Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2014 “Lo zaino sulle spalle” di Gipo Anfosso

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014

Un ultimo sguardo alla cartina e poi parto. Due di luglio, otto e mezza. Fa già caldo. Sì, però vado nel parco del Mincio, sarà verde e ombreggiato. Be’, è inutile che continui a guardare la carta. Parto e poi, se ho bisogno di indicazioni, chiedo. Zaino in spalla e via!

Pista ciclabile, poi devo arrivare quasi fino alla Canottieri e imboccare la strada per Bosco Fontana. Pedalando il caldo lo sento meno. C’è un momento quando vado in bici, nel quale riesco a dimenticare tutto. La strada davanti viene risucchiata dalle mie pedalate, e solo il paesaggio attira la mia attenzione. Se la strada che sto facendo è nuova, riesco a estraniarmi dalla mia vita, a viverla come se fossi solo al mondo, come se tutti ignorassero chi sono e io fossi ben contento di questa situazione. C’era uno dei primi videogiochi da bar, Asteroidi, in cui un’astronave veniva attaccata da asteroidi provenienti da tutte le parti dello schermo. Quando ero in crisi nera, potevo premere il pulsante Hyperspace. Per pochi secondi l’astronave scompariva e poteva ricomparire poi in un qualsiasi punto a caso. Ecco, andare in bici è un po’ come finire nell’iperspazio. Qui, ora, c’è silenzio, come se tutto il mondo tacesse. Ci sono solo i fruscii delle ruote che tagliano l’aria.

Ma questo non è il rumore solito. Sarà il fondo poco liscio. No, merda, ho bucato! La ruota dietro. E adesso? Lo sapevo che dovevo chiedere a Joseph se valeva la pena portarsi dietro una di quelle bombolette di emergenza. Cazzo, cosa faccio adesso? Va be’, sono ancora a Mantova. Se taglio per quella strada sono subito in città e cerco un ciclista.

“Mi scusi, sa dov’è un ciclista che ho bucato?”

“Guardi, se va in là trova una macelleria e subito dopo un negozio di ciclista. Ma sarà chiuso adesso.”

La cadenza mantovana riesce a rincuorarmi. Guardo l’ora. Otto e cinquanta. Vado verso il negozio che mi ha indicato. E’ un negozio di abbigliamento per sportivi, ciclisti in particolare. C’è scritto: ‘Qui si riparano bici’. Apre alle 9 e 30. Va be’, rilassiamoci. Compro il giornale e vado al parco Hofer lì, a due passi. Poso lo zaino, tiro fuori la borraccia, mi siedo all’ombra. Il caldo è già pesante. Di fronte ho un monumento dedicato a Andreas Hofer, insorto tirolese ucciso dall’esercito napoleonico nel febbraio 1809. Mi arrampico tra vecchie nozioni scolastiche. Hofer, Tirolo, Napoleone, Mantova. Vaghi ricordi si intrecciano, pallide sembianze di storia che non riescono a emergere nitide. Riprendo a leggere il giornale.

Alle nove e mezza mi presento davanti alla porta del negozio. E’ aperta e ci sono due signori dentro. Mi affaccio. Si avvicina un signore con barba e capelli bianchi, sorridente.

“D-due minuti e sono da lei.”

Appena l’ho visto, non ho più osato guardarlo in faccia. E’ identico a Mino, il mio amico morto quest’autunno. Lo sguardo, il viso incorniciato di bianco, l’età, l’altezza, il timbro di voce, la stessa cadenza che appare priva di inflessioni dialettali. E soprattutto quella leggera balbuzie, quell’indecisione di un attimo all’inizio della frase mi ha regalato un vero tuffo al cuore. Resto a osservarlo meglio mentre parla con l’altro signore. Gli sta sistemando un pezzo, c’è da dare una lieve rifinitura. Poi lo congeda, non mi deve proprio niente, gli dice.

“Eccomi a lei, mi d-dica.”

Inizio a parlare, a spiegargli cosa mi è successo e intanto lo osservo con attenzione. Se l’avessi incontrato un anno fa, non avrei avuto dubbi: l’avrei salutato, certo di aver incontrato il mio amico in un posto insolito. Ora invece qui, a Mantova, il timbro di voce di quest’uomo, basso e caldo, rimescola ricordi del passato. Non riesco a smettere di pensare a Mino, di vedere Mino in lui.

“Ma lei v-viaggia senza niente per aggiustarsi una camera d’aria?”

