Premio Racconti nella Rete 2014 “Vendetta 1883” di Alberto Volpi
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014Il primo compare affondava i dentini nel cosciotto ormai spolpato con tale insistenza e rapidità da farli sembrare uno sciame di vespe incattivite. Il sugo gli lordava i ciuffi grigionerastri che spuntavano ispidi e irregolari sul viso largo e appiattito. Produceva un rumore di corrente elettrica che l’altro compare, più lungo e affilato, osservava dall’alto stuzzicandosi i denti con una festuca. Le labbra si stirarono in un largo sorriso che scopriva ancor più le zanne sbreccate, quando prese nello spazio della guardatura anche il bicchiere mezzo vuoto posato al terzo posto del rustico tavolo. Una sedia scostata indicava l’assenza di qualcuno che fino a poco fa si trovava ancora seduto in compagnia. Due, tre lunghe dita tamburellarono contro il vetro che esalò strane bollicine dal fondo scuro del vino, poi spinsero il bicchiere pattinante sull’incerata verso il compare. Quello, sogguardandolo con la coda dell’occhio verdissimo, fece però finta di nulla. – Eeeeh – disse allora il rossiccio magro accennando a palmo aperto. L’osso ben succiato cadde con un tonfo sul piatto dalle volgari filettature d’oro, le ditine morbide si richiusero allora in due gesti interrogativi e con uno scatto repentino il naso, grazioso e rosato, si schiacciò all’orlo del bicchiere annusando. Quasi fosse il freddo del cristallo sul freddo delle froge a fare effetto si ritrasse di colpo. L’altro allungò ancor più il sorriso, fino alle orecchie come un inquietante pagliaccio.
Il Magro dava però segni evidenti di nervosismo sulla sedia scricchiolante, si ficcò in bocca una manciata di uva nera, forbendosi subito con il dorso della mano ossuta e alzandosi con un moto dinoccolato che ne disarticolò quasi la persona dentro al gabbano logoro. Il compare di malavoglia si sturacciolò dalla sedia, arrivando all’impiedi con la testa irsuta solo verso il petto dell’altro; lo seguì mentre si avviava attraverso la fumosa stanza della locanda già rimpiangendo il grande camino e sgraffignando delle castagne ammollate nel latte con cui riempì le tasche gualcite. Incedevano buffi e solenni non degnando di uno sguardo il trattore che nel frattempo stava licenziando con una certa fretta una coppia di sguatteri dall’aria ritardata.
Le scale di legno cigolavano sotto il loro peso, ma non parevano curarsi di disturbare qualche altro avventore, nemmeno quando al Corto sfuggì una bestemmia per un passo falso nel buio marcio e polveroso. Fu un soffio prolungato cui rispose un ringhio a capo del pianerottolo. Qui la tenebra era ancora più fitta, quasi spessa, forse per il ristagno dell’odore di cucinato che saliva da sotto. Epperò si muovevano bene, come animali notturni, sapendo dove indirizzarsi con la chiave in mano che il taverniere, con apparente distrazione, gli aveva fatto scivolare sul tavolo, sul tovagliolo dispiegato ed unto.
Nonostante la sperimentata perizia la serratura sferragliò trasferendo il rumore ai cardini sconnessi e la porta grattugiò il pavimento quando venne aperta sul buio. Una delle due finestre però, dimenticata con gli scuri spalancati, permetteva alla luce d’una gran luna di tagliare a metà la camera raggiungendo con il suo chiarore il fagotto avvolto tra le coperte. I due allora fecero un paio di passi sfoderando i coltellacci da dentro gli abiti mal lavati. Con un colpo di punta liberarono il corpo dalla copertura e all’impazzata cominciarono a menar fendenti. Strano però che le lame slittassero, si conficcassero e sconficcassero nella durezza d’un ciocco. L’Alto finì per primo e mentre posava una grinfia sul braccio del compare che s’affannava ancora sudato nell’assurdo compito, si sentì tossicchiare a pochi metri e s’accese un lume in fondo, contro la seconda finestra.
