Premio Racconti nella Rete 2014 “La Torre Orologio” di Beatrice Corradini
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014Per tutta la vita mi hanno detto che dovevo arrendermi. E finalmente l’ho fatto. Gliel’ho data vinta, avevano ragione su tutto. L’ultima cosa che ricordo è la luce bianca al neon che ronzava sopra di me, i moscerini morti appiccicati dentro e l’odore ferroso della pozza di sangue che si allargava sotto la mia testa. Ora posso dirlo: sono morta annegando nel Mar Rosso.
Ma adesso che ho posto fine alla mia breve esistenza di acerba diciottenne, mi accorgo che il Paradiso non è proprio come me lo aspettavo. Che strano. Di fronte a me si srotola una landa di erba verdastra, scura, e sulla sinistra la catena montuosa avvolta dalla foschia grigioblu costeggia la vallata. C’è dell’acqua, qualcosa che assomiglia a un lago molto più avanti, e il sole ci si tuffa dentro sparpagliandosi sulla superficie in cristalli di luce. Altri pianeti ruotano nella volta celeste, grandi dieci volte la Luna: uno ha la faccia butterata di frammenti splendenti, un altro è più piccolo, di un verdazzurro abbagliante, e quello, quello deve essere uno spicchio di Terra.
Cammino verso il lago, perché è quel che mi dice il mio istinto. E anche perché vengo attirata, come le zanzare sono attratte dalla luce, verso quella costruzione che cammina sulla riva. Sì, cammina.
Man mano che mi faccio più vicina mi accorgo che si tratta di una torre tozza dalla forma a tronco di cono, scura, e il cui stile mi ricorda un’accozzaglia mal riuscita tra l’ambientazione di un videogioco steampunk, un edificio gotico-manuelino e un teatro burlesque della Belle Èpoque. Sbuffi di vapore vengono sputati dalle zampe meccaniche che svettano sopra di me, assieme a filamenti di fumo che serpeggiano dalle giunture. Statue allungate si affacciano sul nulla, incastonate nelle nicchie che costellano la costruzione, e in alcuni punti sporgono giardinetti e balconcini intagliati nel legno; distinguo solo panneggi purpurei che svolazzano attraverso le finestre.
L’articolazione del rivestimento esterno è a dir poco confusionaria. Sembra che per edificare questo mostro siano stati riciclati pezzi inservibili, e poi riadattati fra loro alla bell’e meglio. Un gigantesco ragno meccanico tenuto su da bulloni e vecchi mobili, ecco cos’è.
« Emma » gorgoglia la macchina, e io mi irrigidisco. È il mio nome.
Il mostro trema avvolto dalle nuvole di vapore, l’odore acre di cherosene che mi fa lacrimare gli occhi, e le zampe si lamentano mentre si piegano. Qualche vite salta schizzando, e la bestia si “siede” sollevando erba e polvere, i cumulonembi bianchi che la inghiottono.
Adesso davanti a me c’è un portone di bronzo intarsiato. Due statuette ricaricabili con meccanismi a molla si inchinano a scatti, quasi per salutarmi, e mi fanno cenno di entrare accompagnate da un ticchettio di ingranaggi. Le porte si richiudono alle mie spalle e tutto vibra come scosso da un violento terremoto: la macchina si sta rialzando.
Mi ritrovo in un salone che si articola per lungo, e sul fondo si erge un trono avvolto dalle ragnatele. Alle pareti nere sono addossati specchi incrostati dagli anni, incastonati dentro cornici elaborate. Avanzo un passo nella penombra rischiarata solo da un raggio bianco che piove dal rosone sopra la porta d’ingresso, poi mi fermo con i piedi nudi su un bassorilievo scolpito nel pavimento. È un orologio. Sopra è incisa la frase: Il tempo è mistero solo in vita.
Rimango a contemplare quelle parole cercando di dargli un significato, quando un fruscio mi distoglie dai miei pensieri. Mi volto, una risata gelida riecheggia nel salone. Il suono di un clavicembalo scordato la segue.
La mia immagine si materializza in uno degli specchi e fisso quella figura sottile, pallida, con i capelli castani arruffati sulla schiena. Ho la maglietta e i pantaloni del pigiama ancora imbrattati del sangue in cui sono annegata. Ma non sono sola, c’è una sagoma nera accanto a me. Neri sono i suoi capelli, i suoi occhi di petrolio e il pastrano in cui è avvolto. Ha la pelle cinerea, il volto scavato, memore di un’antica bellezza, ed è circondato da una patina di fumo.
