Racconti nella Rete 2009 “Digli che…” di Cristina Cardone
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2009Sono arrivato alla stazione
Sto aspettando il treno.
È in ritardo rispetto alle previsioni, ma sono sicuro che arriverà da un momento all’altro, mentre, magari, sto sorseggiando una tazza di tè, oppure ingerendo uno dei miei medicinali, o, addirittura, mentre riposo gli occhi assopito.
Speriamo che qualcuno mi aiuti a salire.
In verità non sono troppo convinto di partire, ma sento che non posso rinviare, perché sono atteso.
Mia moglie mi attende, mi dice che tutto è pronto.
La festa è organizzata, manco solo io, il festeggiato.
Tuttavia, ancora qualche piccola incombenza qui l’avrei da fare.
Sono combattuto, ma sono ormai giunto alla stazione con la valigia che era pronta da un pezzo.
Dentro ho poche cose. Poche e significative, ricche, preziose… i miei ricordi, il mio rimpianto, il mio dolore.
Devo salutare mio figlio. Devo ancora comunicare qualcosa e dirgli le parole che non gli ho detto.
Dobbiamo salutarci, stringerci in un grande, affettuosissimo abbraccio che sigillerà il nostro amore.
Abbraccio che si scioglierà in qualche calda lacrima accompagnata dal rammarico, ma anche dall’accettazione… tutto è compiuto.
Devo dirgli che gli voglio bene e aspetto di sentirmelo dire.
Che bello Paolino, con i suoi riccioli rossi e il mare negli occhi.
Quanta speranza in quegli sguardi sognanti e in quelle manine tozze che mi stringevano impaurite ad ogni tuono, ad ogni fulmine. Si fidava del suo babbo. Sapeva che ero lì a proteggerlo.
La domenica mattina, ci mettevamo a festa e ci recavamo a messa, poi, tornando a casa, facevamo una breve sosta dal pasticciere per il dolce della domenica.
A scuola era il primo della classe, sempre composto ed educato, orgoglio del maestro e anche nostro. Ma era sempre serio e taciturno.
Alle scuole medie anche i professori si preoccupavano. Noi lo incalzavamo, ma la sua timidezza sembrava insormontabile anche in famiglia.
Non aveva amici, non veniva invitato alle feste, passava le domeniche in casa a leggere, quasi divorando tutti quei libri.
Un giorno tornò livido, con un occhio tumefatto.
Ci disse che era caduto dalla bicicletta, ma venimmo poi a sapere che aveva avuto una colluttazione con altri ragazzi di cui non ci volle mai parlare.
Verso i sedici anni, la madre si rese conto che Paolo era diverso dagli altri, che il suo isolamento era forzato perché tutti lo emarginavano e qualcuno lo derideva. Lo aveva sorpreso a singhiozzare chiuso in camera sua e da allora, prestando attenzione, più volte lo aveva sentito piangere.
Dopo la maturità, tentò di suicidarsi, ma ringraziando Iddio, lo prendemmo appena in tempo. Si era tagliato i polsi e aveva già quasi perduto i sensi quando per uno strano presentimento, entrai in bagno e lo vidi nella vasca rossa di sangue.
Fu soccorso immediatamente e riportato in vita, ma venne trattenuto per ulteriori accertamenti e infine, fecero una diagnosi strana, che ci lasciò basiti.
Lo trasferirono in un altro reparto e lo sottoposero a tutti gli accertamenti e terapie che i loro sospetti di natura psichiatrica richiedevano: compreso l’ettroshock.
A quei tempi non si scherzava.
Lui sempre taciturno, non reagiva, non si opponeva, si lasciava fare di tutto, come rassegnato. Ci guardava e taceva.
Ne uscì sano e determinato a dare una svolta alla sua vita.
Si impegnò anche nel volontariato, collaborando con la Caritas e, contemporaneamente, portò a termine gli studi universitari, laureandosi in chimica.
Non volle nemmeno fare la festa di laurea, tanto non aveva amici.
Quattro mesi più tardi, trovò impiego presso un’azienda farmaceutica e piano piano, fece anche una discreta carriera.
Proprio in quell’azienda conobbe una ragazza tanto carina, di buona famiglia, cattolica osservante.
Si innamorarono e dopo un breve periodo di fidanzamento, si sposarono.
Che bella festa, che gioia per tutti.
