Premio Racconti nella Rete 2014 “In cammino” di Daniela Piretti
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014Si era svegliata troppo presto quella mattina e nella testa le vagavano ancora frammenti di pensieri notturni scollegati fra loro. Ma camminare era piacevole, il passo rapido, il rumore dei tacchi bassi sull’asfalto le produceva una sensazione appena accennata di vigore, sentirsi padrona dei propri movimenti in una sorta di gradevole armonia. Già le era capitato, proprio pochi minuti prima, mentre veloce scendeva le scale con ancora lo stesso piacere di un tempo, di quando bambina volava sulla rampa saltando di slancio, di nascosto da sua madre, gli ultimi gradini. Ora invece la sua mano sfiorava appena il mancorrente della ringhiera, così, forse solo per un bisogno di prudenza… Man mano che scendeva l’immagine della madre si faceva più nitida, la mente le riportò la sua voce: “ho sognato di scendere le scale di corsa…ridevo, ero così felice”. La compassione le serrò ancora una volta con una morsa lo stomaco. Potere mai esausto di una breve frase, quelle parole le erano rimaste dentro addormentate per anni e all’improvviso erano balzate fuori così senza nessuna ragione apparente proprio in quel momento. No, pensò sorridendo fra sé, non ci casco, non ho nessuna intenzione di farmi prendere dalla malinconia oggi, sono diventata brava con i ricordi, so come tenerli a bada, ci posso addirittura giocare un pochino e poi lasciarli andare via senza nessuna sensazione di perdita e tanto meno di colpa.
Atterrata infine lievemente sul pianerottolo dell’atrio, aprì il portone e si concentrò sull’aria ancora fresca del mattino, diede anche una sbirciatina al cielo, non c’erano dubbi era una bella giornata. Quel primo di giugno si annunciava caldo, era estate finalmente.
Passando davanti alla palma le lanciò come sua abitudine un saluto malinconico. La pianta giaceva in ginocchio sul prato del giardino condominiale, le foglie ingiallite e il tronco schiantato non lasciavano dubbi: non ci sarebbe stata per lei nessuna ripresa vegetativa. Ennesima vittima del parassita che stava falcidiando i maestosi alberi esotici, bizzarro simbolo di declino del nuovo millennio.
Passando per il borgo popolare dalle palazzine grigie le arrivò un pezzetto di una conversazione, la voce vibrava di felicità e di orgoglio nel dire: “…m’ha fatto maschio!”. La curiosità le fece girare la testa e rallentare il passo: due ragazzi, molto giovani, chiacchieravano seduti sul muretto di fronte alla chiesa.
Arrivata alla fermata della metro, mentre litigava con l’erogatore dei biglietti che continuava a rifiutarle la moneta, il cuore le cominciò a battere un poco più forte, stava perdendo troppo tempo, già a casa si era attardata più del necessario e ora quella stupida macchina, e il tabaccaio ancora chiuso naturalmente…
“Signò guardi che il biglietto è aumentato… se continua a mette solo un euro qui ce stamo fino a domani…” le disse con tono simpatico un uomo dai baffetti bianchi che dietro di lei aspettava, non proprio paziente, di poter acquistare anche lui il biglietto. “Mi scusi non lo sapevo…” Biascicò lei, scocciata di aver fatto una delle sue solite figure da imbranata. E intanto pensava: “ che cazzo, aumentano il biglietto così, da un giorno all’altro e nemmeno un cartello per avvisare… che razza di città sta diventando questa… e certo che pure io però, se mi togliessi questi occhiali da sole e infilassi quelli per leggere magari qualcosina in più la vedrei”. Compì allora l’operazione in fretta ma fu inutile, nessun cartello avvisava i passeggeri dell’aumento.