« Sei morta » mi dice. « E presto dimenticherai com’è successo, insieme al tuo nome, alla tua famiglia, a chi amavi. Succede sempre, quando il tempo scorre. »
« Chi sei? »
« L’Ombra. Il custode di questa Torre Orologio, insieme al Drago. Lui è il guardiano del tempo di tutti noi, e non bisogna mai svegliarlo ».
Mi giro a guardarlo negli occhi: vorrei chiedergli perché, ma per qualche strana ragione rimango in silenzio. L’Ombra spalanca le braccia e vola all’indietro, il vapore nero che lo circonda. « Qui finiscono tutte le cose dimenticate o che nessuno vuole più: gli oggetti, le persone, le idee… sbiadiscono con il tempo ». Fa una pausa e, prima di scomparire in una nuvola scura, dice solo: « Rimarrai incatenata qui per l’eternità. »
Sento improvvisamente un peso gravarmi addosso come se dovessi sorreggere la Terra sulle mie spalle, e mi guardo i polsi, le caviglie, mi sfioro il collo e il petto: catene. Scompaiono poco dopo insieme al loro peso, ma ne avverto ancora una che mi appesantisce più delle altre.
Quella che pende dal cuore.
***
Sono passati mesi, forse anni, e sono rimasta la stessa. Non riesco a starmene chiusa nella stanza che mi è stata affidata, la Tremilacentoventi. Sono seduta su una panca nel corridoio rivestito da tappeti e polvere, i finestroni sfondati da cui si vedono le montagne innevate scorrermi davanti, simili a giganti addormentati. Piango in silenzio, sola e incatenata.
« Perché sei triste? » Qualcuno mi si siede vicino. È una di quelle persone che non sapresti definire ragazzi o uomini. Ha lineamenti armoniosi, un naso dritto e il labbro superiore carnoso, ma qualcosa di questa Torre l’ha cambiato: ha pelle e capelli bianchi, gli occhi due cavità fatte di materia oscura dell’universo. Le ciocche candide gli ricadono sulla fronte, e quando lo guardo si gira dall’altra parte, quasi avesse capito che sto fissando i suoi buchi neri.
« Non sono triste. Non è detto che se qualcuno piange è triste, sai? Magari è il contrario. »
« E allora dimmi perché sei felice. »
« Non ho detto di esserlo ». Mi asciugo le lacrime dalla guancia e mi avvicino alla finestra, il vento che mi congela la pelle umida. « Mi sono uccisa per bisogno di attenzione, perché non sopportavo più di essere ignorata. E invece se sono qui significa che di me non importava niente a nessuno. »
« Sei stata dimenticata. »
« Sono stata dimenticata. » Come un giocattolo lasciato in soffitta, ingoiato dalla polvere.
« Come ti chiami? »
« Emma, credo. »
« Lo vedi? Ricordi ancora il tuo nome, e tienitelo stretto, perché non importa se non rimarrai nei ricordi di nessuno. Importa solo che non ti dimentichi di te stessa, altrimenti non apparterrai più a nulla ». Lui si alza e mi si avvicina.
« Tu come ti chiami? » gli chiedo.
« Qui sono conosciuto come il Fantasma ». Il Fantasma china il capo e mi prende per mano. « Quando è il luogo in cui ti trovi a darti il nome, significa che ti sei arreso a lui ». Mi tira per invitarmi ad alzarmi in piedi. « Vieni, andiamo sul tetto. »
Sul tetto i pianeti che ho visto il giorno in cui sono arrivata qui sfavillano nella volta di pece nera, immersi in oceani di stelle. « Quelle sono Gaia e Selene, » dice indicandomi la Terra e la Luna. « Il pianeta costellato da crateri di luce lo chiamiamo Frisa, mentre l’altro è Marea. »
« Sono bellissimi. »
« Sono l’unica cosa che non rimpiango della Terra. Da lì non si vedeva nulla, invece ora le stelle sono l’unica consolazione quando le nottate si fanno tediose ». Una brezza tiepida mi scompiglia i capelli, e il Fantasma dondola sulle punte dei piedi, le mani in tasca. Rimaniamo a parlare di universi lontani, di quelli che non raggiungeremo mai, e io gli racconto quel che ricordo della vita. L’aria, il cielo, i volti marcati dalla routine delle persone. Gli racconto che sono morta sparandomi un colpo alla testa con la pistola di mio padre, un ex poliziotto, ma confesso di non essere molto soddisfatta di quel che ho fatto, visto che non ho risolto granché.