Il mio Paolo era finalmente felice e realizzato e con lui, anche noi. Si chiudeva un periodo difficile, di ansie e preoccupazioni. La nuova era di Paolo si prospettava rosea, all’insegna dell’amore e della famiglia.
La triste adolescenza era alle spalle e più niente lo avrebbe turbato.
Dammi un sorso d’acqua, per favore.
Nel 1991 nascesti tu, Loretta, e portasti la gioia più grande in famiglia. Tutti stravedevamo per te.
Sai che bei vestitini ti cuciva l’altra nonna? La mamma di tua madre era una brava sarta
e tu eri una vera principessa, allegra, vivace, piena di energia.
Tuo padre – visto che la mamma andava al lavoro molto prima di lui – ti svegliava, ti preparava e ti portava all’asilo, prima di recarsi al lavoro, e la sera ti raccontava una fiaba per farti addormentare. Ti alzavi con lui e ti addormentavi con lui. La tua mamma si occupava del resto.
Eravate una gran bella famiglia, serena e gioiosa. E anche noi nonni eravamo coinvolti da questa felicità.
La tristezza, però, era alle porte. La mia Maria, tua nonna, se ne andò dopo una breve e fulminante malattia, lasciandomi solo e sperduto nella casa.
Dovevo imparare a gestirmi autonomamente. Lavare, cucinare, riassettare la casa, stirare.
Non riuscivo ad abituarmi a vivere senza di lei. Ero depresso, senza forze, ma la tua gioia di vivere era tale che mi travolse e mi ridestò.
Per fortuna, toccava a me venirti a prendere all’asilo tutti i pomeriggi e insieme, ce ne andavamo al parco, fino al tramonto. Mano nella mano, proprio come facevo con il tuo papà.
Ma la bufera era appena iniziata, e stava per travolgere tutto e tutti, lasciandoci le macerie.
Un giorno di marzo, tuo padre si presentò inatteso a casa mia ed aveva la stessa espressione triste di quand’era ragazzino.
Mi disse che aveva bisogno di me e io per la prima volta mi sentivo parte importante della sua vita. Non era mai accaduto che mi chiedesse aiuto ed ero sinceramente pronto ad offrire tutto il mio supporto.
Dapprima, mi chiese solo ospitalità per un paio di giorni, il tempo di far calmare le acque che si erano agitate in casa vostra.
Stimavo molto tua madre e mi sorprendeva un atteggiamento così rigido da parte sua. Non trovavo una sensata spiegazione alla sua reazione, al punto da indurre il marito a lasciare la casa, anche solo temporaneamente.
Ero preoccupato, ma conoscendo la ragionevolezza di mia nuora, e l’amore che la univa al suo sposo, ero certo che insieme avrebbero risolto il loro problema, qualunque fosse. Del resto, io non avevo mai avuto con tua nonna tensioni tali da farmi allontanare, quindi, facevo fatica a capire.
Lo accolsi nella certezza che dopo la tempesta arriva sempre la quiete.
Passavano i giorni e Paolo, come sempre taciturno, non accennava a tornare al suo nido d’amore.
Così, una mattina, mentre lui era al lavoro, entrai in quella che era stata la sua camera e che ora lo stava ospitando, e curiosai, forse più per emozionarmi e commuovermi di antichi ricordi, che per cercare qualsiasi traccia.
Trovai sulla scrivania una confezione di medicinali strani. Allora mi incuriosii davvero. Aveva un nome incomprensibile, mai sentito.
Non capivo, leggevo il bugiardino ma non riuscivo a comprendere l’utilità di quella roba. Vidi anche che la confezione era quasi vuota, come se avesse concluso la cura.
Quel giorno, prima di andare al mercato, passai in farmacia, e chiesi al vecchio farmacista di darmi lumi. Lui rispose a malapena, dicendo che erano farmaci per donne e poi riprese a servire i clienti che attendevano.
Rimasi lì a rimuginare: ma come farmaci per donne? Ah, ho capito, lui ha sottratto alla moglie dei farmaci che stava assumendo, perché li riteneva pericolosi. Sai com’è, lui è un chimico e ne capisce. Avranno forse litigato fino a far precipitare la situazione e per questo, lui se ne è andato qualche giorno da casa.
Sicché, mia nuora è ammalata e io non ne so niente. Non facevo che cercare una risposta.
