Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2014 “Gambling” Renzo Semprini Cesari

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014

La nebbia del primo mattino si stava diradando, ma il sole faticava a rimpiazzare la notte che ancora avvolgeva la collina e, più in basso, il sentiero che avevano seguito per giungere lì attraverso una falla nella recinzione. I treni merci continuavano a manovrare di fronte a loro senza soluzione di continuità, sotto gli artigli onnipresenti delle gru e dei paranchi. Una lingua di cemento larga tre metri attraversava in perpendicolare lo snodo ferroviario: dieci coppie di binari; il buio non permetteva di vederne la fine.
Ogni tanto l’onda d’urto, il clangore e il rapido alternarsi di scompartimenti bui e scompartimenti illuminati interrompevano la visione del monotono girovagare di quelle scatole di metallo: lente, squadrate, gigantesche processionarie ferrate. Rispetto ai merci correvano veloci gli interregionali, ma non abbastanza, non erano i loro treni.
– Quante volte ancora dovremo venire? – Ansimò lei, logora, gli occhi dispersi a guardare le grandi braccia meccaniche che scaricavano, sollevavano e spostavano container da una parte all’altra. Il piazzale, ricucito di binari, era una tavola di laminato con sopra un domino enorme di container variopinti che mutava la propria conformazione e ad ogni cambiamento: stridere di freni, sbattere di catene, tonfi sordi degli agganci dei vagoni.
Da quando erano lì, ormai più di dieci minuti, inermi, non avevano ancora detto una parola e quella domanda, secca, s’incuneò tra frastuono e silenzio con tutta la sua inutilità, poiché priva di risposta.
– Non vuoi farlo più? – Replicò lui con le mani fiacche, appoggiate sulle ruote della carrozzella.
Sterile scambio di pensieri cui lei non diede seguito per rassegnazione.

Le cataste di container di fronte a loro, dall’altra parte della spianata, continuavano ad essere dissolte e ri assemblate sotto i loro sguardi disinteressati, le narici invase dall’odore di zolfo, ferro contro ferro e grasso da officina.
Questa volta fu lui a violare il macchinoso silenzio.
– Sembrano bigattini. – Gli occhi persi attraverso i merci in manovra.
Il turbinio dell’ennesimo regionale, più lento, rimbombò cupo nella direzione opposta a quella di prima.
– Bigattini?
– Sono colorati, non hanno un capo e una coda e si muovono senza un senso e una meta.
– Questi container ce l’hanno un senso e hanno anche una meta. – Disse lei con un barlume di speranza.
– Invece noi qui – sussurrò lui, la voce quasi coperta dagli strascichi del treno – un senso non ce l’abbiamo.
– Non volevo dire questo.
Lui tacque. Lo sguardo fisso davanti a sé, oltre i binari, verso il buio.
– Sei cattivo e crudele, non volevo dire questo e lo sai, se no non ti avrei portato qui.
– Ce l’avrei fatta anche da solo.
Ancora il passaggio di un treno, lento, sul binario più vicino, a scandire il tempo del loro difficile dialogo.
– Accidenti, bisogna sempre dosare le parole con te: intendevo dire che non sarei venuta se avessi pensato che non ha senso.
– Comunque potevi stare a casa. – La interruppe.
– No, non potevo – riprese lei – finché avrai bisogno di farlo lo farò con te.
Appena in lontananza la catena di una gru si allentò facendo ballare il container che stava agganciato a tre metri dal suolo, il portellone si aprì e sbatté contro il fianco, era inclinato indietro, non uscì la merce, solo rumore.
– Finché morte non ci separi?
A questa battuta lei non rispose.

