Premio Racconti nella Rete 2014 “Mistero universale” di Marco Stentella
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014Ripeteva ogni pomeriggio il rito dei solitari divenuti ormai personale cabala. Aveva trent’anni e sulle affermazioni della gente, sulle risposte che seria dava alle sue domande non faceva più alcun affidamento. Qualsiasi spiegazione gli si desse, qualsiasi contributo avuto dalla televisione, qualsiasi amichevole consiglio propinatogli da chi gli stava vicino per farlo stare bene non lo soddisfacevano e, superstizioso alquanto, aveva finito per chiedere chi fosse e come stessero le cose alle carte.
Veniva chiamato dai più giovanni lo stupido* a causa del suo aspetto ottuso e menefreghista, e in realtà gli importava davvero poco di partecipare attivamente agli eventi del mondo, se ne fregava di tutto ad eccezione di sapere chi fosse e di conseguenza come dovesse comportarsi per andare avanti.
Vi erano inoltre due ulteriori particolarità che giustificavano il nomignolo che gli era stato affibbiato. La prima risiedeva nel fatto che oltre ad avere l’aspetto da stupido spesso non capiva effettivamente quanto gli si andava dicendo; la seconda, forse più significativa, aveva giustificazione nel fatto che da neonato gli vennero asportate due protuberanze che facevano pensare ad ali. Poteva essere dunque una specie di uccello mancato, l’uomo-uccello a cui avevano tarpato le ali dell’intelligenza.
Nell’inconsapevolezza della sua identità aveva almeno una certezza: era malvagio. Lo aveva capito dall’indifferenza che gli procurava la vista di una sofferenza personale. Trascinato da qualcosa a lui superiore, condannava sì astrattamente la schifosa vita, ma avendo di fronte un destino doloroso non provava nessuna pietà, era anzi disgustato dalla disperazione dei caduti sotto le frustranti avversità; gli pareva che recitassero la sofferenza per accalappiare la “comprensione benevola” dell’universo intero. Se constatava di tali “comportamenti” tra i consanguinei si faceva addirittura rabbioso. S’irritava per il fatto che i suoi parenti recitassero come gli altri davanti all’ineluttabilità degli eventi e nessun sentimento di sana commozione per la perdita di un parente lo prendeva. Nessuna effimera gioia durante l’esistenza poteva riscattarci dalla perdita definitiva della vita su questa terra, sofferenza suprema.
Era come non si accorgesse della contraddizione che formava la sua personalità, la quale decretava la condanna assoluta della figura della morte ma che rimaneva indifferente al dolore in quanto avvenimento particolare, subito dal sangue, dalla persona effettiva nel compiersi della storia. Secondo lui tutto era recita perché dopo il dolore la gente tornava a una vita normale, spesso a gioire delle cose effimere della vita; per odiare l’empietà della creazione, come solo lui poteva fare, non bisognava avere dolore, tanto meno accoccolarsi su una volatile gioia.
I genitori, lui ateo e vagamente estremista nelle idee, lei religiosa e moderata, secondo la ricetta del buonsenso, catalogatore essenziale delle persone, pensarono bene di mandarlo da alcuni specialisti a causa della sua cupezza di fondo che erano certi influisse sulla sua difficoltà di vivere. Così oggi si crede che il carattere possa essere migliorato da una terapia, in questo tempo in cui si svilisce l’eccezionalità, dolorosa che sia, facendone malattia.
Mostrando una superiore capacità di comprensione, giovanni sapeva tutto di quei terapeuti, dei loro metodi e delle conclusioni a cui sarebbero arrivati. Così ebbe modo di comportarsi come si doveva per far decretare che non aveva niente di particolare. Era sano, e gli specialisti tranquillizzarono i suoi genitori. Aveva solo un’irrilevante difetto di comprensione, che poteva essere semplicemente un disturbo dell’attenzione; forse era proprio delle sue caratteristiche mentali distrarsi per cercare una più sublime intimità col proprio io.