Arrivata sulla banchina fece appena in tempo a vedere l’ultimo vagone del treno che si allontanava… Un’occhiata rapida all’orologio, ma sì c’era ancora tempo. Si rinfilò gli occhiali da sole, in fondo quella penombra era gradevole e da dietro le lenti si sentiva più libera di osservare le persone che le sostavano accanto. Le piaceva spiare la gente, curiosità mai sopita. C’era chi amava le piante, chi gli animali, come sua cugina che andava pazza per i cani, ormai ne doveva avere almeno quattro, tutti raccolti randagi naturalmente. Aveva conosciuto un tipo che collezionava modellini di automobile, “macchinetta” lo chiamavano. Suo nonno invece, molto più ovvio per il suo tempo, collezionava solo francobolli. Insomma, la gente si innamorava delle cose più varie e lei… lei collezionava persone, no nel senso che se le portava a casa naturalmente, anzi tutto il contrario, il suo interesse era legato esclusivamente agli sconosciuti, quegli individui che si incontrano per caso, quelli che per lei mai avrebbero avuto un nome. Le piaceva osservarli attentamente, fissava i volti, le espressioni, i vestiti e il portamento e nel guardarli a volte immaginava storie, altre volte invece no si lasciava solo trasportare da sensazioni, recettiva ad ogni minima espressione e pulsazione dei corpi. Insomma, la sua, se si vuole usare una licenza poetica, era una vera “passione per le umane genti”.
Anche se, a pensarci bene, una tale passione avrebbe dovuto portarla a un bisogno più approfondito di conoscenza un incontro confronto fatto anche di dialogo, di parole che esprimevano pensieri. Lei invece si limitava a dubbie fantasie solitarie, si c’erano pochi elementi di realtà e molta solitudine in quel suo piacere. Non era sempre stato così comunque, c’erano stati giorni in cui gli incontri erano facili e quotidiani, le persone comunicative e reali proprio lì in quella stessa città che oggi le appariva così ermetica, a tratti addirittura ostile. Insomma anche se si sforzava di tornare indietro nel tempo non sapeva proprio quando ma era successo, un giorno tutto era cambiato, come se la città con i suoi soliti abitanti si fosse trasformata così, di colpo, dalla sera alla mattina. E lei pur avendo imparato a conviverci con quel mutamento, non avendone avuta nessuna percezione graduale, in realtà non smetteva di stupirsene incapace di accettarlo completamente. Forse aveva cominciato per questo quel suo gioco fantastico, per un bisogno innocente di conservazione delle vecchie buone abitudini, continuando così, nel provare empatia, a sentirsi vicina ai suoi simili, umana sempre, anche fra la folla. Accarezzava con lo sguardo gli ignoti e immaginando le loro vite si riappropriava di una dimensione sociale. Perché non c’era niente di naturalmente umano in quel pudore metropolitano. Solo una appresa convenzione di difesa, il timore che obbliga alla riservatezza e al silenzio “il divieto di parlare con gli sconosciuti”, una delle prime regole insegnata dai genitori ai bambini quando cominciano ad uscire da soli, necessità inquietante dei tempi.
