Racconti nella Rete 2009 “Decisioni affrettate” di Loredana Papotto
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2009Avrei voluto accontentarmi delle parole qualunque esse fossero, in qualsiasi modo venissero pronunciate. Ero abituata alla parole, ero cresciuta con le parole, semplici sussurrate all’inizio. Poi erano diventate fiumi di elementi complessi, a volte imperscrutabili come i volti nascosti d’inverno nei baveri alzati. A volte calde da avvolgere, altre taglianti da lacerarti, ma pur sempre parole. Suoni da custodire, musica da ascoltare. Ogni cosa un nome, ogni sentimento un pensiero di lettere, un universo alfabetico che riempiva l’aria e colmava i pensieri. Necessarie come il respiro. Capaci di far nascere dal nulla emozioni, di guidarti attraverso le vite degli altri, di vederne in filigrana le crepe, di tastarne gli spigoli. Raccontami, dimmi, parla con me: come una mano tesa nel buio di una strada. E quelle non dette o sospese che si insinuano nei pensieri e amplificate dal desiderio di essere ti scavano l’anima, impietose.
Poi ad un tratto nella mia vita era entrato in punta di piedi il silenzio, giorno dopo giorno aveva coperto ogni cosa, scendeva piano, inaspettato e poi era diventato profondo, ogni giorno di più. Era come la nebbia, ci si perdeva dentro senza sentire nulla, ovattati dal bianco, incapaci di vedere, ciechi. Ogni direzione diventava sbagliata, ogni passo incerto, così eravamo arrivati- io e lui – sull’orlo di quel burrone. Era stato il mio urlo, quello sì che mi aveva salvato, quell’urlo aveva spezzato il silenzio. Mi aveva restituito le parole e con esse l’eco di me stessa, ora sapevo cosa fare, dove andare.
Non avevo preso niente con me, non avevo bisogno di niente lo sapevo, tutto ciò che ero, che sono è con me, dentro me, non mi serviva altro. Dovevo strapparmi al silenzio che ci aveva tarlati giorno dopo giorno fino a farci perdere la trama di noi stessi. Non avevo scelta. Lui non me ne aveva lasciata. Era scivolato giorno dopo giorno in un limbo fatto di niente, c’era ma era come se non ci fosse, come se non appartenesse neppure a se stesso. Spento, distante anche dai suoi pensieri. Giorno dopo giorno le nostre strade si erano divise. Avevo provato a scuoterlo, a fargli capire, a parlare. Gli avevo teso la mano ma lui era distratto, con gli occhi incollati al video, il corpo abbandonato sul divano.
Dove sei.
Sono stanco.
Che c’è.
Niente, un po’ d’ansia.
Cosa pensi.
Nulla.
Occhi distratti, un sorriso forzato che chiedeva di essere lasciato a se stesso. Ero stanca di guardare e mi sono girata per non vedere il muro grigio fra me e lui. Camminando da sola ho incontrato l’altro, pieno di vita e di parole. Attese, sospirate, desiderate. Sono rimasta a guardare il mondo che prendeva di nuovo forma e colore. Ma l’ho fatto nel buio della menzogna, ora non voglio più nascondere nulla. Stamattina gli ho urlato tutto il mio disprezzo, la mia rabbia, ma non gli ho detto dell’altro, non ho avuto il coraggio. Avrei voluto affondare la lama ma il dolore ha bloccato anche me. Nelle nostre parole urlate c’era il peggio di noi, anche quello che non pensavamo. Erano graffi profondi, denti aguzzi nella carne viva. Sale sparso sulle ferite. Lui mi guardava stupido, all’improvviso attento ma non è riuscito a trattenermi, sono corsa via lasciandolo da solo. Era quello che voleva.
Sono salita in macchina tremando dalla rabbia. So già che andrò dall’altro, solo un’ora di strada, il tempo di calmarmi, di riprendere possesso del respiro, delle mie parole. Cosa gli dirò?