Da allora i genitori non si preoccuparono più dei comportamenti del figlio, pur notando di fatto una sostanziale non differenza cogli atteggiamenti precedenti. E in verità nulla era cambiato: giovanni lo stupido cogli specialisti aveva recitato in maniera sublime, era un fine attore, e pur convinto di non sapere chi fosse, pur ritenendo di non conoscere la realtà che lo circondava, in un misterioso inconscio doveva avere un’enorme sapienza dei fatti del mondo e delle attività percettive con cui l’uomo li fa suoi. Niente era cambiato, la sua personalità precedente era rimasta intatta, prova ne era che il suo fastidio per il contatto con altre persone era rimasto inviolato e aveva continuato imperterrito a cercare sé nelle carte, credendo loro e non alle ottuse boiate che continuamente gli venivano dette e non gli erano state risparmiate nemmeno dagli specialisti. Continuò a essere colui che prova una certa gioia nel sentirsi dire dagli altri che è un inferiore, gioendo della ripulsa che gli altri avevano nei suoi confronti colti da istintivo ribrezzo; peraltro la cosa era reciproca.
Il mancato uccello, o ex essere alato, giovanni lo stupido, aveva trovato anche un lavoro, il lavoro che si addiceva vista l’insofferenza che i superstiziosi uomini avevano verso di lui, spesso malcelata: impiegato alle pompe funebri.
Non che facesse molto all’interno dell’azienda. Non avendo la patente di guida non poteva portare il carro funebre ed era molto gracile per sollevare una bara, perciò se ne rimaneva sempre al quartier generale; era in definitiva un tuttofare che spesso non faceva niente. Nonostante ciò il suo datore di lavoro era stranamente soddisfatto di lui, dell’apporto che dava, e mai gli venne in mente di licenziarlo.
Dopo aver sbrigato come poteva i pochi fatti della vita, verso le diciassette sedeva al solito tavolo, accendeva la televisione come sottofondo di parole insensate, e iniziava la scoperta di sé nei semi e nelle figure delle carte che via via gli sfilavano sotto.
Gli veniva spesso di ricordarsi, nell’atto di cominciare la scoperta del suo destino, l’amore per i solitari di Baudelaire; era esaltante considerarsi “fratello di carte” di un grande poeta, bellissimo averci qualcosa in comune, sentendosi pertanto speciale come lui imitandone l’eccezionalità, che in una persona eccezionale ogni fatto della sua vita è eccezionale. Era come se la sua anima nell’atto del solitario potesse incontrare il prodigio della natura detto dagli uomini “poeta”.
E come contemplava affascinato le stagioni da quella prospettica posizione! La chiamava “il luogo del tempo” e vi provava l’emozione pura della sospensione dello spirito, principalmente quando avvenivano i cambi di stagione. Stupendi gli sembravano soprattutto i pomeriggi autunnali colmi di una luce piena seppur calante, e le finestre diventavano l’apertura su un sentimento di dispersione e riconquista della storia trasformatasi in suggestione che colloca l’azione oltre il tempo. Oh ma come non sentire l’inverno scuro e piovoso, nostalgico e decadente, di Baudelaire! La primavera rivoluzionaria di Rimbaud! L’estate trasfigurante di Mallarmé! Le stagioni si inserivano nel suo esserci al mondo quando al tavolo nel pomeriggio tentava l’apertura simbolica di sé, erano l’immagine consacrata del momento migliore della sua esistenza.
Eh sì, a giovanni lo stupido piaceva anche leggere, passione ereditata verosimilmente dai genitori che non di rado portavano libri a casa. Una citazione estrapolata dalle sue letture gli era particolarmente suggestiva, ed era infatti l’unica cosa diversa che avesse scritto nel quaderno dove segnava le interpretazioni avvenute dei solitari. Questa era la frase: “tragica è la condizione dell’uomo sulla terra”. L’autore, obliato, non veniva citato.
Saper leggere le figurazioni delle carte, afferrare il percorso simbolico di queste negli spostamenti, tutto ciò rapportato alla visione superstiziosa che aveva delle cose; questo era il rito dell’esistenza che gli piaceva coltivare, unica pienezza paventata di una vita inconcludente. Quando il destino simbolico svelatogli dalle carte avrebbe combaciato coi suoi sogni? Questa prospettiva poteva sembrare nient’altro che una fantasiosa speranza, ma quelli che lui chiamava sogni avevano in realtà altra sostanza; erano delle vere e proprie visioni della sua vita futura che preconizzavano la realtà che sarebbe avvenuta. Quindi le carte dovevano mostrargli con certezza quando ciò avrebbe avuto corso. Alcune cose domestiche si erano avverate, non aspettava altro che l’abisso della sua esistenza venisse prefigurato definitivamente dalle carte, dandogli corso nella realtà.