Ma no, se fosse malata, lui non la lascerebbe sola. Ma allora cosa stava succedendo?
Attesi il suo ritorno a casa e quando arrivò, non esitai troppo a mostrargli ciò che avevo trovato nella sua stanza.
Non aggiunsi una parola, lo guardavo dritto negli occhi, aspettando una risposta accettabile.
Si versò da bere e si avvicinò alla finestra.
Per lunghi minuti non parlò e io non incalzai. Il silenzio nella stanza era rotto solo dal traffico della strada.
“Non ne vuole sapere – mi disse – Stefania non ne vuole sapere.”
Restai in silenzio, sapendo che mi avrebbe spiegato.
“Gliene avevo parlato sin dai tempi del fidanzamento, e lei si era dimostrata comprensiva. Dolce e amorevole, mi aveva detto che insieme avremmo scalato tutte le montagne.
Ci ho provato, papà, sapessi con quanta determinazione ci ho provato. Perché io la amo, altrimenti non l’avrei sposata.
Ci ho provato con tutte le mie forze. Forse non sono tante, ma le ho impiegate tutte.”
Ma se la ama, pensavo io, dov’è il problema? Balbettando gli domandai se la loro intimità era regolare.
È imbarazzante per un padre fare queste domande ad un figlio di trentadue anni. Ma sentivo che non mi avrebbe negato la verità.
“Sì, era dolce e gioioso il nostro rapporto. Lei mi diceva che sapevo interpretare i suoi desideri e dopo l’amore, si addormentava stretta stretta a me.
Non fare quella faccia. Non sono gay, papà, sono attratto dalle donne, solo dalle donne, anche se Stefania è stata il mio unico amore, io la amo e desidero stare con lei, ma non così.
Non così, non ce la faccio più. Non posso, mi dispiace tanto.
Io sono una farfalla imbottigliata, che non può volare. Una farfalla intrappolata.
Lei lo sa, mi vede cupo e ne conosce i motivi. Ti dico la verità, papà: sono due mesi che non ci sfioriamo perché lei è turbata, come me.
Mi ha detto che credeva di poter accettare, ma con gli anni e con la bambina, ha capito di non potermi seguire. Ma vedendo crescere il mio senso di spersonalizzazione e di disagio rasente la depressione, ha deciso di escludermi dalla vita familiare. Preferisce perdermi, che…
Oh, papà, è uno strazio per me allontanarmi da ciò che di più caro ho.”
Fu la rabbia, la vergogna, la paura o forse l’ignoranza, a scatenare la mia reazione. Gli urlai il mio disprezzo, dicendogli che era un disgraziato, mascalzone, ingannatore, senza palle. Lo insultai rabbiosamente e lo cacciai di casa. Anche io, come già tua madre.
Se ne andò a testa china senza tentare un accomodamento. Lasciò la casa aggiungendo un altro peso al suo fardello: il padre che lo rifiutava.
E vedendolo attraversare la strada, con la postura di chi aveva preso tanti pugni, provai dolore e astio, quasi rancore.
Dopo tre anni, lo incontrai.
“Nonno, non capisco, ma di chi stai parlando?”
Di tuo papà, cara.
“Ma mio padre è morto a trentadue anni, come hai fatto a incontrarlo tre anni dopo?”
No tesoro. Tuo padre, cacciato dalla moglie e da me, è andato via, infatti l’ho incontrato tre anni dopo.
“Ma nonno…”
Loretta, non darmi del vecchio rimbambito, e non interrompermi che ho poco tempo. Taci, tesoro caro, che potrei non avere più occasione di parlare.
Ascoltami, ti prego.
Non era morto. Tua madre ha voluto così: disse a tutti che era emigrato e tempo dopo, traslocò in città e ti disse che il babbo era morto.
Fu molto determinata con me. Mi disse che se volevo continuare a vederti, avrei dovuto sigillare questo scellerato patto di omertà.
Accettai perché capivo il suo dolore, lo rispettavo e lo condividevo persino. E accettai per poterti vedere ancora.
Era inverno nel mio cuore, non batteva il sole, e io avevo bisogno di vederti. Compresi più tardi che in te rivedevo lui.
Sai che gli assomigli molto?
Anche tu eri brava a scuola. Sin dalla prima elementare, dimostravi volontà e impegno e poi, avevi una mano felice… disegni ancora?