“Ho bisogno di te, delle tue parole, del tuo calore, sono stanca del silenzio, del gelo. Sono stanca di aspettare che passi l’inverno del cuore, che finisca il suo letargo. Ho bisogno di lasciare dietro le spalle questi anni bui, voglio riprendere il mio tempo e lo voglio fare insieme a te.” No come posso dirgli queste cose, forse non è ancora pronto, avrà bisogno di più tempo. In fondo non abbiamo mai veramente progettato un futuro insieme, vero non lo abbiamo mai fatto. Non posso arrivare a casa sua all’improvviso con un biglietto di sola andata.
E’ l’ultimo semaforo in città poi la strada scorrendo veloce mi porterà da lui. Il mio rifugio. Ma non era un rifugio che volevo, non sono una bambina che i genitori hanno sgridato e che và a nascondersi dall’amica del cuore. Non erano coccole o tenerezze e neppure sesso.. no, non volevo, in realtà io non stavo cercando niente. Ero muta dentro e l’altro se ne accorto, mi ha detto di averlo capito dai miei occhi, dai miei silenzi, dai miei sorrisi stentati che non ero felice. Qualcuno che si accorgeva di me, della mia finzione al lavoro per non fare capire niente agli altri. Mi vergognavo della mia infelicità. Lui aveva guardato oltre la maschera e questo mi aveva avvicinato a lui. Forse credevo di trovare un amico….. che ingenua, che stupida ingenua. Quello che poi era successo tra noi per lui non era stata una sorpresa. Mi disse che se lo aspettava. Come se ogni trama, ogni storia dovesse avere per forza un finale scontato, ovvio. Non mi sono mai piaciute le cose ovvie, già. Allora questa cosa mi aveva dato fastidio e ora mi ritorna in mente come una cosa premeditata, studiata forse. Eppure sembrava sincero. Non ci posso credere, cosa stai facendo. Ho capito – vuoi litigare con il mondo intero. Mi sono detta calmati, respira piano. Non fare che la valanga travolga anche te, non rovinare tutto.
C’è un’area di sosta forse è meglio che mi fermi. Le macchine passano veloci, mi volto per non vederle, così posso solo sentirle. Sono troppo confusa, all’improvviso è come se non sapessi più dove andare, come se avessi perso la direzione. In effetti non so se veramente voglio andare dall’altro, so di non volergli dire che ho lasciato mio marito, che ho litigato con lui. Litigato, in realtà ho tirato fuori tutte insieme le parole cresciute nel silenzio dei nostri pranzi, delle nostre serate, le parole non dette, le parole mancate. Non voglio dirgli che ho bisogno di aiuto, non voglio dirgli che ho bisogno di lui. In un attimo, in questo attimo preciso ho capito che non avevo bisogno dell’altro, ho capito di non amarlo. Ho paura di ciò che penso, il cuore mi batte troppo forte mi confonde. Sono arrivata a questo per paura di sapere cosa provo e cosa no. Ho paura di dirmi come stanno le cose. Sospiro, passeggio e le macchine alle mie spalle corrono veloci. Respiro e cerco di calmarmi.
Rivedo la mia vita, rileggo i silenzi e in mezzo ad essi ritrovo i momenti belli, li ritrovo uno dopo l’altro, riaffiorano inattesi. Non mi ricordavo di loro, sommersi dal vuoto dei silenzi, dalla rabbia di una felicità negata. Cosa ho fatto, dove ero in tutto questo tempo, quale vita ho vissuto. E’ come ritrovarsi in luogo sconosciuto senza capire come ci si è arrivati.
Non ho fatto niente per capire quel silenzio e ho lasciato che mi invadesse l’anima. Non ho più ascoltato neppure me stessa, ma solo una voce lontana che mi urlava in testa.
Arriva un messaggio, lo leggo ma so già cosa fare e dove andare.
