Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2014 “Un Natale buono” di Federico Fantuz

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014

(ispirato a una storia vera)               

Sì, quella notte non si scorderà mai. Joel lo sapeva e lo aveva scritto nel suo diario. Aveva qualcosa di magico e di meraviglioso. Lo ricorderanno le generazioni a venire.

“Se potessi raccontarlo a mio padre e a mia madre”. Questo fu il primo pensiero dopo mesi terribili, che non avrebbe mai potuto scordare. Non so se li rivedrò mai, si ripeteva ogni giorno e ogni ora della sua esistenza, ma certo una cosa così non si era mai vista né sentita. Eppure sapeva che quell’evento, sì quell’evento, non si sarebbe dimenticato tanto facilmente, e la sua eco avrebbe riecheggiato nei secoli, sì nei secoli.

Joel aveva 21 anni e si era ritrovato, in pochi mesi, sul fronte occidentale. Vicino alla città di Ypres, nel Belgio. Le storie degli uomini sono sempre molto rapide nei cambiamenti, più di quanto si possa immaginare in tempi di pace. Era stato letteralmente catapultato in una realtà più grande e complessa di lui. Nelle trincee a fermare i tedeschi che avevano deciso di prendere Parigi, e non solo.

Lui, un ragazzotto dei sobborghi di Bordeaux, dove si respira l’aria dell’oceano, e dove il sole sembra non tramontare mai la sera, aveva ricevuto in un normalissimo e noioso pomeriggio una cartolina che lo invitava a presentarsi alla stazione della città per una destinazione oscura. Purtroppo tutti sapevano che a un breve corso di formazione, o meglio di combattimento tattico, avrebbe fatto seguito la guerra.

Era il 1914. La fine della Belle époque. E se quella era stata la Bell’époque, vi lascio immaginare, diceva spesso Joel, che cosa fosse allora. Ma si sa, c’era la crisi, e le cose stavano cambiando.

E così, senza farsi troppe domande, o meglio, senza poter far nulla,  una domenica partì salutando la madre che piangeva sull’uscio di casa, e il padre, ormai anziano, che tentava a stento di trattenere le lacrime.  Joel era figlio unico di genitori vecchi e forse proprio per questo, era stato educato in maniera saggia e pacata, osava dire. Ogni momento era un dono, anche quello che nel mentre ti sembra assurdo e pesante. Così sin da piccolo si era abituato a tenere un piccolo diario, dove annotava ogni giorno tutte le cose che gli capitavano, cercando il bene tra le pieghe della vita. Un simpatico esercizio che il padre gli aveva insegnato.

I genitori vecchi si sa, spesso sono meno intraprendenti di quelli giovani, ma sanno dosare meglio le energie e trasmettere un senso di pace ai figli. E così fu anche per Joel, che, tutto sommato , pur capendo la gravità della situazione, dentro di sé manteneva una simpatica voglia di conoscere il mondo.  Certo quello non era forse il modo più tranquillo, ma pur sempre vita nuova era.

Ben presto giunto al fronte, Joel capì nel giro di pochi giorni che la vita sa essere molto dura con gli uomini.  E ogni giorno di più fece suo un vecchio detto, secondo il quale non c’è fiera più feroce con i propri simili che l’uomo stesso.

Joel in vita sua aveva a mala pena assistito all’uccisione del maiale per farne carne per l’inverno. Sul fronte occidentale gli uomini morivano come mosche: obici tedeschi cadevano a ogni ora del giorno e della notte, nei posti più disparati. Le pallottole fischiavano, tante, tante, tantissime. Ma sentirle era una grazia. Eri vivo! Spesso non facevi in tempo a girarti che il tuo pari era disteso, con un fiotto di sangue che usciva dalla bocca.

Gli uomini cadevano come foglie quando arriva l’inverno. Gli ufficiali non avevano la benché minima capacità tattica. Scontri continui, spesso all’arma bianca, un avanzamento e un arretramento costante che logorava i miti. Joel scoprì presto la guerra di trincea, in mezzo ai topi, al puzzo di escrementi, all’acqua, a tanta acqua che cadeva sempre dal cielo. Il fango che entrava negli stivali che sembravano attaccati alla terra con colla. Il cibo puntualmente freddo e privo di sapore, ma necessario per poter tentare di andare avanti.

Imparò le storie di chi raccontava di aver fatto l’amore con mille donne, e imparò a sentire anche la tristezza degli altri, di chi scriveva alla moglie, alla fidanzata, a casa.  Imparò la solitudine, ma anche la fratellanza. Lui che era solo, si ritrovò ben presto con molti fratelli intorno. Ognuno con i suoi difetti, ma anche con dei pregi.