Avevano lasciato il furgone, come le altre volte, fuori della recinzione, con le portiere chiuse senza sicura e le chiavi sopra il cruscotto. Prima di allontanarsi avevano anche aspettato che il montacarichi laterale si fosse riposizionato sotto il pianale: non provavano rispetto per la propria vita, per quel furgone si: se qualcuno, dopo, lo avesse preso, lo avrebbe trovato in buone condizioni.
Era l’unico residuo della loro vita, quel furgone, e per assurdo anche il passaggio al vuoto di quella attuale. Su quello avevano girato tutta l’Europa, tra le vacanze d’estate e le sue gare di enduro nel resto dell’anno. Stefano correva con la gioia in corpo. Vincere o perdere faceva differenza, non aveva mai condiviso il motto decubertiano, ma quando correva era sereno, felice, faceva quello che più gli piaceva e lei si nutriva di quella sua gioia: Stefano era tutta la sua vita.
L’ultima gara l’avevano fatta due anni prima, alle Cascatelle di Trieste. Virginia adorava Trieste, la faceva sentire una donna d’altri tempi.
…piccolo cabinato che trasportava frutta e verdure, poco più grande di un ape.
Dopo la gara avevano cenato a bollito misto e cren in un’osteria a due passi da Piazza Unità. Una birra, crauti e senape, il piatto a forma di maialino. Virginia era rimasta impressionata dalla lingua del maiale tagliata a fette. “Come fai a mangiare quella roba? Cannibale!”
…in uscita dalla galleria naturale e aveva invaso la loro corsia.
Anche a Stefano faceva senso la consistenza di quella parte, ma lo divertiva mangiarla con gusto, in barba al volto schifato della sua donna.
Sulle Rive, nell’ampio parcheggio a due passi dal molo Audace, prima di ripartire per casa Stefano aveva controllato ancora una volta che la ktm exc 125 fosse ben ancorata al suo carrello: la sicurezza non era mai troppa. Superata la stazione ferroviaria, il lungomare di Barcola e alla fine il castello di Miramare, avevano inforcato la Strada Costiera che risaliva fino a Sistiana dove avrebbero preso l’autostrada. Era notte. Il mare sotto di loro una macchia scura che in lontananza assorbiva le luci del golfo di Trieste. Dal finestrino appena abbassato entrava aria fresca e odore di collina.
Un piccolo cabinato che trasportava frutta e verdure, poco più grande di un ape, aveva sbandato in uscita dalla galleria naturale e aveva invaso la loro corsia. Virginia stava già dormendo sul sedile d fianco, ben legata. Stefano era stanco, ma guidare non gli pesava.
Preso di mira dalle luci del cabinato che lo puntavano come occhi di una fiera che attacca perché impaurita, aveva sterzato sulla destra, verso la parete, sperando di riuscire a infilarsi in un varco sempre più stretto.
Il primo impatto fu dello specchietto e del paraurti contro la roccia. Poi la ruota destra balzò su una sporgenza mentre il piccolo cabinato impattava su di loro, spigolo contro spigolo, facendo sbattere tutto il muso del furgone contro il fianco della montagna per rimbalzare dall’altra parte della carreggiata. Il carrello con la moto si sganciò dal furgone e prese a scivolare all’indietro per finire fuori strada un centinaio di metri più in basso, in un’ansa non pericolosa. Il cabinato fece due giri su se stesso e si arrestò contro un paramassi. Frutta e verdure cosparse lungo la strada. Gomme bruciate sopra l’asfalto e puzza di benzina. Il furgone si incuneò dentro il guard rail che resse l’impatto, accartocciandosi intorno a questo. Virginia sbatté la testa contro lo specchietto retrovisore e si lussò una spalla strattonata dalla cintura di sicurezza. Stefano si tagliò l’avambraccio sinistro con i vetri del finestrino un istante prima che la spina dorsale si spezzasse come un grissino all’altezza della quarta vertebra lombare.

– È freddo. – Disse lei – Dovevi prendere il giubbotto. Chiuditi la maglia almeno. – Uno sbuffo d’alito si dissolse appena uscito dalla sua bocca, prima di depositarsi sui bei capelli mossi di Stefano che iniziavano a macchiarsi sale e pepe.
Lui alzò lo sguardo verso di lei con i soliti occhi spenti degli ultimi anni. – Perché potrei prendere un mal di gola. – Senza intonazione, senza punto di domanda.
Lei comprese l’inadeguatezza della propria osservazione e si sentì tremendamente stupida, ma anche ferita.
Più lontano i treni merci continuavano a fermarsi lungo binari ciechi dove venivano alleggeriti di container che avrebbero potuto celare i più grandi tesori della terra. Vicino a loro, sui binari attivi, scorrevano treni sempre più veloci: non più l’alternarsi degli scompartimenti brevi degli interregionali, ma i lunghi vagoni degli intercity: treni eleganti, spostamento d’aria più forte, motrici leggermente più affusolate per fendere l’aria, pronte a spazzare via eventuali ostacoli sul proprio cammino.
Stefano si ricordò di un video visto su internet che riproduceva il crash test fra un treno e un contenitore di materiale nucleare. Per verificare la resistenza del contenitore gli veniva scagliato contro un convoglio a 160 chilometri orari. Il contenitore, incredibilmente, dopo l’impatto risultava ammaccato ma integro. Se fosse successo a loro non avrebbero avuto la stessa sorte: lì stava il gioco.
– Hai ragione, è freddo. – Aggiunse lui dopo un poco, più per rabbonirla che per la reale percezione corporea; non poteva permettersi che lei si fermasse e cambiasse idea: non per il rischio di lasciarla sola, non era altruista Stefano, non più, ma perché, proprio se ce l’avesse fatta anche questa volta e questa volta l’avesse fatto da solo, si sarebbe trovato al fianco la stessa donna spenta di adesso. Sebbene lo spento, non poteva ammetterlo, fosse quasi esclusivamente lui.
– Non importa.
– Se non te la senti puoi tornare indietro. – La sfidò, per legarla ancora più stretta a sé.
Lei lo guardò, stanca, ancora offesa dalla durezza che le aveva riservato fino ad allora ma anche speranzosa che lui potesse cambiare idea. – Tu vuoi tornare indietro?
Lui sorrise amaramente. Una sola volta. – Sarebbe peggio.
– CRISTO! – Imprecò lei sfidando con la voce lo sferragliare dei treni. – L’ultima volta è stato meno di due mesi fa. Non possiamo continuare così.
– Vai via se non te la senti. – Ancora un bluff. Sapeva che lei non avrebbe resistito.
– Dico solo che… – Esitò lei. – Dove vuoi che vada. Sarei nulla senza di te.
Il rumore di una sirena riecheggiò in lontananza. Stava per iniziare un nuovo turno di lavoro.
– Io lo sono già. – Dichiarò lui, questa volta a carte scoperte.
Era una partita infida, inutile, un gioco al massacro che non poteva avere né vinti, né vincitori. Non valeva la pena neanche bluffare.