Allora il Fantasma prende la catena del mio cuore, poi la sua, ed entrambe cedono sotto la pressione di quelle dita, come se il metallo fosse una patina di brina cristallizzata. Si sparpagliano in una marea di particelle di luce, poi le unisce sotto il mio sguardo impotente.
« Tu hai dei ricordi, » mi dice, « qualcosa che io ho perso. Adesso li condivideremo per l’eternità, io, te e nient’altro. Solo così potrò riascoltare il fruscio degli alberi e della vita ».
***
Non svegliate il Drago, mi aveva detto l’Ombra.
Dorme nella pancia della Torre, accanto alla Grande Caldaia che sorregge in piedi la baracca, quella che ci permette di camminare. Io procedo verso la stanza in cui si trova il mostro, la Camera della Sabbia, dove si dirama un labirinto di scaffali contenenti miliardi di clessidre. Proteggono la vita di ogni individuo, insieme alla memoria collettiva. Il ventre del Drago si alza e si abbassa, le scaglie purpuree fremono, le zampe muscolose si gonfiano.
Lui è il guardiano del tempo.
Mi arrampico sulla sua schiena e mi sdraio poggiando l’orecchio sulle squame. Ascolto il battito del suo cuore, il suo respiro. « Svegliati, » gli sussurro nell’orecchio. « Svegliati. »
Il Drago solleva la testa verso il soffitto e ruggisce al Sole. Spalanca le ali di sottile membrana rosata, agita la coda abbattendo gli scaffali che crollano gli uni addosso agli altri, il tempo della Terra si interrompe. Siamo avvolti da una nuvola di sabbia argentea che turbina nell’aria, e il Drago spicca il volo diretto verso la libertà.
Ci schiantiamo contro il finestrone che fa breccia nel muro, i vetri piovono nel nulla in una cascata di cristallo, e quando siamo fuori l’aria ci avvolge insieme all’odore dei motori.
« Aspettami! » Qualcuno si sbraccia da una delle finestre e mi accorgo che è il Fantasma. Si lancia nel vuoto, ma non cade, perché la catena che ci lega lo sorregge. Si arrampica fino a sistemarsi dietro di me, e le ali del Drago si gonfiano d’aria. Ci dirigiamo verso il tramonto lasciandoci inghiottire dai cirri e dai cumulonembi accorpati come cadaveri di ovatta sporca, osservando le nostre ombre proiettarsi sul mare di vapore acqueo.
La Torre Orologio si allontana, l’Ombra si allontana.
Nel momento in cui anche la mia clessidra è andata in frantumi, il tempo ha cessato di esistere, così come quello della Terra e del Fantasma. Siamo senza tempo, come questo mondo, e nulla ci vincola più alla bestia di metallo. Nulla ci vincola più ai ricordi degli esseri umani, perché hanno smesso di esistere.
Saremo ricordati, adesso, ma non dagli altri.
Da noi stessi.
La solitudine dell’adolescenza, l’egoismo dell’adolescenza e la fantasia che li rende reali. Un racconto che mette un brivido ma la conclusione esprime un plurale e apre le porte ad un futuro di condivisione.
Il susseguirsi di immagini oniriche e surreali creano la tensione giusta per desiderare di sapere “come và a finire se la fine già c’è stata?” E il finale invece sorprende inviando un messaggio augurale e reale.
Le immagini sono fotografie e non riuscire ad immedesimarsi in Emma è impossibile!Uno dei migliori racconti che abbia letto,complimenti!
Grazie ad entrambi 🙂
Spettacolare, per le ambientazioni, i personaggi e il modo di scrivere i dialoghi. Ha un suo stile particolare, e il finale sorprende.
Complimenti.
Racconto interessante , originale modo di accostarsi ai problemi dell’adolescenza. Si legge con interesse fino all’ultimo rigo.