Intanto i minuti passavano e il suo sguardo, tornato ansioso, riusciva solo a fissare la galleria deserta, fin quando il rumore inconfondibile annunciò l’arrivo del treno ed anche lei, sospinta da un paio di persone, si affrettò a salire sul vagone ancora semivuoto dove riuscì persino a trovare un posto libero per sedersi. Non le era forse mai capitato di prendere la metro a quell’ora e se l’era immaginata zeppa di gente, ma, a pensarci bene, l’orario di punta era già passato visto che erano già le 9,40. Venti minuti ancora all’appuntamento ma la metro era veloce e anche se doveva cambiare linea a Termini comunque il tragitto per viale Giulio Cesare da lì era breve. E infatti alle 9,55 salì la rampa di scale e sbucò sulla via. Nel cercare il numero civico sbagliò lato del marciapiede e quindi attraversò la strada e tornò indietro di un isolato: ecco l’ingresso della Procura semi nascosto da un capannello di persone in attesa, fra loro vide Marco con il cellulare all’orecchio, e proprio in quel momento il telefono cominciò a squillarle nella borsa. Lei, Giulia, sorrise nel riconoscerlo: “non è cambiato, pensò, due minuti di ritardo e già mi chiama”. Invece di rispondere si limitò a fare un cenno con la mano al marito che subito la vide. Marco aveva un bel colorito abbronzato sul viso piccolo che le apparve quasi immutato, solo la pelle, segnata da pieghe numerose, era lì a testimoniare, anche per lui, lo scorrere del tempo. Ci fu un breve abbraccio e lui le consegnò subito una busta con la metà del denaro per il compenso dell’avvocato. Lei si intenerì per quel gesto. Visto che l’esigenza del divorzio era solo sua pensava le toccasse anche l’onere della spesa. Maledetto denaro si ritrovò a pensare ancora una volta, nessuna azione umana ne è mai libera. Passarono minuti nella ricerca della sezione e dell’avvocato, Gigi, che arrivò con un’assistente. Anche se non poteva definirlo un amico, Giulia lo conosceva da tempo, Marco invece non l’aveva mai visto. Dopo le presentazioni di rito e brevi battute mentre bevevano insieme un caffè al bar, avvocato ed assistente, li rassicurarono sui tempi brevi dell’attesa, poi si dileguarono. Giulia e Marco si ritrovarono così seduti vicini in un’anticamera affollata di gente. Lui rigirava fra le mani un libro dalla cui copertina rigida spiccava l’immagine del felino e il titolo: “La Tigre”. –“Com’è?” chiese lei”. –“Non lo so ancora, l’ho comprato questa mattina, sono arrivato con un bell’anticipo, stranamente non c’era traffico, sono entrato nella libreria qui di fronte,, questo libro mi ha subito attirato…”- Mentre parlava, il marito, aveva un’aria soddisfatta e divertita. Non c’era bisogno di aggiungere altro, lei ben conosceva la passione di lui per gli animali selvaggi e fieri… “Grrr… sono la tigre!” Aveva scritto su una cartolina indirizzata al loro figlio ancora piccolo… Ma era stato tanto tempo fa, eppure ora tutto le era così vicino, consueto, quasi ovvio… Ancora quella sensazione di morsa allo stomaco che le procuravano certi ricordi, la prese, ma fu breve come un soffio. Cominciarono quindi a parlare del figlio, Matteo era un uomo già da tempo, eppure nelle voci c’era quella nota di preoccupazione che sempre aveva contraddistinto i loro discorsi su di lui dalla separazione in poi. No, non si poteva definire semplicisticamente quel modo pur così diverso di vedere il figlio lasciava trasparire comunque sentimenti intensi per entrambi. La preoccupazione era forse legata alla loro condizione di solitudine nell’essere genitori, solitudine che avevano dovuto vivere da un certo punto in poi. Giulia ne era sempre stata consapevole di quella carenza, ma per un lungo periodo si era illusa di poterla colmare con l’affetto e i discorsi frequenti ma poi aveva anche lei dovuto cedere all’evidenza. Loro tre non erano più insieme nella stessa casa, per loro non c’erano più i riti quotidiani condivisi: la buona notte prima di addormentarsi alla sera e il buon giorno dei risvegli al mattino. Le partenze estive e i ritorni, ancora insieme . Certo, soprattutto quando Matteo era ancora piccolo e poi adolescente avevano scambiato spesso emozioni e pensieri, e insieme avevano sempre cercato per il figlio il meglio: nella scelta delle scuole, così come in quella dei giocattoli e dei libri. Entrambi poi avevano dedicato al figlio quei momenti di attenzione speciale tipici dei genitori separati, un tempo qualitativo raccomandavano gli psicologi: così lui, alla domenica lo portava al cinema o a teatro e lei lo accompagnava alle feste a casa di amici o a visitare l’ultima mostra di quadri… Ma non si poteva comunque colmare quel vuoto di condivisione che li portava ad avere spesso un’idea menomata, perché costruita in solitudine, del loro ruolo e dei fatti. Comunque parlare serviva sempre e Giulia si ritrovò a pensare che quell’atto formale che stavano per compiere dopo tanti anni, non avrebbe mai potuto allontanarli di più, anche da divorziati loro due sarebbero rimasti per sempre i genitori di Matteo.
