“Racconti nella Rete 2009 “Un pellegrinaggio inaspettato” di Ernesto Liberati
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2009Oramai è un bel po’ che cammino, in verità da stamattina. Mi sono alzato molto presto, era l’alba. Sentivo che non sarebbe stata una giornata come le altre, lo suggeriva sia un certo senso d’inquietudine che la spossatezza figlia di una notte indefinita. Non era un malessere vero e proprio, direi più qualcosa di nuovo di mai provato prima, che come tutte le novità, porta con sé un vago senso di timore, d’inadeguatezza. Con gli occhi fissi nello specchio ancora sonnolento, ho cercato un’ipotesi adeguata, inutilmente. L’acqua fredda mi ha svegliato definitivamente. Sono qui, ora. Cosa c’è che non va? Cosa manca? Ho una bella casa, un lavoro dei soldi per vivere bene. Varie storie d’amore passate, amori presenti. Potrei dire che non mi manca nulla, potrei dire di essere felice, potrei.
Eppure questa mattina, per la prima volta ho sentito qualcosa, o meglio ho sentito che manca qualcosa. Era un pensiero non ben formulato, che, giunto all’improvviso, mi ha colpito facendo del male. Un pugno che non ti aspetti, tirato a tradimento. Mi sono alzato, vestito, e per cercare di capire ho deciso di fare due passi. La direzione la forniva la mia ombra, che il sole nascente proiettava sull’asfalto ancora freddo e livido. Ho cominciato a pensare alla vita, alle volte che mi sono sentito realizzato, ed a quelle in cui ho pianto segrete, silenziose lacrime nelle notti buie di timori e paure e abbandoni. Ho pensato allo stupore dei miei amici quando, con entusiasmo, parlavo loro del mio lavoro. Amo il mio lavoro. Mi piace stare a contatto con i ragazzi, poter insegnare loro qualcosa, cogliere lo stupore dei loro volti quando gli si rivela un qualche segreto che per noi “adulti” non è più tale. Mi piace tutto questo, anche con i limiti della scuola italiana. Ma riflettendo, ascoltando il flusso dei pensieri, il ricordo delle sensazioni, ho colto una nota stonata: in fondo alla voce, a corollario del racconto, c’era sempre una volontà di stupire, una compiacenza infame, una voglia di dire: “sono meglio di ciò che pensavate, di ciò che tutti voi avete mai visto”. Immediatamente, come per incanto, sono sopraggiunti altri pensieri dello stesso genere.
La prima ragazza… Al tempo della scuola appartenevo al gruppetto degli impreparati perenni, del quattro fisso, degli svogliati che “potevate scegliere di andare a lavorare”. Inoltre mi rivedo: un ragazzotto brufoloso, silenzioso ma aggressivo quanto basta per nascondere impacci e timidezze. Lei: la più brava, la più intel-ligente, ma anche bella e coinvolgente. Certamente ne ero preso, coinvolto, ma oltre a l’amore, se cosi si può chiamare in terzo superiore, c’era anche dell’altro. Mostrare che uno degli ultimi, un esponente di quella crema superflua e da eliminare, era capace di interessare e di instaurare una relazione con “ciò che di meglio era presente”.
L’ultima ragazza… Ne sono stato innamorato, sicuramente. Ma pensandoci bene una delle cose che mi piaceva di più era il vedere l’invidia dipinta sui volti di miei “amici”. I loro commenti sulla fortuna che sicuramente mi accompagnava. Non capivano come fossi riuscito a far innamorare una così bella ragazza, con un fisico da pin-up, sempre eccitantemente perfetta. A volte i loro commenti, gli sguardi insistente, anche davanti a mogli e fidanzate, sull’orlo della minigonna, o sulla scollatura della camicia era parte del godimento, li rendeva miseramente inferiori. Sorridevo pensando a ciò che loro potevano solo limitarsi ad immaginare. Ghigni di soddisfazione malcelata..
E poi le moto, e poi le macchine, e poi e poi e poi. Simboli effimeri di superiorità.
E’ sera, ma continuo a camminare. Ho attraversato boschi e pianure e paesi. Spazi che finora non avevo mai abbracciato così coscientemente, così lucidamente. Mi sono fermato a salutare madri che accompagnavano figli all’autobus per la scuola, vecchiette che avvolte nei loro scialli neri uscivano da chiese miseramente sgangherate, muratori al lavoro su case di campagna e poi stalle e cavalli e un mondo intero mai visto prima, eppure sempre lì, sempre presente, a portata di mano. Pieno di vita propria, diversa, inattesa.
Era metà mattina, attraversavo un paese che ho visto infinite volte dal finestrino della mia macchina mentre correndo sulla statale andavo a lavoro, o a fare spese. Oppure, più spesso, mentre andavo incontro a giornate di divertimenti, di svaghi, di pigrizie diventate regola. Per la prima volta lo vedevo dal di dentro, e non era affatto il buco insulso che credevo. Spesso, correndo immersi nei nostri giochi giornalieri, l’immaginazione tira brutti scherzi. Fa vedere ciò che non conosciamo nel modo a noi più congeniale, nel modo che più ci rende soddisfatti. Perché credere ed immaginare che, un paesino sperduto ai fianchi di una strada statale a scorrimento veloce che collega due grandi città, ricche di vita e possibilità, possa essere interessante? Possa rappresentare il tutto, la vita per persone, animali, cani e gatti? Perché fare questo sforzo? Meglio tirare dritto, andare sempre e comunque verso quello che ci fa più comodo, rinsaldare, anche senza motivi, le nostre logore e stantie convinzioni.
