e si allontanò raggiungendo anche lui il padre della ragazzina.
Un ambulanza arrivò poco dopo.
Squillò il telefono nella casa della ragazzina. L’operaio che l’aveva baciata e che aveva seguito tutte le operazioni degli operatori sanitari alzò la cornetta e rispose prontamente, come fosse a casa sua –Pronto? Si, signora, no, no non si preoccupi sono l’operaio che sta ripulendo la casa dei vicini, sono corso in aiuto qui a casa sua, suo marito ha avuto un incidente… si è tagliato. No, no, stia tranquilla ora lo stanno portando all’ospedale è solo un taglio profondo ma niente di grave, la bambina? Si, si è qui con me.
Due grosse lacrime iniziarono a scivolare sulle guance della ragazzina.
La madre arrivò poco dopo e trovò la ragazzina seduta in cucina che guardava i vetri appuntiti della finestra, le schegge a terra e una pentola sporca nell’acquaio.
– Dov’è ? – disse la madre – Dov’è l’operaio? Voglio ringraziarlo, è stato così gentile.-
– Non c’è- disse la ragazzina- E’ andato via.-
-Porco cane!- imprecò la madre – Volevo proprio ringraziarlo, va beh, lo farò domani.-
Si mise a raccogliere le schegge di vetro per terra, facendo attenzione a non tagliarsi, prese un vecchio giornale e incartò con cura i pezzi di vetro.
I giorni passarono e suo padre venne dimesso dall’ospedale.
Suo padre, che aveva compiuto quaranta anni da poco, non rinunciava mai al sonnellino pomeridiano; era solito bere svariati bicchieri vino consumando il pranzo e questo lo stordiva quel tanto che gli permetteva di non pensare ai suoi guai e di farsi un bel sonno. Quando si svegliava era quasi ora di cena e ricominciava a bere. Sosteneva con energia che lui il vino lo reggeva benissimo e che invece c’era gente che con un solo bicchiere era già ubriaca. Ognuno aveva la sua soglia e lui conosceva benissimo la sua.
La famiglia era abituata agli attacchi d’ira dell’uomo che si manifestavano con ciclicità lunare quasi che si avesse a che fare con un licantropo. Bastava che le cose non andassero come lui aveva previsto che in lui si scatenava un dolore profondo che non riusciva a contenere, un dolore che esplodeva in attacchi di rabbia violenti. Le mascelle cominciavano a muoversi con un ritmo lento e inesorabile, nella bocca i denti si toccavano tra loro con forza e il muscoli facciali ne rimandavano il movimento, lo sguardo perso nel vuoto stava a significare che nel giro di poco avrebbe attaccato. Fortunatamente se la prendeva solo con le superfici di legno e di vetro come per esempio sportelli, finestre o piani di cristallo, tutto ciò che con un pugno poteva andare in frantumi o essere sfondato per sempre.
Cosa era successo quel giorno, per scatenare la sua rabbia?
Forse la luna era piena? Forse no? Questo non è un dato in nostro possesso però sappiamo che nei mesi precedenti aveva iniziato una relazione con una ragazza appena diciottenne che gli aveva fatto perdere la testa, lo faceva impazzire sia per quanto era brava nel provocarlo che per il fatto che non lo voleva intorno se non per il tempo per stare insieme, lui e lei da soli.
Lui si diceva innamorato e perduto per sempre se lei lo avesse lasciato.
Tutti lo sapevano, anche i figli, anche la moglie, ma in giro si diceva che gli sarebbe passata, che era come una malattia esantematica: prima la febbre alta, poi l’eruzione cutanea, poi la convalescenza e infine la guarigione completa, e che i quaranta anni di un uomo sono spesso segnati da un innamoramento impossibile.
Così la vita della famiglia era legata all’umore paterno che a sua volta era dipendente dalla ragazza e da se stesso; il tutto, in un groviglio di situazioni difficili da gestire per ognuno dei componenti.
Quel fatidico giorno il padre era stato mollato per l’ennesima volta della diciottenne con una scenata pazzesca cui aveva assistito buona parte del quartiere perché era avvenuta davanti al bar più frequentato della zona.
Lui era tornato a casa con lo sguardo perso nel vuoto e si era scolato tre o quattro bicchieri di vino senza mangiare niente, si era addormentato sul divano con la testa reclinata all’indietro, le braccia incrociate sul petto e le gambe allungate in avanti, completamente inerme dormiva russando rumorosamente, quando improvvisamente si era alzato e si era diretto verso la cucina, aveva guardato per alcuni attimi i vetri della finestra, un metro e ottanta di lastra lucente e, aveva sferrato quei due energici pugni.
Qualche giorno dopo …
La ragazzina tornava da scuola e dopo essere scesa dall’autobus si era avviata con passi veloci verso casa. La portiera dello stabile, una signora cicciona sempre arrabbiata con tutti ma soprattutto con i ragazzini, stava chiudendo il gabbiotto della portineria con un grosso mazzo di chiavi tintinnante, – Ciao Rossè – disse alla ragazzina senza guardarla in faccia.
Rossella non rispose e si diresse verso l’ascensore.
-Tutti uguali, tutti maleducati, sti’ ragazzini.- Bofonchiò la portiera dirigendosi verso la porta di casa da dove veniva un puzzo maleodorante di cibo e di sporcizia.
Rossella non amava prendere l’ascensore e cominciò a salire le scale con grandi balzi che le permettevano di salire tre o quattro gradini per volta. Abitava al quarto piano e fece gli ultimi gradini con il fiatone. Sul pianerottolo si trovò davanti l’operaio.
La porta di casa sua era chiusa mentre quella dei vicini era semiaperta, lei guardò le due porte.
