Premio Racconti nella Rete 2014 “Fuga” di Maria Teresa Landi e Luciana Tola
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014Tirana 2 luglio 1990
La città agonizza sotto il sole accecante di un pomeriggio di luglio. Aria bollente e rarefatta, vie deserte costellate da buche e cunette, cortili invasi dai bunker di cemento, palazzi senza infissi: città fantasma, reduce da una dittatura che l’ha sfiancata, arresa per una volta a noi ragazzi. Che pacchia!
Siamo in quattro, i quattro dell’apocalisse, ci chiamano: i miei fratelli, Armando e Omar, Marcos e io, sempre insieme a inventare scherzi, a scatenarci senza ritegno. Imbocchiamo a rotta di collo Rruga Skanderbeg, la strada delle ambasciate, e qui troviamo una scena da guerriglia: uomini e donne di ogni età manifestano la loro disperazione, una folla urlante contro la polizia che spara impietosi proiettili di gomma. La confusione mi frastorna, mi spaventa. Ben presto mi ritrovo solo, spinto qua e là senza riguardi, non vedo più i miei compagni, sepolti dai tanti corpi in movimento, e questo aumenta la mia paura.
“Che succede?” chiedo ansimando a un vecchio vicino a me. Ricorda mio nonno coi suoi capelli bianchi e la barba lunga, ma lo sguardo iroso che mi rivolge non ha nulla a che vedere con lui.
“Che ci fa un ragazzino come te qui in mezzo?” abbaia, schizzandomi sul viso un grumo di saliva mista a tabacco. “Fila subito a casa tua!”
Una vampa rossa mi sale fino ai capelli: vergogna, rabbia, schifo, paura. Arretro, finendo addosso a una contadina con l’abito tradizionale e il cesto di verdura polverosa. Carote striminzite, patate e insalata di un verde giallo patetico si rovesciano in terra. Aspetto una reazione che invece non arriva. Di male in peggio, penso, chinandomi a raccogliere quello che mi riesce, poi, impacciato, balbetto qualche scusa.
“Bravo! Così si fa.”
Mi volto sorpreso. E’ lo zio, finalmente! Lui mi ascolterà. “Che stanno facendo?” gli domando, ansioso.
“Tentano di entrare nell’ambasciata della Germania occidentale.”
“E se non ci riescono?”
Scuote le spalle: “Povera gente, non ha nulla da perdere”. Poi, come se parlasse a se stesso: “Siamo un popolo di derelitti, un popolo affamato. E la sai una cosa? Abbiamo capito che per ora la vita in Albania non può che peggiorare”. Se ne andrà anche lui! La certezza mi agghiaccia, ma non ci voglio pensare.
A spintoni ci facciamo largo tra la folla, in tempo per assistere a una scena che non dimenticherò più. Un ragazzo si sta arrampicando sulla cancellata. Lo conosco, è Giosef, sta a pochi passi da casa mia, un amico dolce, serio. Che cosa vuol fare? L’osservo col cuore in gola.
Ora è in cima, spavaldo, pronto a saltare nel cortile dell’ambasciata. Ma ecco due poliziotti: arrivano di corsa, urlano comandi che si perdono nella confusione generale. Giosef risponde risentito, nello sguardo un misto di sfida e di terrore indistinto. I due lo afferrano per le braccia, le gambe, i pantaloni, determinati a tirarlo giù. Lui resiste, per un momento crede di aver vinto, poi stremato rinuncia, scivola, finisce infilzato tra le sbarre, mentre dal torace zampilla sangue vivo, una macchia che si allarga e scende verso i fianchi. La fisso ipnotizzato, ma all’improvviso la folla si sposta rumoreggiando. Non vedo più null’altro che schiene contorte, berretti, pezzuole. Voci inorridite serpeggiano nell’aria: “Guarda il sangue!” “E’ morto!” “No, forse respira ancora.”
“Vieni via!” ordina lo zio.
“E’ morto?”
“Non lo so, ma non è il caso di restare qui.”
“E gli altri?” Nei visi allucinati leggo la paura e l’incertezza, il dubbio ma anche la speranza. Se qualcuno c’è riuscito…
“Alfred!!” Marcos e compagni, finalmente, seri, negli occhi il mio stesso orrore. Ci seguono in silenzio.
