Premio Racconti nella Rete 2014 “Laura da Pesaro” di Luciano Filippo Santaniello
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014“Uno, due, tre, quattro…” Giulio Laterra era in montagna da cinque giorni e anche se per i compiti delle vacanze doveva fare tutta matematica, era felice, perché il meglio doveva ancora arrivare. “Cinque, sei, sette, otto…” Rivolto verso il muro de I Larici con la fronte appoggiata al braccio, esaminò gli scarponcini da trekking con la scritta Gore-Tex su entrambi i lati. In un anno era passato dal 37 al 39 e pensò che se i piedi gli continuavano a crescere a quella velocità avrebbe mandato fallito suo padre, che quando aveva chiesto al commesso il prezzo delle scarpe, per poco non gli era venuto un coccolone. Gliel’aveva letto in faccia. Però se costavano più dell’abbonamento mensile al corso di judo un motivo doveva esserci. Di sicuro la Gore-Tex era un’ottima marca. “Nove, dieci, undici, dodici…” Mosse le dita dei piedi dentro gli scarponcini e decise che avrebbe fatto attenzione a non ridurli come quegli altri, che non erano della Gore-Tex e sempre inzaccherati di fango e rigati per via delle camminate nei boschi e sulle rocce appuntite. “Tredici, quattordici, quindici…” Quel giorno suo padre aveva deciso che non avrebbero fatto nessuna escursione, perché già di prima mattina grosse nuvole avvolgevano le cime delle Dolomiti e l’unico pezzo di montagna che faceva capolino era la punta del Sasso Rosso. L’aria si era rinfrescata e Giulio, su consiglio della madre, si era legato il K-Way alla vita. Le maniche rosse gli penzolavano davanti mentre contava ad alta voce. “Sedici, diciassette, diciotto…” Giocare a nascondino a Folgarida, dove da diversi anni affittavano una mansarda per le settimane centrali di agosto, sarebbe stato più fico se gli altri non avessero scelto sempre gli stessi posti e potevi tanarli senza bisogno di andarli a cercare. Solo Laura aveva fantasia. Una volta era rimasta nascosta per quaranta minuti e quando era riapparsa era piena di ragnatele e foglie secche. Non aveva mai detto dove s’era andata a cacciare. Per questo, e non solo perché aveva lasciato le cose in sospeso, non vedeva l’ora che arrivasse. “Diciannove, venti, ventuno…” Fabio, il figlio dei Gaucci, si era di sicuro nascosto in garage, quindi bastava arrivare alla rampa d’accesso e sbirciare sotto le macchine per beccarlo tutto spiaccicato tra il muro e la Jeep targata Bologna dei suoi genitori. Riccardo Gasparini, di Modena, amava i pianerottoli degli ultimi piani perché offrivano la visuale migliore, ma se aspettavi qualche secondo davanti al sottoscala con lo sguardo all’insù prima o poi vedevi spuntare, rapida come quelle teste di talpa del gioco dove devi prenderle a martellate, una matassa di ricci sotto cui saetavano due occhi allarmati. Beatrice e Carlotta erano sorelle, venivano da Parma, e da quella volta che la madre aveva avuto una crisi isterica perché aveva scoperto che si erano nascoste nel bosco sopra la strada che collega Dimaro a Madonna di Campiglio, sceglievano solo nascondigli banali, tipo accucciate dietro un pino o nei sottoscala più vicini. Elio Paratore invece era di Faenza e una volta su tre cercava di fregarti restando immobile alle tue spalle mentre contavi. “Elio lo so che sei dietro di me. Ventidue, ventitré, ventiquattro… ” “Non ci credo, come cazzo hai fatto?” Elio Paratore diceva anche un sacco di parolacce. “Venticinque, ventisei, ventisette… Sento che respiri” disse Giulio Laterra senza smettere di contare. “Ventotto, ventinove, trenta. Chi c’è c’è, chi non c’è non c’è. Tana per Elio.” Batté una mano sul muro del residence e si girò verso di lui. Elio aveva le gambe da calciatore. La carnagione olivastra e