-Mi dispiace per te, ma Franco non è venuto a lavorare oggi.- disse l’ operaio quasi ridendo. Franco era l’altro operaio che si era prodigato per suo padre il giorno dell’incidente.
Lei allungò la mano verso il campanello di casa sua e lo spinse con energia, suonò tre, quattro volte e il suono si perse nella casa silenziosa.
A quel punto lui l’afferrò per un braccio, lo rigirò nella sua mano fino a farle ruotare tutto il corpo e la spinse dentro l’appartamento.
Nella casa l’odore di colla e di vernice si fondevano insieme. Tutto pulito. Tutto in penombra.
Lui la sospinse nel salone vuoto e la fece inginocchiare .
-Brava, brava- le diceva, ansimando sempre di più. Tutto si fermò per pochi attimi. Pochi sporchi attimi in cui lui le stava solo vicino, senza toccarla.
Lei non pianse, non gridò.
-Brava, sei stata proprio brava, mi devi stare sempre così vicino. Ora vai, stai tranquilla non dirò niente a nessuno. Vai, dai vai.-
Rossella se ne andò, arrivò sul pianerottolo e prese le chiavi di casa dalla cartella rimasta a terra, aprì la porta ed entrò. In casa c’era suo padre che dormiva, da un orecchio non ci sentiva per niente e se dormiva con l’orecchio buono sul cuscino, non sentiva proprio nulla. Infatti non aveva sentito i suoni del campanello che Rossella ripetutamente aveva suonato.
Sdraiato di lato russava, il braccio destro ancora fasciato. Avrebbe voluto chiamarlo, dirgli di andare di là a massacrare quell’uomo. Se lo immaginava suo padre che lo prendeva a pugni, se lo immaginava l’operaio ricoperto di sangue, con il naso spappolato, gli occhi gonfi di sangue e quando finalmente non fosse stato più in grado di parlare e di muoversi sarebbe arrivata lei e con un coltello lo avrebbe ucciso, con un colpo netto al cuore.
Ma suo padre dormiva.
I lavori nella casa dei vicini procedevano e l’operaio andava tutti i giorni nel pomeriggio a trovare sua madre che gentilmente gli offriva il caffè. In fondo era stato lui insieme all’altro operaio a chiamare l’ambulanza e aiutare la ragazzina. Seduti in cucina parlavano, poi la donna si alzava, preparava la miscela di caffè con la moca e lo serviva nei bicchieri di vetro. Era alta e formosa con i capelli corvini che le ricadevano sulle spalle che spesso teneva legati con un fermaglio lasciando che alcune ciocche libere le incorniciassero il volto. Il viso tondo e i lineamenti lineari la facevano sembrare più giovane della sua età, ma il suo sguardo era triste e malinconico.
Rideva spesso con l’operaio che la corteggiava facendogli dei discreti complimenti.
Rossella non entrava in cucina quando i due prendevano il caffè, ma la mamma a volte la chiamava
per averla vicina così da rendere l’incontro meno ambiguo. Lei si sedeva accanto alla madre ma aveva difficoltà a stare ferma, si agitava sulla sedia come ci fossero degli spilli pungenti.
La mamma, alla fine, la sgridava dicendole: -Possibile, non riesci proprio a star ferma neanche un minuto!- Lui aspettava che la donna si alzasse per lavare i bicchieri e cominciava a mandare baci alla ragazzina allungando le labbra … Scappare, diceva il cervello.
I giorni passavano e i lavori nella casa accanto progredivano e presto sarebbero finiti. La ragazzina aveva una bici e il pomeriggio dopo aver fatto i compiti scendeva in cortile con la sua bicicletta. Si divertiva a modificare le andature, a volte andava lentamente poi accelerava di colpo per fare pochi metri a perdifiato. Mentre era li intenta nel suo gioco qualcuno la prese per le spalle, lei non cercò di divincolarsi ma si girò per vedere chi era.
Suo fratello, più grande di lei di undici anni era lì, con uno zaino sulle spalle. I capelli lunghi e la barba scura. Aveva un viso giovane e sorridente. Era tornato. Suo fratello era tornato. L’unico al quale avrebbe raccontato “quella cosa”, l’unico che l’avrebbe capita, l’unico che l’avrebbe difesa e protetta. La ragazzina velocemente scese dalla bici e abbracciò il fratello che la sollevò da terra facendogli fare una piroetta.
– I love you baby – disse lui. Era stato per qualche mese in Inghilterra e ora con quella frase voleva rimarcare che veniva da terre straniere.
– Dai, andiamo, saliamo a casa- disse lui mentre la ragazzina recuperava la bici abbandonata a terra.
Lasciò la bici nell’androne del palazzo, la portiera sicuramente avrebbe protestato ma lei era capace di non sentirla, l’avrebbe lasciata parlare e bofonchiare da sola come sempre. Il fratello spinse il pulsante di chiamata dell’ascensore e lei iniziò a salire di corsa le scale Era una gara tra l’abilità motoria e la tecnologia. Tra l’energia di una ragazzina di dieci anni e un ascensore. Arrivò prima lei con il fiatone … l’operaio era li che l’aspettava sul pianerottolo, sorrideva contento. Lei rimase ferma, lui si avvicinò e le prese il polso per trascinarla in casa quando la porta dell’ascensore si aprì.
Ah, questo finale aperto fa spaziare di molto l’immaginazione ! Mi è piaciuto il tuo racconto!
Il racconto è interessante, senza retorica, riesce ad inquadrare, in poche battute, tutta la drammaticità dell’argomento.
Mi piace scrivere. Sono contenta che vi è piciuto il mio racconto.
Grazie.
Fulvia Rizonico