Nell’anticamera intanto continuavano a susseguirsi avvocati che deponevano i fascicoli su una scrivania sorvegliata da un usciere. Le cartelline contenenti gli atti avevano formato una pila sempre più alta che come veniva toccata ondeggiava pericolosamente, restituendo a chiunque la guardasse, ma a loro due specialmente, un’immagine metaforica di giustizia in bilico. Marco scuotendo la testa non si capacitava del perdurare di quegli aspetti di burocrazia obsoleta:. “Roba da matti…se quel pacco di cartelle cade te lo immagini che casino rimettere insieme tutti i fogli… ancora funziona in questo modo il Tribunale, sembra un manicomio… come tanti anni fa quando avevo bisogno di un certificato per la cooperativa l’usciere mi mandava da solo a recuperare il fascicolo in un archivio zeppo di faldoni buttati sui tavoli, sulle sedie, per terra…chiunque poteva entrare li dentro e portarsi via una pratica, un atto, tanto nessuno controllava mai…”. Risero entrambi, con un senso di amarezza consapevoli dell’aspetto tragicomico che avevano assunto, ormai da diversi anni, le vicende istituzionali grandi e piccole, nel loro Paese. E proprio allora, come colpita da una profezia funesta, la pila di documenti precipitò a terra fra le grida e gli scoppi di risa degli osservatori più vicini. Susseguì all’evento un trambusto inevitabile e quindi loro decisero di allontanarsi dalla stanza per fare quattro passi nel cortile alla ricerca di luce e di aria. Marco pose una cartina e del tabacco nel palmo della mano e con gesti abili e lesti si rollò una smilza sigaretta e intanto continuava a parlare dimostrando, come suo solito, una visione personale molto articolata e convincente della crisi che stava sconvolgendo l’economia mondiale: “… il più grande economista vivente dice che l’unica certezza oggi è investire negli orti…”
Nel rientrare nell’anticamera la loro attenzione fu catturata dalle grida eccitate di una bimbetta. La piccola, seguita dalla sguardo di una giovane mamma, sfruttando brevi varchi sgombri, con velocità traballante, percorreva avanti e indietro per la stanza i suoi primi passi gioiosi. Lo sguardo di entrambi si fissò sulla scena, mentre il solo silenzio accompagnava per alcuni brevi istanti i loro pensieri, poi Marco sorrise e sospirò muovendo poco la testa, costringendola, con quel suo atto minimo, a interrompere sul nascere la rievocazione del suo ennesimo ricordo…
Avvocato e tirocinante riapparvero: “ce l’abbiamo fatta…tocca a noi adesso…”.
Il giudice, una donna di mezza età, non fece domande e si limitò ad autorizzare il cancelliere alla registrazione del divorzio. Uscirono tutti dalla stanza dopo soli cinque minuti. “visto… niente di più semplice!”. Commentò Gigi fra il compiaciuto e l’ironico.
La metro del ritorno odorava di rotaie e di gente. Giulia aggrappata al mancorrente assecondava con il movimento di tutto il corpo le oscillazioni del vagone. Non provava nessuna sensazione intensa, non si sentiva sollevata, libera in tutti quegli anni lo era sempre stata, e la lieve tristezza che sempre la prendeva quando pensava a quel matrimonio interrotto non si era fatta più acuta. No, nulla era cambiato oggi. Lei e Marco si erano incontrati per sbrigare solo una noiosa formalità.
Marco e Giulia… due di noi.
Un evento importante immerso in una pittoresca quotidianità nella quale, a tratti, ho ritrovato la mia.
Daniela Piretti ha posto l’accento su un tema ostico con brio e leggerezza riuscendo ad alleggerire i toni.
Spero piaccia alla giuria quanto è piaciuto a me…
Tristezza. Annegare nelle carte ammuffite di un tribunale quella che è stata una storia d’amore.
Angela Lonardo