il naso schiacciato gli conferivano un non so che di scimmiesco. “Sul serio senti che respiro?” Aveva la faccia di chi ha appena preso una nota sul registro. “Sì, e vedevo un pezzo d’ombra sul muro.” Giulio si scostò dalla tana e dedicò un’occhiata agli scarponcini di Elio. Erano Gore-Tex anch’essi e si chiese se fossero costati come i suoi. Andò verso il garage. “Se ti va ti dico da che parte sono andati” fece Elio, seguendolo. “Non serve, già lo so.” Se c’era una cosa che Giulio Laterra non sopportava erano quelli che, dopo essere stati tanati, sentivano il bisogno di farti compagnia. “Mio padre ieri è andato a funghi” disse Elio. Giulio lo guardò senza commentare. “Dice che ha trovato un posto scendendo dall’Albasini dove ancora non è passato nessuno ed è pieno di porcini e mazze di tamburo. Ieri ho visto il cestino, ho provato a sollevarlo e quasi non ce l’ho fatta. C’era pure qualche russola.” “Russula.” “Come?” “Si dice russula, non russola.” Giulio si fermò davanti a una palazzina e guardò in su. “Lo sai come fa a capire se sono velenosi o commestibili? Perché le russole sono di due tipi: quelle buone e quelle no. Mio padre ne assaggia un pezzetto. Se pizzica vuol dire che il bastardo è velenoso, allora lo sputa, se non pizzica vuol dire che è buono e lo rimette nel cestino.” Giulio continuò a fissare la balaustra dell’ultimo piano. “Non è pericoloso assaggiare funghi in quel modo?” “Mio padre sa come si fa, però mia madre glielo dice sempre che prima o poi lo porteranno via in ambulanza.” “Finora non gli è mai capitato di buttare la russula buona e mettere nel cestino quella velenosa?” Elio sembrò rifletterci. “Una volta è rimasto in bagno tutta la notte. Dici che è stato per quello?” Giulio alzò le spalle raccomandandosi di rifiutare ogni invito a mangiare da Elio Paratore, poi fu un attimo e dalla balaustra spuntò la testa di Riccardo Gasparini che si riacquattò un secondo dopo. “Beccato!” gridò Giulio. Corse alla tana e batté la mano sul muro. “Tana per Riccardo!” Quando tornò indietro Riccardo stava scendendo le scale imbronciato, si fermò sul penultimo gradino e chiese a Elio: “Sono il primo?” “No, ha tanato prima me. Però stavolta non mi va di contare.” Riccardo saltò i gradini e atterrò a piedi uniti sul vialetto. “In che senso? Se nessuno ti libera sta a te.” “Che palle, oggi sono stato sotto due volte.” “E allora? Ieri Fabio se n’è fatte tre.” Elio tirò fuori dal marsupio un coltellino svizzero che prese a rigirarsi tra le mani. Conteneva una miriade di arnesi tra cui cucchiaio, forbici, seghetto, apribottiglie e lente d’ingrandimento. Aveva pure l’orologio. Potevi farci di tutto con quell’affare ed Elio non faceva che ripetere che gran coltello fosse, anche se secondo Giulio era sprecato in mano sua perché aveva già rovinato il filo della lama principale scorticando dei bastoni. Giulio si fermò a due passi dal garage e guardò prima a destra, poi a sinistra, ma uno strano prurito alla base della nuca gli suggerì che stava rischiando troppo a lasciare la tana scoperta e fece dietrofront. A nascondino il sesto senso è tutto. Elio e Riccardo, seduti sulla staccionata, avevano estratto gli arnesi del coltellino svizzero e li studiavano uno a uno per l’ennesima volta. Giulio si lasciò la tana alle spalle e proseguì lungo il vialetto sbirciando nei terrazzi a pian terreno. Superato il terzo, si fermò davanti a un giovane pino cresciuto sul pendio dal quale si accede alla pista da sci, verde d’estate e bianca d’inverno. Tra i rami c’era una macchia gialla che si mosse verso destra, il pino frusciò e un sasso rotolò sulla pista. Giulio fece un passo avanti, la macchia si abbassò di qualche centimetro e scorse una parte del viso giallo di Winnie