Qualche giorno più tardi le autorità negheranno l’episodio: solo fantasie, il giovane è vivo ed è ricoverato in ospedale. Sarà vero? Non ci credo.
Tirana, 9 luglio 1990
L’aeroporto di Rinas altro non è che un capannone malfermo, color topo, polveroso. All’interno uno stanzone ingombro di panche. Due pale ruotanti, abbarbicate al grande soffitto, muovono a fatica l’aria calda, stantia. Carta moschicida ovunque, ecatombe di mosche.
Fuori, la pista come l’aia di una casa colonica si allunga verso la campagna. In lontananza s’intravedono le sagome di alcuni palazzi di Tirana.
Ai confini qualche mucca pezzata, accovacciata sotto il ventre arrugginito di apparecchi in disarmo. Altre se ne stanno ferme a ruminare, lo sguardo perso nel vuoto, la coda ciondolante nell’atto di scacciare gli insetti inopportuni. E poi campi di granturco, disseminati d’igloo di cemento sepolti nell’erba selvatica, cresciuta lungo le crepe e tra le feritoie simili a orbite vuote.
Là dentro, i soldati con i mitra sono pronti a entrare in azione per controllare i nuovi arrivati. Chissà cosa darei per vedere cosa c’è all’interno, ma qui tutto è proibito per noi ragazzi.
Marcos fa il misterioso. Conosce bene questi bunker. Suo padre milita nell’esercito nazionale e più di una volta l’ha portato con sé. Lui se ne vanta e si diverte a raccontare episodi incredibili, atroci.
Anche oggi poco lontano, in uno spiazzo nascosto dall’erba alta, i miei amici e io giochiamo a calcio con un pallone di stracci che stanno insieme con lo sputo.
“Passa a me!” grido correndo a perdifiato verso l’ipotetica area di rigore, la maglietta zuppa di sudore, scartando abilmente gli avversari, finché, atterrato da una sgambata, mi ritrovo a mordere l’erba: “Accidenti!”
Il moccolo rabbioso si perde in un grugnito di dolore. “Non vale!” piagnucolo, tastandomi un ginocchio sbucciato in malo modo.
“Non fare la femminuccia!” replica l’altro ridendo.
“Sei un…”
Cos’è, Marcos non lo saprà mai, distratto dal rombo di un aereo che si avvicina. “Guardate!” fa, rivolto a noi. Il punto nero comparso all’orizzonte cresce, gira intorno alla pista, scende a singhiozzo, pattina claudicante sul fondo sconnesso, si ferma. “E’un bombardiere russo della seconda guerra mondiale, lo riconosco!” esclama tronfio.
Quattro paia di occhi, dimentichi della partita, seguono l’aereo rattoppato, battente bandiera rumena, mentre erutta i passeggeri. Scendono dalla scaletta sudati, stravolti, si trovano davanti due o tre soldati armati di fucili ai quali consegnano i passaporti, corrono finalmente verso i servizi e il ristoro, dove troveranno poco o nulla.
Riesco a distinguere qualche parola: “Sono italiani!” esclamo. Conosco la loro lingua, le città, i divertimenti grazie alla tv. L’Italia è il sogno dei giovani albanesi, il paradiso; loro invece probabilmente tremano già all’idea di dover restare in questa landa desolata e non vedono l’ora di ripartire.
Vorremmo avvicinarci. Chissà, potrebbero darci qualcosa d’interessante: caramelle, chewingum, giornalini… Appena tentiamo però i soldati ci bloccano. “Andatevene subito, altrimenti…”
Non ce lo facciamo ripetere due volte e fuggiamo via.
Alle nostre spalle, il campetto vuoto torna a offrire agli sguardi il fondo di erba spelacchiata e radici affioranti tra i sassi.
Tornato a casa per disinfettare il ginocchio sbucciato, che mi fa un male cane, m’inchiodo sulla porta. Mamma è in cucina, la sento discutere con papà. Di che parlano? Mio padre urla come un dannato, ce l’ha con lo zio perché vuole andarsene da qui, privandoci di quei quattro soldi che guadagna… Lei cerca di calmarlo, lui la picchia. La sento piangere. Il mio cuore prende a martellare furioso nel petto, una vampata di rabbia impotente mi attanaglia, stringe lo stomaco, mi dà la nausea… vorrei ucciderlo, mio padre! La picchia ancora, maledetto! Quando è ubriaco poi… La settimana scorsa le ha quasi rotto il naso a furia di botte.