Purtroppo spesso il loro numero diminuiva e lui stesso si domandava come mai anche quella volta non fosse toccato proprio a lui morire.

Il nemico era potente e furioso. I tedeschi non scherzavano, molto ben armati e preparati. Tanto che in quella sporca grande guerra, come veniva chiamata, i francesi avevano ricevuto l’aiuto degli inglesi formando così un unico esercito per bloccare l’avanzata dei tedeschi.  Dopo anni di guerre questi due popoli erano adesso uniti contro il nemico comune. Strano essere l’uomo, si ripeteva Joel, il nemico del mio nemico è mio amico. Solo questa era la motivazione dell’unione con gli inglesi?

Ogni due mesi arrivava la posta. Le lettere dei suoi genitori erano a dir poco struggenti. E spesso Joel si rifiutava di leggerle, rispondendo velocemente che tutto andava bene e che presto sarebbe tornato.

Un giorno però fu chiamato dal comandante. Joel si preoccupò tantissimo, pensando a qualche missione in avanscoperta, dalla quale pochi tornavano. Dopo aver ricevuto la notizia, forse lo avrebbe preferito.

Suo padre non c’era più.  Se n’era andato. Gli fu detto, nel sonno. Così.

Joel non ci credeva, non capì subito. Si sentiva paralizzato, bloccato, tetanizzato, privo di forma. Un nodo gli serrava la gola, e quando il comandante lo congedò non riusciva a schiodarsi. Rimase sull’attenti, quasi la sua mente non fosse più là. “-Soldato semplice Joel Marabiè, può andare. Ripeto, può andare”.

Queste le parole del superiore. Ma Joel non capiva. Il comandante che poteva essere tranquillamente suo padre, gli si avvicinò, lo scosse e con parole dolci e strane, che parevano quasi sussurrate nel frastuono della bombe in lontananza e di qualche sibilo di fucile, gli disse che presto gli sarebbe passato. A quel punto Joel non riuscì a trattenere le lacrime e scoppiò in un pianto fanciullesco e ininterrotto. Il comandante lo abbracciò, non tanto per consolarlo dalla morte che era onnipresente in quei giorni, ma perché anche lui vide in quel giovane uomo un ragazzo che piangeva per la perdita del padre. Pensò al suo di figlio e gli venne spontaneo abbracciarlo e accarezzargli la testa.

L’indomani mattina, per Joel era come se un pezzo di lui se ne fosse andato per sempre.

La notte non aveva chiuso occhio. Nonostante l’artiglieria nemica avanzasse, lui aveva ripensato a tutti i momenti più belli vissuti con suo padre. Al primo giorno di scuola, alla mano che lo accompagnava da bimbo nelle passeggiate, alle parole di saggezza che lo avevano consolato nei momenti bui. Anche ad alcuni consigli che gli aveva dato con le ragazze. Ai momenti dolci e alle tenerezze, sempre pudiche e composte, che aveva avuto con sua madre. Era stato bello vivere con un padre così. Sì, era stato un ragazzo fortunato. Non gli era mancato nulla!

Ma la vita degli uomini cambia. E come si era detto prima, molto più velocemente nei periodi di guerra.

Decise di non tornare a casa per i giorni canonici di congedo a seguito del lutto. Non avrebbe retto il dolore della madre. Preferì scriverle una lettera e prometterle che sarebbe tornato quanto prima.  Tanti al suo posto sarebbero tornati subito, e come figli unici di vedova, avrebbero potuto ottenere il congedo permanente. Ma tutto questo non faceva parte della sensibilità di Joel. La guerra non l’aveva iniziata lui, lo avevano chiamato ed ora avrebbe dovuto terminarla. Non esistevano scappatoie.

Seguirono giorni durissimi e violentissimi. Da ambo le parti  le perdite furono elevatissime. La guerra era ormai diventata di trincea e ad assalti sanguinosi , seguivano giorni di vita da topo, sperando che un obice nemico non dilaniasse le ormai deboli carni.

Quei mesi di guerra avevano invecchiato Joel di anni. Non tanto per la barba incolta, ma quanto per quella scorza che si era creato intorno al cuore, che non permetteva più ai sentimenti di uscire e di rendere l’uomo diverso dalla bestia.  Spesso si domandava se quel ragazzo che con entusiasmo si era arruolato fosse ancora vivo, oppure sepolto per sempre.  La curiosità per le cose, la passione nel fare, il cercare il bene nel male. Tutto sparito o cancellato. Non sapeva più stupirsi. E quando un uomo perde la capacità di stupirsi, muore. Se lo ripeteva ogni sera prima di affidare la sua vita a Dio. Eppure non riusciva ad uscire da questa spirale di negatività, pessimismo e stanchezza. Addirittura non riusciva più a sentire Dio.