Sin da quando era bambino mascherava la sua solitudine calciando un pallone all’abituale muro, e in quel momento vedeva susseguirsi nella testa in modo onirico immagini scollate di grandiosi eventi che lo riguardavano, che però non rimanevano altro che una sfumatura di possibilità. Questi oltremodo rilevanti avvenimenti storici non prevedevano alcuna gloria, bensì solo una tetra soddisfazione personale per aver sovvertito l’ordine vigente fino alla disperazione del creato dovuta a un nuovo, forse più oscuro, inizio. Insomma ciò che lo avrebbe riguardato in futuro prevedeva il ribaltamento metamorfico dell’insieme costituito, una rinnovata forma dell’essere dove l’uomo sarebbe diventato un essere inferiore, come lui. In confronto a questo radicale sovvertimento della storia persino Cristo mancava d’assoluto.
Eppure, senza sapere perché, intuiva che il suo futuro, per ora niente più che sogno-visione, sarebbe stato permeato dalla malvagità. Si ritrovava spesso a giudicare lievemente ammirato figure come quelle di Hitler e Mussolini. Di loro diceva che fecero il male con ingenuità estremistica e che pertanto mai avrebbe potuto vincere. L’estremismo distruttivo palese aveva dato vigore agli anticorpi primigeni, quasi invincibili, della vita portando i due alla inevitabile sconfitta. Il male deve agire sibillinamente, senza discriminazione razziale, era il pensiero di giovanni lo stupido, minare le certezze di tutti fino al conflitto pieno di follia delle menti per arrivare così alla totale autodistruzione… questo il tragitto che doveva percorrere il male.
L’impero del male non poteva essere governato da una specie di uomo (Hitler) caricatura-sgorbio del superuomo e da un vice-uomo (Mussolini) impersonante degnamente quella figura di per sé caricaturale che è il dittatore.
Ancora oggi giovanni lo stupido si dedicava al pallone. Sedeva in camera sua, afferrava la sfera con le mani e la lanciava in aria. seguiva il volteggio della plastica e scrutava nelle facce che via via gli si mostravano, il sogno attivato, gli eventi a cui avrebbe partecipato trasformando la realtà. Così perpetuava l’idea di un futuro da protagonista, nel lancio magico di una palla in cui immaginava di vedere un destino di vittorie prima che lo raccogliesse nuovamente con le mani. Tornata, stretta tra le dita, la sfera veniva guardata da giovanni lo stupido con nostalgica gioia e premurosa tristezza.
Ma quando i responsi delle carte si sarebbero avverati? Avverate le sue visioni? Le stagioni si alternavano, si succedevano le letture simboliche delle carte che, seppur incertamente, confermavano per lui un futuro talmente luminoso da accecare, da dar luogo alle tenebre… e se assurdamente ciò non si sarebbe avverato (non è letteralmente irreale che ciò che deve necessariamente avvenire non avvenga?), magari non altro che per una sua impossibilità ultrasensibile all’azione, la storia non si sarebbe bloccata in uno stallo insensato?
Allora giovanni cominciò a pensare a una trasformazione ancor più assurda; che le carte non simboleggiassero più la storia, ormai decaduta a improbabile fantasia, e che la realtà non fosse ormai nient’altro che il simbolo di una impossibilità. Era impossibile ormai che la verità potesse regnare nel mondo a causa degli eventi necessari che lo riguardavano che non erano venuti ad essere.
Così gli dicevano le carte? Il suo destino come quello del mondo era illeggibile? Illeggibile perché lui non sarebbe mai stato quello che avrebbe dovuto essere?