La notte era quasi finita, ma il lato opposto della spianata, contro il crinale della collina, era ancora avvolto dalle tenebre. S’intravedeva appena la luce del sottopassaggio che li avrebbe portati indietro in maniera sicura, se ci fosse stato un dopo. Venti binari, l’odore di ferro, di zolfo e di grasso da officina e una striscia di cemento larga tre metri percorsa da treni distratti e assonnati. Incustodita, buia.

All’estremità dell’orizzonte due punti luminosi stavano convergendo verso di loro.
– E’ ora. – Disse Stefano. La carrozzella perpendicolare al primo binario, a un metro di distanza. Il battito del cuore accelerò all’improvviso. Le mani si strinsero sui ferri delle ruote. Freddi. I due puntini si avvicinavano con la velocità di due intercity che correvano l’uno incontro all’altro. A 160 chilometri orari ciascuno, avrebbero percorso le poche centinaia di metri che li separavano in meno di quattro secondi. Un margine brevissimo. Virginia non avrebbe avuto il tempo di pensare. Non c’era spazio. Invece nella sua mente, in meno di un secondo, si concretizzò l’idea che stava di nuovo per mettere la propria vita, quello che ne rimaneva, nelle mani del destino. Una vita sfibrata. Un rapporto logoro. La fatica di affrontare ogni giorno un uomo che aveva perso la voglia di vivere, l’incapacità di lasciarlo. La paura di farsi trascinare sul fondo. La paura di restare sola. La paura di sentirsi in colpa.
Il grido di Stefano la riportò in sé: lo avrebbe dovuto fare prima, pensare, ora non c’era più tempo; ora poteva solo impartire tutta la propria forza sui manici della carrozzella e questo fece, fino a diventare un tutt’uno con quell’agglomerato di ferro e gomma che fagocitava il proprio uomo.
– E’ ora cazzo andiamo, VIRGINIA ANDIAMO! – Era già passato un secondo: restava sempre meno tempo, sempre meno spazio.
I due punti luminosi erano palesemente diventati due treni che correvano veloci. I rumori, ora che erano vicini, per un attimo affiancarono quelli dei merci che continuavano a manovrare indifferenti e poi subito li contrastarono fino a fondersi in un accordo infernale che sovrastò ogni cosa. Un istante prima che i due convogli sfilassero uno di fianco all’altro sbattendo onde d’urto contro i reciproci finestrini, i macchinisti intravidero un agglomerato donna, uomo, carrozzella rimbalzare sui binari. Come dadi.
Strilli di sirena. Luci abbaglianti. Adrenalina iniettata nelle vene: lacrime di quella vita che sembrava persa.
Lo spazio tra i due treni, come il tempo, era diventato qualcosa di relativo. Le ruote della carrozzella sobbalzarono incrociando i binari infossati nel cemento che tremava per le vibrazioni al passaggio dei convogli. Stefano e Virginia non le sentivano quelle vibrazioni, solo i cuori a spaccare i polmoni, i muscoli di lui irrigiditi, quelli di lei tesi a spingere e a contrarsi, un solo corpo e un solo sguardo proiettato dall’altra parte della spianata: senza fiato, senza pensieri, orfani del passato, ancora indegni di un futuro.

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