Pooh, stampato sulla felpa di Carlotta Solaroli. Ovviamente, se c’era Carlotta, c’era anche Beatrice. Se ne stavano zitte e ferme, convinte che Giulio non le avesse viste. A Giulio scappò da ridere, ma si trattenne e guardò da un’altra parte, lontano, verso il Sasso Rosso ormai nascosto dalle nuvole. Poi iniziò ad avanzare verso l’albero, a passi lenti, godendosi la tensione del momento, finché non si piegò sulle ginocchia e saltò in avanti lanciando un grido che per poco non fece ruzzolare le ragazzine giù per la scarpata. A Beatrice volarono gli occhiali e Carlotta si appese ai rami del pino per non scivolare. Prima di partire a razzo sulle gambe lunghe e magre, Giulio ebbe il tempo di sganasciarsi dalle risate. “Tana per le Solaroli” gridò, e aveva ancora le lacrime agli occhi quando vide Elio compiere un rapido gesto con la mano a qualcuno dietro l’angolo della palazzina. Fece capolino e beccò in pieno Fabio Gaucci che, avvicinatosi quatto quatto dal garage, cercava goffamente riparo in un terrazzo dove qualcuno aveva messo delle grappe a riposare al sole. Tanò anche Fabio e attese che tutti gli si riunissero intorno. “Chi hai beccato per primo?” chiese Beatrice rimettendosi gli occhiali. Carlotta si levava gli aghi di pino rimasti attaccati alle mani. “Elio” disse Giulio e lo guardò. Elio rimise il coltellino svizzero nel marsupio e disse: “Basta, mi sono rotto, vado a casa.” “Non puoi andare a casa, sta a te star sotto” disse Fabio Gaucci. “Ho detto che non mi va” fece Elio. Riccardo gli toccò una spalla. “Dai, facciamo l’ultima.” “Sarebbe la terza volta che conto, Carlotta non ha mai contato.” Carlotta si annusò le mani che sapevano di resina. “Mica è colpa mia se ti fai tanare per primo.” “Se va a casa lui ce ne andiamo anche noi” minacciò Beatrice. “Nascondino è bello in tanti.” “Sai che mi frega” disse Elio, che se ne andò lasciandoli ammutoliti davanti alla tana. Esattamente dieci secondi dopo sbucò dall’angolo stropicciandosi un occhio. “E’ arrivata Laura, chiedete a lei se vuole giocare.” Beatrice e Carlotta schizzarono verso il garage cantilenando il nome dell’amica, il cui arrivo aveva lasciato indifferenti Fabio e Riccardo, che si erano seduti sulla staccionata. Giulio invece aveva sentito la gola farsi un po’ più stretta. Guardò per terra e si sentì improvvisamente insicuro. Se Laura si era dimenticata? Se nel frattempo lui era cambiato e non le piaceva più? Impossibile. In un anno gli erano solo cresciuti i piedi. La faccia era sempre uguale.
Quella volta contava Gasparini e mentre tutti si sparpagliavano per il residence, Laura aveva afferrato Giulio Laterra per un braccio e gli aveva detto: “Vieni con me.” L’aveva tirato non dalla parte del garage, ma verso il bosco di larici, più giù del pino dietro cui s’erano nascoste Beatrice e Carlotta. “Ho scoperto un nuovo posto” aveva detto. Giulio adorava il suo accento e credeva che Pesaro, con tutte le ragazze che parlavano in quel modo, fosse la città più bella d’Italia, altro che Roma. Mentre correva stando attendo a non pestarle i piedi, Laura si era girata e gli aveva sorriso. Le stava bene persino l’apparecchio. “Di qua” aveva detto, e Giulio non avrebbe potuto far altro che seguirla, visto che a breve gli avrebbe staccato un braccio. Laura aveva un anno in più e non si comportava come Beatrice e Carlotta, che sembravano donne in miniatura. Era diversa, pensava ad altro, e ciò che solitamente per le ragazze era importante per lei non lo era. A Giulio questo piaceva molto. Il nascondiglio era la rimessa del custode, alle spalle del residence, da dove si vede il tornante della strada che porta all’Alaska, l’ultimo albergo prima della telecabina. Giulio non si era mai spinto fin lì e se l’avesse fatto