Prima di tornare a casa, voglio andare dall’altro. Per ricominciare bisogna finire. Ad ogni inizio un epilogo.
Ormai non ho più fretta, né paura. Gli ultimi chilometri.
La porta dell’ascensore si apre ed esce una ragazza dai lunghi capelli castani. Mi faccio da parte per lasciarla passare. Il suo profumo ha riempito il vano dell’ascensore, mi pare di non respirare, starnutisco a ripetizione. E poi mi guardo allo specchio. Mi riconosco nei capelli in disordine, nel viso sfatto senza un filo di trucco. Mi passo le mani sul viso, dovrei, potrei passare almeno un po’ di lucido per le labbra. Ma perchè poi. Già.
Uscendo dall’ascensore riprendo a respirare. Busso.
Apre la porta e quel viso che conosco ha una maschera che non avevo mai visto prima. Non sorride, sobbalza tirandosi un po’ all’indietro. Quante cose dicono quegli occhi, quante e le parole che dice non le sento più, non corrispondono al movimento delle labbra, delle mani, alla mimica del viso.
Avrei voglia di correre via, ma era questo che volevo vedere e voglio guardare fino alla fine.
“Vado a fare la doccia” mi dice.
“Certo” rispondo, vai vai. Ricomponi le idee gli sussurro dietro ma lui non può sentirmi.
Il rumore dell’acqua, ha lasciato la porta aperta.
Prima di andare via apro la finestra, quel profumo è annidato in tutta la casa, persistente.
Fa freddo e non ho tolto neanche i guanti di lana, mi sistemo la sciarpa e chiudo la porta dietro di me.
Non prendo l’ascensore è saltata la luce in tutto il palazzo, non ho mai capito perchè avesse scelto per viverci un luogo così fatiscente, fermo immagine di almeno cinquanta anni fa.
Scendo per le scale, vuote, di mattina sono tutti a lavoro. Solo al secondo piano una vecchietta chiede a se stessa cosa succede. Io sono già fuori, in macchina, verso casa.
Ho avuto paura di perderla, c’è mancato poco. Abbiamo litigato e lei era andata via. Prima mi aveva urlato il suo disprezzo, la sua rabbia. Non mi ero accorto del suo dolore, l’avevo lasciata sola. In realtà ero io che volevo stare solo. A volte è così difficile stare in due, dover per forza parlare quando non ne hai voglia, grattarsi le palle in libertà senza nessuno che ti guardi, senza nessuno che ti giudichi. Volevo stare un po’ per i fatti miei. Avevo bisogno del mio spazio, del mio tempo, anche di sciuparlo come mi pare. Ma lei non lo capisce è diversa, è una donna. Deve parlare, chiarire, analizzare, comprendere e cambiare, cambiare le cose per migliorarle dice. E’ così faticoso dover sempre stare attenti. E’ così sensibile, attenta, non le scappa niente, pare voglia leggermi nei pensieri, impossessarsene. La vedo che mi scruta, ma non posso fare a meno di lei.
Da quel giorno è cambiata, non è più la stessa. E’ lo sguardo che a volte mi fa paura, c’è un lampo che le attraversa gli occhi. Guardavamo insieme il telegiornale, parlavano ancora di quell’uomo trovato fulminato con l’asciugacapelli sotto la doccia. Hanno arrestato una donna che aveva passato la notte con lui, ci sono tracce di lei in tutto l’appartamento, impronte anche nell’ asciugacapelli ma lei dice di essere innocente e di averlo lasciato vivo in casa. Parla di una donna incontrata in ascensore ma non sa aggiungere altro.
Ho detto “ chissà dove sta la verità”.
Eravamo seduti fianco a fianco e si è voltata a guardarmi. Aveva quello sguardo nero, profondo come un abisso. Mi ha fatto paura.
“Non si sa mai dove sta la verità” ha detto.
Si è alzata ed è tornata con una fetta di torta alle mandorle. Dall’odore sembra squisita.