“No, ho smesso. Ma forse non è mai stata una grande passione. Poi, il liceo classico è molto impegnativo…”
Un giorno di giugno, stavo andando a far visita a mio cognato in ospedale e mentre percorrevo lentamente il corridoio, mi sono sentito chiamare
“Papà!”
Mi sono voltato con il cuore in gola e con l’emozione di riconoscere quella voce, diversa eppure sua, con quello stesso modo di chiamarmi. Ci siamo guardati negli occhi, ma quando si è avvicinato per abbracciarmi, mi sono voltato dall’altra parte e me ne sono andato negandogli per la seconda volta il mio affetto. Non potevo vederlo così cambiato: una donna!
Al posto di Paolo, c’era una donna carina, con una bella chioma rossa, un vestitino azzurro, i tacchi e il rossetto.
Piangevo e scappavo. Con le lacrime che appannavano la vista, brancolavo fra la gente.
“Nonno, ti prego, non puoi agitarti e se singhiozzi così, anche io non mi trattengo più. È sconvolgente quello che mi dici. ”
Gli volevo bene e gliene voglio ancora, tanto, immensamente. Vorrei stringerlo adesso e chiedergli perdono.
L’unico figlio, avuto dopo tanto patimento. Altri due prima di lui erano nati e morti. Lui ha portato luce nella nostra vita.
Amore, quanto amore, e con lo stesso amore avrei potuto riprenderlo con me. Che padre sono stato?
L’ho poi cercato, sai? Non trovavo pace da quell’incontro fortuito. Non dormivo più, non mangiavo quasi più, mi stavo lasciando morire.
Poi un giorno, nell’anno del giubileo, ho capito che dovevo cercarlo, vederlo, abbracciarlo. L’ho cercato al lavoro, ma non c’era più. Ho saputo in seguito che lo avevano licenziato. I conoscenti di un tempo non ne avevano notizia.
Gli anni passavano, senza risultati, ma non rinunciavo a sperare. Ospedali, Caritas dove un tempo faceva volontariato. Solo non ho avuto il coraggio di rivolgermi alla polizia. Ne avevo timore, preferivo sperare.
Dopo diversi anni, lessi sul giornale la storia di una trans che si candidava in politica a Verona. Cercai ulteriori notizie per approfondire e fortunatamente, riuscii ad entrare in contatto con un’altra signora dell’associazione trans.
Fu tanto disponibile con me. Comprese subito il mio strazio e vedeva in me il padre che non aveva.
Mi spiegò tante cose e tutti i travagli che sopportano. I rischi, i dolori, i patimenti, l’emarginazione, il mobbing sul lavoro, se non, addirittura, l’allontanamento per dimissioni forzate.
Mi mostrò documenti, statistiche, leggi, proposte, e compresi meglio perché lo avevano sottoposto a elettroshock quand’era ragazzino: a quel tempo, all’inizio degli anni ottanta, quella che oggi si chiama “Disforia di genere” era considerata malattia mentale e come tale veniva trattata.
Mi aiutò a capire anche che le persone transessuali possono essere etero, gay o bisessuali, proprio come chiunque altro, e che quindi era possibile e comprensibile che Paolo amasse sua moglie.
Quante cose non sapevo!
Venni a sapere che fino a qualche anno fa, il cinquanta per cento delle persone transessuali, non superava i trent’anni, causa suicidio, perché la crudeltà della società non favorisce il superamento del disagio.
E se fosse morto anche lui, o lei, non so come si dice?
Mi hanno detto che si dice lei, ma per me rimane il mio Paolo.
E se anche lui, nella disperazione si fosse suicidato?
Penso a quanto dolore ha dovuto affrontare da solo, senza il conforto della famiglia, nemmeno il mio.
Penso che se fosse stata viva la mamma, tua nonna, lo avrebbe accolto, mentre io no.
Sono lacerato dai sensi di colpa.
Dio mi perdoni, e anche tu perdonami, sangue del mio sangue, figlia del mio unico figlio.
È ormai sera.
I rumori si spengono, così come le luci accese nella stanza. Solo i tuoi occhi luccicano bagnati di sgomento e ansia.
Vorrei dirti ancora… Ma è tardi, il sonno verrà a prendermi.
Non c’è più tempo per le scuse, le giustificazioni. Solo il tempo di una preghiera: cercalo!
Promettimelo. Continua tu per me, per te, per lui…
E digli che…