non era detto che avrebbe visto la porta della rimessa, dato che era in fondo a degli scalini di ferro così stretti che bisognava scendere uno alla volta. La lampadina era fulminata e la poca luce che filtrava dalla porta aveva rischiarato una carriola, rastrelli, tubi di gomma, vanghe e un’accetta, la cui lama luccicava come l’apparecchio di Laura. “Qui non ci troveranno mai” aveva detto lei socchiudendo la porta che cigolò come il trapano di un dentista. “Possiamo restarci finché non fa buio.” “Però c’è puzza” si era lamentato Giulio guardandosi intorno. “E’ puzza di muffa, non è una vera e propria puzza, a me piace, come la benzina.” “La benzina piace anche a me.” “Deve piacere anche a Gasparini, si infila sempre sotto le macchine.” Giulio aveva riso. Un’altra cosa che gli piaceva di Laura era che diceva le cose che potrebbe dire un maschio, ma dette da lei facevano più ridere. “Quando ieri hai fatto tana libera tutti stavi qua dentro?” “Sì.” “Adesso dovrai trovare un altro nascondiglio, ormai questo lo conosco” aveva detto Giulio chiedendosi se Laura avesse avuto paura a stare lì dentro al buio. Lei si era mossa verso gli attrezzi e aveva passato un dito sul manico dell’accetta. “Ne conosco un altro che non troveresti mai.” “Quale?” “Non te lo dico.” “Se me lo dici, te ne dico uno io.” “Dimmi prima il tuo.” Giulio aveva temporeggiato guardando certi tubi metallici che uscivano dal muro sui quali si erano formate goccioline di condensa e alla fine aveva detto: “La sala dei contatori, però a volte è chiusa.” Con uno sbuffo Laura si era tolta una ciocca di capelli dagli occhi. “La conosco e so anche dove sono le chiavi.” Giulio era ammutolito. Laura lo fissava. “Perché tu non lo sai dove sono?” “No.” “Nella teca dell’estintore, quella senza vetro, ho visto il custode che ce le metteva.” Giulio avrebbe venduto la Playstation pur di tornare indietro di due secondi e dare la stessa risposta, ma si era dovuto arrendere alla superiorità di Laura, alla quale aveva chiesto ugualmente: “Il tuo nascondiglio?” “Non te lo dico, il tuo lo sapevo già” aveva trillato lei con un sorriso da prenderla a sberle. Poi avevano udito un rumore metallico e le scale avevano iniziato a vibrare. “E’ Gasparini” aveva sibilato Laura accucciandosi dietro un tavolo di plastica col buco per l’ombrellone posato su un fianco. Giulio l’aveva seguita e dal buco del tavolo aveva visto la porta aprirsi e una sagoma scura stagliarsi sull’uscio con la luce alle spalle. Il viso non era del tutto in ombra e aveva riconosciuto il custode del residence, un uomo corpulento che ogni tanto veniva a cambiargli la bombola del gas. Il custode era entrato, si era guardato intorno, aveva preso un rotolo di tubi di gomma ed era uscito dalla rimessa. Giulio e Laura avevano pregato che non chiudesse a chiave e così avvenne: la porta era stata accostata. Laura si era girata verso Giulio che per lo spavento aveva smesso di respirare. Le brillavano gli occhi e anche se aveva l’attaccatura dei capelli imperlata di sudore e la t-shirt appiccicata alla pelle, vicino a lei l’aria odorava di bagnoschiuma. Giulio non sapeva che fare, non riusciva a muoversi. Era stata Laura a sporgersi e quando le labbra si erano toccate, erano rimaste unite appena un istante, perché la porta si era aperta di nuovo. Il custode doveva essersi dimenticato qualcosa. Si era avvicinato alla mensola attaccata al muro e aveva preso una rivista. L’aveva sfogliata per qualche secondo, l’aveva arrotolata e se l’era portata via. Quando la rimessa era tornata silenziosa, Giulio si era sentito svuotato e affaticato come se avesse percorso chilometri in salita. Gli sudavano le mani e voleva solo uscire e prendere una boccata d’aria, però non riusciva