Non posso stare a guardare. Irrompo come una furia nella stanza, gli sferro un pugno, nemmeno se ne accorge. Mi allunga una sberla che mi rintrona, perdo l’equilibrio, finisco al tappeto. Senza una parola, esce sbattendo la porta.
Mi tiro su a fatica, con l’aiuto di mamma. L’abbraccio. Vorrei tamponare il sangue che cola giù imbrattandole il viso, vorrei che reagisse, vorrei… “Andiamo via, mamma!” urlo e piango, scuotendola con tutte le mie forze.
“Dove vuoi che andiamo, figlio mio?”
“Dal nonno…”
“Zitto, zitto!” m’interrompe. “Non ci farebbe neanche entrare in casa.”
“Se lo fa ancora lo uccido.”
“Non lo dire, Alfred! Tuo padre in fondo non è cattivo, è solo esasperato, ha perso il lavoro, lo sai…”
“Non è vero, non è vero! Perché lo difendi? È una bestia, come tutti,” esclamo singhiozzando, poi scappo via, pieno di livore anche contro di lei.
Fuori, mi lascio cadere a terra sotto il fico, le mani sul viso, le tempie che pulsano… che devo fare? Non lo so, non so nulla, ma non è vero, una cosa la so: io non sarò mai come lui, non voglio. Voglio andarmene!
Quante ore passo così, fermo, inebetito e però determinato, a fissare le formiche che si arrampicano sulle mie scarpe, mentre ogni cosa, intorno, perde pian piano colore e le ombre si allungano sulle zolle di terra arida e polverosa? Non lo so.
Adesso però ho fame; un freddo strano mi serpeggia nelle ossa. Mia madre viene a cercarmi, mi chiama: “Alfred! Basta, vieni dentro.” La sua voce mi avvolge come una carezza, insieme al profumo della zuppa. Entro in cucina, mio padre non si vede, per fortuna. Spolvero la scodella in un batter d’occhi.
In questo momento arriva lo zio. Lascia cadere lo zaino nell’ingresso, si siede accanto a me.
“Quando parti?” chiede mamma.
“Domattina, col treno delle sei.”
Non posso crederci, se ne va davvero! Come farò senza di lui?
La notte trascorre agitata, interminabile. Non riesco a chiudere occhio. Scivolo ogni tanto in un dormiveglia affollato di immagini insistenti, tormentose: mio padre con la cinghia in mano, mamma che piange, Giosef… e la macchia di sangue che si allarga, si allarga, fino a coprire tutto.
L’alba mi trova stranito, ma lucido. Ho deciso. Mi vesto, raccolgo le mie cose, scribacchio due parole per mamma, poi torno a letto.
Passi furtivi: “Dormi?” bisbiglia lo zio.
Non rispondo e lui se ne va. Allora salto giù dalla finestra, lo seguo a distanza, attento a non farmi vedere.
Arrivati alla stazione, rimango nascosto, in attesa. Sono eccitato, eppure mi viene quasi da ridere pensando alla sua faccia, quando si accorgerà di me.
Finalmente una nuvola di fumo nero annuncia l’arrivo del treno. Pochi minuti, il capostazione dà il segnale di partenza. Col cuore in gola salto sull’ultimo vagone: è fatta!
La prima parte mi ricorda “Lo straniero” di Albert Camus. Descrivete molto bene, senza troppi orpelli né sentimentalismi, quelle realtà che si danno quasi per scontate, che non ci toccano né emozionano perché lontane dalla nostra quotidianità. Tema che fa riflettere sul fenomeno dell’immigrazione e sul razzismo, in generale. Mi è piaciuto un sacco.
Ciao Sonia
Davvero emozionante. Il mondo, con le sue atrocità, agli occhi di un ragazzo deve sembrare ancora più crudele. La fuga è l’unica salvezza. La famiglia che non riesce a proteggere non merita che vi si resti.
Angela Lonardo