Gli spiego che sono di Pavia, quindi doppiammente incosciente. Ride e comincia a chiedermi cosa ho visto e cosa voglio vedere a Mantova. Gli racconto del parco Andreas Hofer.

“Ogni anno, a febbraio, v-vengono dall’Alto Adige e dal Tirolo centinaia di persone vestite nei loro c-costumi caratteristici a ricordare il loro eroe, il ribelle a Napoleone. Questo è stato l’anno del bicentenario, la m-manifestazione era ancora più grande, c’era ancora più g-gente.”

Anche Mino avrebbe fatto così, si sarebbe messo a parlare di storia con la stessa passione. Avrebbe piazzato l’indice destro verso l’alto per sottolineare i passaggi più importanti, avrebbe avuto la stessa sottile fiamma negli occhi parlando di storia, di arte.

E mentre mi ripara la bici, affronta un altro argomento che avrebbe affascinato Mino.

“M-ma lei l’ha visto il teatro Bibbiena? Ah, l’acustica è formidabile, come in tutti i t-teatri del ‘700. E i palchi dietro la scena ad avvolgere gli attori, i c-cantanti lirici: che spettacolo! C’era da tremare all’idea di stare su quel p-palcoscenico.”

Mantova rivive nelle sue parole, tra Gonzaga, Giulio Romano, sventramenti del centro storico, martiri di Belfiore. Si affollano varie epoche storiche, strati consolidati che descrivono il precipitato della città attuale. Sono affascinato dalla voce e attendo con ansia quel frangersi dell’onda delle parole sul muro della prima consonante per avere ancora una volta la conferma che è proprio lui, Mino. Gli domando se ha sempre fatto il ciclista.

Risponde con un viso serio e dopo una pausa prolungata: “No, sono un pensionato, riparo b-bici qui nel retro di questo negozio di abbigliamento sportivo di mia moglie. Ecco, ora le do una g-gonfiatina.”

Non mi ha detto cosa faceva prima, come se preferisse tacerlo, non sbilanciarsi, non rivelarsi. Ora è qui a riparare bici. Per il resto esiste la storia, ma non la sua.

Riprende il sorriso mentre dice che mi sarò stufato di sentirlo parlare di tutte queste cose. Gli dico che sono molto contento di conoscere Mantova e di sentire le sue spiegazioni, che è bello conoscere persone così appassionate. Ma non riesco a dirgli della stretta al cuore che mi prende quando parla.

“La sua bici ora è p-pronta. Se ha un attimo di pazienza, le faccio vedere la mia c-camera segreta, il mio rifugio per i f-fantasmi del passato, il mio museo. Venga, la prego.”

Il suo tono è tranquillo e rassicurante, ma l’espressione ‘fantasmi del passato’ mi regala un brivido lungo la schiena. Ripenso all’anno appena trascorso, a Iva, a Enrico, a Silvia, a Gaia. Fantasmi del passato. Vedrò in quella stanza anche loro dopo aver visto Mino? Penso alla bocca di Iva, alla voce di Enrico, al sorriso di Silvia, all’ironia di Gaia. Girano vorticosamente nella mia mente le loro vite, l’incrocio delle loro esistenze con la mia. Non si sono conosciuti tra di loro, sono io il trait-d’union delle loro esistenze. E sto forse per incontrarli di nuovo, qui, nel retrobottega di un negozio di ciclista a Mantova. Ma poi perché solo loro? Forse posso incontrare altri fantasmi. Il collegamento con Mino mi fa pensare agli amici dell’ultimo anno che non ho più. Ma magari posso vedere mio padre, posso incontrare mia nonna, il mio gatto Minou che si nasconde in uno scatolone di cartone. Saranno tutti come questo ciclista che non sa di essere Mino, o finge di non esserlo? E questa porta si aprirà su una stanza asciutta e poco illuminata adatta a vecchie biciclette o si aprirà su un mondo nuovo e una luce violenta colpirà i miei occhi appena varcata la soglia?

“S-si sente bene? Mi sembra un po’ pallido.”

“No, non si preoccupi, forse devo mangiare qualcosa, ma ci penso dopo, mi faccia vedere il suo museo.”

Muoviamo pochi passi in direzione di una porta di legno vecchia, scrostata. La apre dopo aver dato due giri alla chiave già inserita nella serratura. Entriamo in una stanza con poca luce. Ai due lati, a terra, ci sono le rastrelliere. Dal soffitto pendono altrettante bici. Bici da corsa, da passeggio. Freni a bacchetta, manubri di tutti i tipi, fanali in metallo, vecchie dinamo. Il mio occhio profano si posa su dettagli e mi stupisco di aver pensato fino a un attimo prima di attraversare la linea d’ombra che separa dall’aldilà.