Con i ginocchi puntuti raccolti in grembo, rannicchiato sul davanzale interno, il ragazzo sorrideva beffardo dalla parte illuminata che rendeva acceso il colorito bruno del suo volto e in mezzo il nasone da picchio. Il Magro, che si trovava alla sponda più prossima del letto, s’avanzò minaccioso, un’ombra gigantesca da spaventapasseri, per ricevere in faccia mezzo caricatore. L’altro, appiattato contro il muro, soffiava ingobbito, e la seconda fiammata dal petto si scaricò nella spessa parete, mettendolo culo a terra come un bambolotto di peluche con le gambe stese in avanti.
L’oste, che stava tutt’orecchi di sotto, si chiese cosa diavolo stessero combinando quei due e da quando avessero deciso di cambiare un così buon, vecchio metodo. Salì tuttavia senza sospetto, solo pronto a garrire e rimproverare per tirare poi sul prezzo delle parti. Al momento dell’entrata quindi dovette riconfigurare nella sua mente tarda un quadro assolutamente assurdo ed imprevisto, cosa che gli rese più agevole il ragazzo appena attirò la sua attenzione. Cercò allora di virare in modo maldestro, facendo lo stupefatto di tutto, il bamba e l’innocentino, e provocando così una forte risata per quelle bugie, simile allo xilofono che vada su e giù per un pezzo ben conosciuto. Tale l’infernale scappato di casa. Quella patente presa per i fondelli fece diventare tutta affocata la faccia già bianca e rubizza dell’oste, non diversa dall’aspetto d’un gambero gettato a rosolar nell’olio bollente. Il giovanottino lo invitava a parlare con gesti secchi, lui soffocava e avvenne una specie di muto dialogo tra marionetti che durò fin quando giù per la strada solitaria si fece udire il rombo di una fuoriserie.
Maraviglie dopo maraviglie! Chi poteva spingersi a quell’ora di notte, al fondo d’una plaga sì sperduta tra i campi, taverna di carrettieri, villani, commercianti di panni tra il Nord e il Sud? Forse un imprevisto aiuto di qualche signore che servisse a mettere a posto l’incubo di quella fiaba di solito tanto piana da svolgere ed ora improvvisamente, per colpa di quel piccolo demonio, dalla narrazione impazzita. Proprio lui si volse, aprì imposte e vetri e sporgendosi vide scendere dalla decappottata color ciliegia una giovine dalla larga capigliatura, che sotto l’unico fanale di strada, si fece azzurrina. Intercorse uno sguardo in verticale obliqua ed il ragazzotto in un salto smontò dalla posizione: nel contempo esplose un colpo solo di carnevale come un punto interrogativo in fronte al locandiere: s’udì uno schiocco secco, forse delle suole assai rigide sull’impiantito, forse dell’osso parietale a contatto col piombo. Allora quello, che pareva in grado di prendere un moscone in volo con un occhio solo, prese a sgambettare a piè pari tra i cadaveri dei due assassini e dell’oste, totalizzando cifra tonda sulle mattonelle incrinate del pavimento, tra pelo e sangue. Poi giù cantando a rompicollo per le scale.
Sotto la ragazza aveva già fatto il suo dovere e lui la baciò euforicamente – I solfanelli, i solfanelli! – cinguettava qua e là sbattendo le mani con applausi sonori di nacchera. In effetti il carburante era stato ben distribuito alla base dell’edificio che cominciò a bruciare prima con timida allegria e poi con gagliarda baldanza. Il vagabondaccio non si stancava di guardare l’enorme falò, ora giallo ora arancione, che si faceva via via più piccino nella campagna bianca e rasa, sporgendo all’indietro la testa dal finestrino e ridendo con irrefrenabile follia. Infine si rigirò di fronte gridando: – All’albero ora, all’albero! – La ragazza gli sorrise di rimando perché aveva già dato una controllatina venendo da colà. E gli zecchini s’eran fatti tanti da non reggersi più ai rami e il mondo è grande. Partirono tra la polvere e nella polvere d’un fiato arrivarono. Qui, accanto all’albero scintillante d’oro, con un sol scatto da marionetta i sedili si ribaltarono inghiottendo la chioma azzurra, pronta ad accogliere il pezzo di legno. La decappottabile cigolava tra le rane; nel vuoto spazio piano e sotto l’enorme stellato si compiva la metamorfosi pedagogica.