a dirlo, la lingua era incollata al palato e anche guardare Laura negli occhi era un’impresa titanica. Laura invece si era alzata senza il minimo imbarazzo, aveva preso un vaso da una pila vicino alla porta, l’aveva capovolto e l’aveva messo sotto la mensola. “Che fai?” le aveva chiesto Giulio schiarendosi la gola, senza impedire alla voce di uscire strozzata. Laura non gli aveva risposto. Aveva trovato un’altra rivista e ne esaminava la copertina. “Che cos’è?” aveva chiesto ancora Giulio scavalcando il tavolo. “Donne nude.” Laura gli aveva passato la rivista ed era scesa dal vaso. Giulio l’aveva aperta e aveva visto che non c’erano solo donne. C’erano pure uomini, con baffi e pettinature fuori moda. Erano nudi anche loro e le donne avevano facce stravolte e non si erano tolte le scarpe, lucide e col tacco a punta. Giulio aveva ripassato la rivista a Laura. “Mettila a posto.” “Perché? Non vuoi portartela a casa?” “Che ci faccio?” “Vuoi dire che non hai iniziato?” Giulio era diventato rosso e aveva iniziato a sentire caldissimo. Laura aveva continuato a sfogliare la rivista. “Io non ci trovo niente di che, sembra che facciano finta.” Poi era risalita sul vaso, aveva messo la rivista dove l’aveva trovata ed era uscita dalla rimessa. Giulio l’aveva seguita fino in cima agli scalini dove, abbagliati dalla luce del sole, avevano udito qualcuno gridare: “Giulio, Laura, fate tana libera tutti!”
Giulio Laterra non riusciva a decidere se si era sentito peggio dopo il bacio spezzato o quando Laura gli aveva chiesto quelle cose nella rimessa. Di sicuro non doveva stabilirlo adesso. Era passato un anno e tra un secondo l’avrebbe rivista. Fermo davanti alla parete de I Larici, sentì la voce di Beatrice chiedere qualcosa a Laura e Laura rispondere allegra, poi una risata maschile coprì tutto e Giulio si aspettò di veder spuntare il signor Tesconi, un uomo alto che quando parlava lo stavano tutti a sentire. Decise che gli avrebbe stretto la mano e chiesto com’era andato il viaggio e Laura avrebbe apprezzato, avrebbe pensato che Giulio Laterra la timidezza se l’era lasciata alle spalle. Guardò Fabio e Riccardo. Parlavano del Milan e di quanto fosse pippa Patrick Kluivert. Poi dall’angolo della palazzina sbucarono in quest’ordine: Carlotta, Beatrice, Laura (i capelli corti le stavano benissimo) e un ragazzo biondo con la maglietta dei Nirvana e qualche pelo in faccia. Laura gli andò subito incontro con lo zaino che le sobbalzava sulle spalle. “Ciao Giulio!” Sibilò la c in perfetto pesarese, sorrideva e l’apparecchio era sparito. I denti erano bianchi e perfetti. “Come stai?” Lo baciò sulle guance, come si salutano i grandi. “Ti sei alzato” disse, poi salutò anche Fabio e Riccardo che non si mossero dalla staccionata. Giulio disse che stava bene, anzi, per darsi un tono usò la parola “benone”, poi osservò il ragazzo e vide che portava l’orecchino, indossava jeans strappati alle ginocchia e quella mattina aveva pensato di infilarli negli anfibi. Laura guardò le nuvole che coprivano le montagne. “Non è che ho portato il brutto tempo?” “Domani dovrebbe esserci il sole” disse Giulio. “Speriamo, vogliamo andare in cima alla Pradalago, voi ci siete stati?” “Ancora no.” Laura guardò il ragazzo. “Chris, dobbiamo andarci, c’è un lago stupendo.” Chris chiese se c’erano delle pareti per arrampicare. Laura non lo sapeva, disse che si sarebbero informati. Giulio aveva fatto roccia con suo padre l’anno scorso ed era stata un’esperienza traumatica. Si era bloccato a due metri da terra ed erano dovuti andarlo a prendere in due perché non riusciva né a scendere né a salire. “Adesso che fate?” chiese Laura. “Giochiamo a nascondino” rispose Carlotta e se Giulio Laterra avesse avuto un candelotto