“V-vede, questa è una Umberto Dei, è da donna, ma è una 28. La facevano per i preti, che avevano la tonaca ma erano più alti delle donne. Non è vecchia, ma è un modello che nessuno fa più. Come va, si sente bene?”

“Non si preoccupi. Sono allergico alla polvere e non potrei stare qui dentro a lungo, ma sono contento di vedere questi fantasmi. Questa cos’è? Assomiglia a una che ho avuto.”

“E’ una Learco G-guerra, granturismo la chiamavano. Leggera, con quattro rapporti. Adatta a fare quello che fa lei in questi giorni. Lo sa che qui v-vicino c’è il paese natale di Learco Guerra. Gran corridore, grande uomo. Quest’altra è la più vecchia, è del 1928. Apparteneva a mio padre. Ha fatto per anni venti chilometri al giorno avanti e indietro da San Benedetto Po alla cascina in cui lavorava. La p-potrebbe usare anche adesso. Basterebbe una gonfiatina e va in strada. Sa quante volte me la chiedono per esposizioni? L’ultima volta me l’ha chiesta un n-negozio di abbigliamneto in centro. No, gli ho detto, è un ricordo, non v-voglio metterlo in mostra, era di mio padre. Mi offrivano dei bei soldi.”

“Mi piace moltissimo il suo museo. Ho un amico, Joseph, che sarebbe entusiasta di trovarsi qui a parlare con lei di vecchie bici. Io sono ammirato dal suo amore per ciò che è antico, per ciò che è bello, ma sono proprio ignorante in fatto di bici. Sono solo capace di pedalare. E solo in pianura!”

“Non voglio t-trattenerla di più. Come va il suo raffreddore? Mi sembra che non abbia starnutito.”

Esce dalla porta mentre io mi attardo ancora a catturare la stanza con un ultimo sguardo. Mi aspetto ancora di sentir frusciare Minou, ma c’è silenzio tra quei monumenti storici, nessun movimento nei metalli puntigliosamente lucidati.

“La ringrazio moltissimo, è stato un piacere conoscerla e fare questo tuffo nel passato. Ha più di ottant’anni il suo fantasma più vecchio!”

“Io ringrazio lei e b-buon viaggio. E la prossima volta si ricordi di portarsi dietro qualcosa per cambiare la ruota!”

“Le dico di sì, ma poi non so se lo farò. Grazie e arrivederci.”

Quando esco, il sole mi abbaglia per un attimo. Mantova ora ha una luce diversa. Sembra più familiare, mi sembra che non mi permetta più di estraniarmi dalla mia vita. E’ come se l’iperspazio non esistesse e ritrovassimo sempre tanto delle nostre vite nelle esistenze sconosciute degli altri. O forse è che ci portiamo dietro tutto di noi e ce lo carichiamo sulle spalle come faccio ora con il mio zaino prima di salire sulla bici e ripartire.

 

Loading

19 commenti »

  1. Il suggestivo racconto di Gipo Anfosso, oltre ad avermi catturato per la sua capacità di raccontarci la spavalderia, la disillusione e lo spirito boemienne dei vent’anni, ci dice anche qualcosa di più profondo: la bicicletta non è solo un mezzo di locomozione o un modo di fare sport, ma rappresenta la possibilità di stare soli con noi stessi, con i nostri pensieri e di estraniarci dalla realtà giusto per lo spazio di una breve parentesi, prima di tornare nel mondo reale per fare degli incontri con persone di cui mai avremmo sospettato l’esistenza.

  2. Bellissimo!

  3. Ci si sente coinvolti lo si legge volentieri

  4. Bellissima storia, da un lato ben ancorata al reale ( e l’uso del tempo presente dà la sensazione del “qui e ora” ), dall’altra vagamente surreale. Mi ha ricordato l’atmosfera di certi racconti di Dino Buzzati. Bravissimo Gipo Anfosso!

  5. Racconto denso di spunti poetici e nostalgie. Molto ben scritto. Consiglio vivamente a Gipo Anfosso di andare a visitare il Museo Guatelli, vicino a Parma (http://www.museoguatelli.it/). Mi è subito venuto in mente. Bravo!

  6. storia bellissima e coimvolgente, peccato che sia un “breve racconto”… bravo gipo!