Nell’intorno che rimaneva invariato, dovette sradicarsi dalla mente quelle suggestioni malate, che altro non erano, nate dal fuoco della sua possente fantasia. Più semplicemente pensò, forse a causa dell’ignoranza di fondo che lo costituiva, che non sapesse leggere le carte. Ignorante era soprattutto riguardo alla grammatica della sua lingua. Anche quando tentava di parlare correttamente non poteva evitare sfumature dialettali, perché la giusta dizione, la giusta composizione della proposizione, non le conosceva. Scriveva invero abbastanza bene quelle quattro cose che gli si richiedevano alle pompe funebri, ci riusciva sfruttando esemplarmente la sua memoria. Era perlopiù lavoro di copiatura, niente di originale gli si richiedeva.
Dunque a giovanni lo stupido non restò che arguire che la corretta lettura delle carte non gli era concessa, l’ignoranza riguardava tutto il suo essere. In passato si era illuso d’aver imparato a ben interpretare le figurazioni simboliche che “uscivano” dalle carte, ma oggi sapeva che non era così e il fatto elementare per cui non riusciva a riconoscere il suo destino era di non saperle leggere. Quella mancanza di verità che sentiva intorno a sé, e per cui ogni discorso umano non lo soddisfaceva, avrebbe dovuto concludere che era a causa della sua ignoranza… eppure dentro di sé sentiva che non era così.
Non potette fare a meno di consultare ancora una volta le carte per tentare di svelare quell’identità che il mondo gli nascondeva, ed era come se la storia potesse fare senza di lui, lasciandolo non riconosciuto a se stesso. Questo mondo incomprensibile non era riuscito a collocarlo in un’immagine di certezza. Il mondo gli aveva donato beffardamente il tranello delle carte, il vestito della stupidità, un lavoro che lo metteva con tragica ironia a contatto con l’odiata morte e la vomitevole recita del dolore da parte dei vivi, e tutto ciò lo rendeva avulso da sé, e… e speriamo che giovanni lo stupido continui a obliare di essere l’anticristo.
In questo tempo in cui Dio non sa mostrarsi negli atti e nelle leggi degli uomini, una volta immagini divine e propagazione dell’intelletto divino, tutto diventa irriconoscibile fino all’insensatezza; l’universo diviene insensato. La realtà perde di concretezza e la visione delle cose è demandata totalmente al simbolo. Al simbolo è connaturata l’interpretazione; gli eventi che via via si susseguono hanno soltanto dunque forma simbolica e necessitano pertanto di interpretazione, un’interpretazione infinita. Ma interpretare infinitamente significa che è assente una verità immanente, una “realtà in sé e per sé” che non sarebbe altre che un universo divino immanente.
Nella fatica immane d’interpretare simbolicamente le cose e donar loro una verità, verità che in questo tempo sembra sempre fittizia, l’uomo perde di lucidità, perde inevitabilmente se stesso mai riuscendo a dire il senso ultimo. Se il senso fosse Dio, se Dio fosse presente, l’uomo non sarebbe costretto a interpretare all’infinito secondo le sue misere capacità cognitive; l’universo divino è una realtà non simbolica. Ma Dio è nascosto in sé, e l’uomo costruisce il suo mondo insensato con atti divenuti irreali a causa di un io non più riflesso di Dio, un io niente più che simbolico, appunto.
In questo contesto anche il male diviene insensato nei fondamenti, diviene interpretabile e perde di specificità. Non ci può essere opposizione a Dio se Dio non c’è.
Oggi, qui, in un mondo in cui Dio non sa mostrarsi, nessuno si potrebbe accorgere dell’avvento dell’anticristo. C’è di più: nell’assenza di Dio l’anticristo cerca di interpretarsi ma non sa che simbolo è. Osserva i suoi occhi ottusi allo specchio e non si riconosce.
*giovanni lo stupido (Malacoptila fusca): uccello dei Bucconidi, così chiamato per la sua espressione ottusa e per l’indifferenza mostrata in presenza di uomini o altri animali.
Conosco bene la tua prosa Marco, così compatta e comunque fluida, una scrittura tesa ma che non si irrigidisce mai pure inoltrandosi in terre dove
il desiderio si annichilisce e le speranze sembrano disidratarsi al vento arso delle domande che non trovano alcuna risposta.
A mio modo di vedere, è un vero “conte philosophique” del terzo millennio la cui natura sembra irradiarsi in cerchi concentrici di riflessione
dall’io verso il mondo, fino a Dio e al suo opposto come grani di un rosario la cui lingua ci rimane sconosciuta.