di dinamite l’avrebbe fatta esplodere all’istante. Laura rimase per un attimo a bocca aperta, poi disse: “Fico. Noi andiamo a casa, siamo un po’ stanchi.” “Come siete arrivati?” chiese Beatrice. “Treno più corriera.” Laura guardò Chris e gli prese la mano, ma Chris sembrò non accorgersene, attratto com’era da qualcosa che stava per terra. “Begli scarponcini” disse studiando i piedi di Giulio. “Io i miei me li sono scordati.” Giulio si guardò le scarpe, poi rialzò gli occhi sulla copia di Kurt Cobain e fieramente, con in testa l’immagine di suo padre che sganciava 150 euro al negoziante, annunciò: “Sono della Gore-Tex.” Carlotta iniziò a ridacchiare. “Gore-Tex è il rivestimento che non fa passare l’acqua, rimbambito, non è la marca.” Iniziò a ridere anche Beatrice, Giulio guardò Laura e aspettò che ridesse anche lei, ma non lo fece, perché non era come le altre, anche se forse, in quel momento, sarebbe stato meglio che lo fosse, che si sbellicasse, che si facesse venire le lacrime agli occhi, piuttosto che guardarlo con quel sorrisetto compassionevole che divenne delizioso quando incrociò lo sguardo di Chris e disse: “Ci andiamo a sistemare?” Salutarono e si diressero alla palazzina dei Tesconi, la seconda andando verso la rimessa dove era iniziato e finito tutto. Giulio li guardò finché non scomparvero, poi Riccardo saltò giù dalla staccionata e chiese: “Che si fa?” “Facciamo l’ultima” disse Giulio, serio. “Prima che si metta a piovere.”
Contò lui perché nessuno voleva farlo e stavolta non scandì i numeri ad alta voce, anzi, non contò affatto. Se ne stette appoggiato al muro per un minuto o due, con la fronte sul braccio, poi alzò la testa e si girò verso le montagne, osservando le nuvole che invadevano la valle e coprivano le case lontane come una lenta valanga. Non andò a cercarli, non ne aveva voglia, e quando iniziarono a cadere le prime gocce, fredde, grosse, snodò il K-Way e lo indossò coprendosi la testa col cappuccio. Tuonò ancora, più forte e a Giulio sembrò il rumore di un pezzo di montagna che crolla. Si guardò gli scarponcini, l’acqua li aveva resi di un marrone più scuro e si chiese quanto suo padre avrebbe risparmiato se non fossero stati rivestiti di Gore-Tex, poi ripensò alla rivista, alle pagine stropicciate e si domandò se Laura, tra qualche ora, sul letto o davanti al caminetto, avrebbe fatto le stesse facce che avevano le donne in quelle foto sbiadite. Il pensiero lo eccitò ed era la prima volta che gli succedeva pensando a Laura. Iniziò a sentire freddo mentre l’acqua scorreva tra le pieghe del K-Way e non si mosse finché non udì qualcuno gridare: “Corri!” Allora si voltò e vide Riccardo e Fabio, con le magliette fradice tirate sopra la testa, sfrecciargli accanto senza nemmeno chiedergli perché non fosse andato a cercarli. Immaginò che anche Carlotta e Beatrice avessero abbandonato il gioco. Aspettò, non arrivò nessuno, rimase ancora un po’ lì, tremando sotto la pioggia, poi voltò le spalle alle montagne e andò a casa.
Adoro questo racconto! Letto tutto d’un fiato, innocente e malizioso, sembra di leggere ammaniti! Complimenti ed in bocca al lupo
Carmen, grazie per il commento e il paragone col grande Ammaniti. Crepi il lupo!
Complimenti , ho letto molti racconti ultimamente, ma questo l’ho trovato veramente ben scritto. Tecnica,struttara, contenuto, niente da eccepire. Bravo.
Grazie Luigi, sono contento che ti sia piaciuto il racconto 😉
Davvero davvero bello! Scritto molto bene…le descrizioni si materializzano visivamente dalla prima lettura!
Ben costruito, convincente e credibile. complimenti.
Grazie Sergio, mi fa piacere ti sia piaciuto 🙂
Ottimo ritmo. Veloce, dinamico, da leggere tutto d’un fiato. Complimenti Brother!
Ancora grazie!