  7. La balbuzie a volte è la vita stessa, come questa permette di assaporare le parole in bocca, parole che sembrano trattenersi, momenti di vita trattenuti, momenti di vite intrecciate.
    Bello il racconto, non lasciarlo solo, continua a scrivere in modo che poi non si debba dire che si sente un vuoto, un vuoto tremendo.

  8. Bello! Il piacere della lettura è anche questo: entrare invitati nella vita di altri, nella piccola stanza in penombra che accoglie i “fantasmi” di ognuno, del personaggio del racconto, e di chi scrive.

  9. Grazie Gipo. Ci restituisci il vero senso del viaggio fatto di luoghi, di persone, di incontri e tuffi nel passato. E il “frangersi dell’onda delle parole sul muro della prima consonante” ci avverte che l’imprevisto a volte nasconde aspetti fecondi e sorprendenti.
    Bello davvero!

  10. Racconto dolce e affascinante. Scrittura leggera ma anche molto elaborata. Gipo Anfosso restituisce e trasmette il senso del lavoro “ben fatto”: del piacere di raccontare, con la cura dell’artigiano che cesella, cura i particolari ma non solo. Notate la scelta (per niente casuale, ne sono certa) degli articoli, dei sostantivi, dei tempi verbali. Tutto concorre a dare un’impressione di leggerezza, di fluidità ma che non puo’ essere che il frutto di un grande e paziente lavoro di scrittura e di narrazione curata. Sono d’accordo con minette: ancora ancora, voglio ancora dei racconti di Gipo Anfosso!

  11. Beh,non sono brava a commentare comunque che dire…SEMPLICEMENTE BELLISSIMO continua a scrivere mi raccomando.

  12. Racconto stupendo: ricco di sensazioni, evocazioni, nostalgia, dolcezza, sogno e realtà e una stemperata e soffusa malinconia. Tutti questi sentimenti sono sospesi tra passato e presente, si intrecciano in modo impalpabile, donamdo un tocco di velata malinconia, ma senza sbavature. Mi ha riportato alla memoria il libro di Mino (casuale l’omonimia col personaggio del racconto?) Milani “Fantasma d’amore”.
    Questo è un racconto ben dosato e calibrato che ci fa capire come nessuno di noi possa staccarsi dal proprio passato, dal proprio vissuto, ma tutto contribuisca a creare la nostra “humanitas”.

  13. Intenso e leggero allo stesso tempo, complimenti Gipo!

  14. Un racconto che può essere paragonato ad una fotografia. Si riesce a vivere appieno la situazione del protagonista, scatto dopo scatto, come se si stesse sfogliando un album, che mescola presente e passato.
    Molto bella e suggestiva l’ultima frase del racconto “O forse è che ci portiamo dietro tutto di noi e ce lo carichiamo sulle spalle come faccio ora con il mio zaino prima di salire sulla bici e ripartire.”
    I ricordi, come sempre, non ci abbandonano mai ed è grazie ad essi che “siamo chi siamo”.
    Complimenti a Gipo, che riesce sempre ad emozionare con le sue parole.

  15. Anche stavolta hai fatto centro. Nel tuo ultimo libro mi hai fatto piangere di un pianto liberatorio e salvifico, pensando a mio padre, in questo breve racconto mi riemozioni col ricordo di chi ho amato e mi manca.
    Grazie Gipo.
    In molti facciamo percorsi emotivi profondi, ma tu riesci a condividerli.
    Grazie per le tue parole, per la forza dirompente che contengono.

  16. Bellissimo, mi ha riportato subito a “Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta” … la fuga su un veicolo a due ruote (inizialmente senza saper nulla di manutenzione), il paesaggio come tramite tra la realtà e il proprio pensiero, i “fantasmi”…….lo stesso stile incalzante.
    Una raccomandazione, se posso, non metterci come Pirsig dieci anni a scrivere il prossimo racconto, anche perché tu sei un insegnante e, come si è osservato in una delle bellissime trasmissioni di Fahrenheit settimana scorsa, per gli alunni uno scrittore vivente è un “mistero” a cui hai la fortuna di poter parlare.

  17. bellissimo, mi ha commosso e coinvolto. Amo particolarmente i racconti brevi, bravo Gipo

  18. Mi piace. Mi piace l’idea che la nostra quotidianità sia pervasa da un dialogo costante, intenso, segreto con chi non c’è…

  19. A volte, incontri del tutto casuali hanno il potere di cambiare il corso della nostra esistenza.
    Angela

Lascia un commento

Devi essere registrato per lasciare un commento.