In quei mesi gli era anche capitato di aver aiutato qualche commilitone in fin di vita a morire. La prima volta fu un vero trauma, ma poi, spinto dalle urla sovrumane di dolore dell’amico, decise di premere il grilletto e di finirlo.

Vomitò. Pianse amaramente. Dov’era Dio? Perché? Lui non voleva quella vita, non l’aveva scelta. Cosa ci faceva lì? Non si poteva tornare indietro. Era come in un treno in corsa da cui non si può scendere.

Di notte, nelle trincee, anche i discorsi erano orami cambiati. Non più donne o avventure fantastiche, ma pianti e silenzio. Qualche chiacchierata e alcuni che scrivevano, ma di fondo un solo grande silenzio. Nemmeno la luna, spuntava. Pioveva sempre.

Dio quanto avrebbe desiderato un letto e un pasto caldi. Nulla di più.  Ma si sa, il destino spesso ti porta dove non vuoi.

I mesi passavano e ci si avvicinava alla fine dell’anno. Le battaglie erano sempre più cruente. Joel aveva preparato una lettera d’addio alla madre. La teneva nel petto, vicino al cuore.  Non si sa mai, si diceva. Certo , il dolore per la morte di un figlio non si sarebbe asciugato con una lettera, ma dirle che non avrebbe potuto avere madre migliore e che la ringraziava per tutto quello che aveva fatto per lui, gli sembrava, un modo per congedarsi con amore da lei.  Probabilmente era l’assenza di lucidità che oramai lo aveva colto, lui come molti altri.

I giorni passavano lenti. Le notti sembrano infinite.  I morti, caduti sul campo e cui non si poteva nemmeno dare sepoltura, aumentavano ogni giorno. Joel continuava a domandarsi perché a lui non fosse ancora accaduto. Non si sentiva un predestinato, ma sapeva che, statisticamente, non poteva andargli sempre bene.

Era ormai dicembre del 1914.  Non smetteva mai di piovere. Il fronte occidentale si allungava. Anglo- francesi e tedeschi si fronteggiavano e si decimavano senza tregua.

Ma dicembre è un mese magico, si sa.  E i miracoli succedono a quelli che permettono loro di accadere.

La notte di Natale del 1914 successe l’incredibile.  Prima della mezzanotte dalle trincee tedesche partì un canto natalizio. Era lo Stille Nacht… Risposero gli inglesi con il loro Silent Night.

“Dio se poteste esserci stati”, cominciò a scrivere Joel nel suo diario. Per una notte la guerra si fermò. Gli uomini, stanchi, sporchi, magri, demotivati, uscirono dalle trincee. Prima diffidenti e con dei fazzoletti bianchi in mano. Poi sempre più frequenti, si incontravano nella terra di nessuno e si abbracciavano, si scambiavano sigarette e tabacco. Alcuni piangevano insieme. Altri abbozzarono addirittura una partita di pallone, che fu vinta dai tedeschi, ma a nessuno, credetemi, a nessuno interessava il punteggio.

“Potemmo seppellire cristianamente i nostri morti”, scriveva Joel. “Quella notte nessuno sparò, nessuno doveva più morire, perché era una notte Sacra”.

Gli vennero in mente tutte le cose belle che aveva vissuto, la sua famiglia, gli affetti, gli amici che aveva perso, ma che erano ancora dentro di lui. I nonni. La prima fidanzata, i profumi di casa.  Era come se quella spessa scorza che gli era cresciuta intorno al cuore in quei maledetti mesi, si fosse improvvisamente dissolta. Smise anche di piovere e incredibilmente la luna  illuminò la terra di nessuno.

Dalle trincee tedesche cominciarono poi a brillare tanti piccoli alberi di Natale, illuminati dalle candele.  Fu un’emozione indescrivibile. Joel era convinto (e non solo lui) che tutti fossero andati con la mente al Natale da bambino. Alle carezze di mamma e papà, ai doni, al pranzo di Natale, al calore degli affetti veri.  Vide uomini, violenti per necessità di sopravvivenza, commuoversi e piangere.

Fu vero. Fu una notte, ma fu magica!

Molti anni dopo Joel rileggeva le pagine del diario che scrisse quella notte: “Fummo sfortunati perché nascemmo in quel periodo storico e toccò a noi.  Quello era il nostro destino. Non so se sia stato peggiore di altri. Probabilmente sì, forse no. So solo che quella notte nacque un fiore sopra un fatto brutto. E il profumo di quel fiore si diffonderà ancora per secoli, perché  fu magico e più grande di tutti gli uomini che si trovavano lì.”

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