Bene, dicevo, era metà mattina, e camminando dentro questo paesino incontro un anziano. Mi ha fatto tenerezza, somigliava a mio nonno. Camminava perso nei suoi calzoni di tela grezza, consunti dal tempo e dalla fatica, troppo grandi per le sue minuscole, esili gambe. In testa, di sbiego, un cappello spiegazzato, modellato e vinto da troppi inesorabili temporali e altrettante giornate di sole, calure estive di mietiture e raccolti e fatiche. Procedeva lento, curvo sotto il peso del tempo, con la sua bracciata di legna per il fuoco. Allora, schiarendo la voce, mi sono avvicinato e l’ho salutato con un buongiorno forse troppo altisonante, carico, eccessivo. All’udire il mio saluto, il vecchino ha avuto un leggero sobbalzo, come di paura, come se fosse arrivata una folata di vento troppo forte ed inattesa in una giornata calma e serena. Di conseguenza, alcuni pezzi di legno sono caduti dalle sue braccia rotolando lontano. Svelto mi sono affrettato a raccoglierli, dopotutto era anche colpa mia. Lui mi ha ringraziato con gentilezza, ritrovando subito la sua pacata tranquillità. Leggermente sorpreso (di che poi? in fondo un istante non scalfisce il tempo), mi sono offerto di portarglieli fino dove gli serviva. Abbiamo traversato la strada, camminando insieme per pochi metri. Lo guardavo provando un misto di tenerezza e compassione, cercando invano di indovinare i suoi pensieri, le sensazioni provate nascoste dietro quel sorriso appena accennato. Arrivati davanti il portone di casa mi ha guardato, abbracciando con i suoi occhi scuri, tutta la mia figura, nuovamente ha sorriso, come di chi sa più di ciò che appare, e mi ha invitato ad entrare. Senza neanche pensarci ho accettato. Dentro, mi ha dapprima offerto un bicchiere di vino, «questo è quello che ancora faccio io, mica quelle robbe comprate», poi un altro e un altro ancora. Infine mi ha invitato a pranzare con lui. Pasta e fagioli, come nella migliore tradizione contadina. La migliore pasta e fagioli della mia vita. Durante il pranzo mi ha raccontato pezzi casuali del suo passato. Brevi, improvvisi brani, immagini sbiadite e magoni che sopraggiungevano uno dietro l’altro, frutto di ricordi storie parole mai dette a sufficienza. Ho rivissuto con lui la sua storia, la sua vita. Il matrimonio voluto con forza contro il parere dei parenti, la vita coniugale fatta di stenti e debolezze e rinunce. Il funerale della moglie, che si è portato via la luce, il senso, la vita stessa; ed ora «aspetto solo di addormentarmi per poterla abbracciare di nuovo». La guerra: i tedeschi e gli americani, ricostruire ancora. La compagnia del vecchio cane, che resta lì, vicino al fuoco, a sonnecchiare, ma che sono sicuro ad un cenno aprirebbe gli occhi e s’alzerebbe pronto ancora a seguire il padrone, fedelmente, come sempre.
Era pomeriggio inoltrato quando l’ho salutato, ci siamo abbracciati come vecchi amici, come naufraghi, ognuno vittima della sua tempesta. Ma c’era una differenza, lui l’ha vissuta con dignità e altrettanto dignitosamente l’ha superata. Io per ora l’ho sempre ignorata, evitata, nascondendomi, almeno fino a questa mattina. Ho promesso di tornare a trovarlo, spero.
Ora è quasi notte. Continuo a camminare. Ho percorso un infinitesimo tratto di vita, di mondo. Venere è ancora e sempre lì davanti a me, la luna alle mie spalle, come ieri. Ma ho attraversato comunque un pezzo d’infinito, mi sono spinto oltre il mio solito orizzonte, ho abbracciato uno spicchietto di terra, ho conosciuto una parte di me. Forse ho iniziato finalmente ad issare le vele; magari è giunto il tempo di uscire dal porto, di affrontare faccia a faccia il mare aperto, quello vero. Andare incontro alle mie tempeste, con la paura di capovolgermi, ma anche con la speranza di continuare a navigare, come prima, meglio di prima. Ho iniziato a capire che tra due città non c’è sempre e solo una strada statale, a scorrimento veloce.
Ora è il momento di fermarmi, di riposare. Devo cercare di capire meglio e più a fondo questa giornata, devo cercare un rifugio per stanotte.
Mi fanno male le gambe e la schiena e le ginocchia. Ma ho deciso: continuerò a camminare, anche domani, e poi dopodomani e poi ancora e ancora. Fino al giorno in cui notando qualcuno all’orizzonte rallenterò il passo, ma senza farmi guardingo. Disponendo, semplicemente, il volto ad un sorriso. Fino a che incontrandolo egli non avrà altro che la mia faccia, il mio viso, le mie braccia. Fino a che non incontrerò un uomo. Fino a che non incontrerò me stesso.