Premio Racconti nella Rete 2014 “Nagasaki” di Daniele Sartini
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014Aspettavamo che l’aereo arrivasse. Lo aspettavamo seduti sulla panchina, io e lei. Avevamo gli sguardi su punti diversi del cielo, come le nostre idee sul futuro. Io avevo paura e, forse, anche lei ne aveva un po’, ma non ci avrei giurato.
Aspettavamo che l’aereo arrivasse e nessuno dei due parlava.
Che cosa potevamo dirci? Niente. Non volevamo farci promesse che non avremmo potuto mantenere. Ho allungato una mano per cercare la sua e l’ho trovata esattamente dove immaginavo fosse: l’aveva abbandonata sulla coscia in attesa che qualcuno la adottasse, pensai l’avesse fatto di proposito. Permise che le mie dita intrecciassero le sue poi le chiuse in segno d’assenso o forse di tregua.
Aspettavamo che l’aereo arrivasse perché così aveva detto il radiogiornale.
La televisione, invece, non ne parlava, raccontava altro, provava a distrarre le persone, per quanto fosse possibile. Avevamo detto di fare un viaggio, di prendere il primo volo e andare a vedere quanto il mondo fosse diverso da quella fetta d’umanità che ci era stata assegnata alla nascita. Ricordo di averne parlato durante la cena della vigilia di Natale, io e lei, davanti a due calici di vino mentre lunghi silenzi ci schiacciavano le teste come se conoscessero il nostro futuro. Nella vita avrei voluto navigare, volare o almeno avere il coraggio di assecondare le mie paure. Lei invece era più razionale, lo era sempre stata: per lei la Luna era un satellite, per me un romanzo nuovo da sfogliare. Quante volte abbiamo discusso di tutto questo. Dopo l’ultimo brindisi c’eravamo baciati. Le sussurrai che avremmo preso un aereo e non intendevo quello che stiamo aspettando adesso, ovviamente. Avevo già i biglietti in tasca, quel Natale, ma non gliel’ho mai detto. Non ho avuto il tempo di farlo. E’ comico come si riesca a quantificare il tempo solo quando ci viene a mancare, comico e drammatico. Così ho capito che il tempo è come una scarpa: seppur nuova, sotto, si consuma senza rendercene conto. Il ronzio dei motori iniziava a farsi sentire in lontananza eppure era ancora presto, sarà stata la nostra immaginazione ma sembrava molto più vicino di quanto non fosse. Lei appoggiò la testa sulla mia spalla, aveva gli occhi vuoti ancor prima che la polvere glieli sommergesse.
Aspettavamo che l’aereo arrivasse seduti su una stupida panchina e non dentro un bunker.
Ne avevamo discusso il giorno in cui qualcuno si era fatto avanti, non ricordo chi, e ci aveva detto che ci avrebbe potuto ospitare in un posto sicuro. Una lunga discussione ma mai con i toni accesi, non serviva litigare. Lei disse di no, che non importava, che tanto seduti su una panchina o dentro un bunker, la bomba ci avrebbe spazzato via comunque, avrebbe raso al suolo le case e polverizzato i nostri cuori. Mentre raccontava la sua verità, i miei occhi erano diventati lucidi nonostante mi sforzassi perché non accadesse: era come se fosse riuscita a mostrarmi ciò che sarebbe accaduto. La sua freddezza mi spaventava, era ancora più grigia del nostro futuro ma aveva ragione lei, su tutto, come sempre. Immaginai la bomba fremere dentro la pancia dell’aereo, la pensavo come un bambino davanti a un pacco regalo: stessa smania di strappare la carta solo che qui c’erano in ballo case, animali, persone. Tutto quel metallo mi dava i brividi e un senso di freddo mi sgualcì la pelle. Non era il freddo ciclico che rapisce la natura per poi rilasciarla; io sentivo il freddo muto della morte, quello che toglie il respiro e lo chiude dentro centinaia, migliaia, milioni di bare di legno. Le nostre bare di legno. Alzai gli occhi verso il cielo, lei li abbassò verso terra.
Sembra una supposta di metallo non può farci del male, pensai. Gli avevano pure dato un nome.
Come si può dare il nome a una bomba? Un nome si cerca per un bambino, un cane, un gatto; ma per una bomba? No. Una bomba è una bomba, punto e basta. Carica, decolla, sorvola, sgancia e distruggi ma non dare un nome alla bomba perché altrimenti diventa qualcosa di troppo personale. Fat Man. L’avevano chiamata Fat Man, uomo grasso. Anche se di grasso non sarebbe rimasto nulla. Non era un mio problema ma quel nome faceva davvero schifo e lo gridai. La mia voce sparì dentro il rumore dell’aereo mentre le sue eliche tranciavano il nostro cielo. Il sibilo della bomba non fu fastidioso, però rimase in testa per molti secondi e lì lo conserverò per sempre. Non sentimmo alcun dolore, o forse qualcosa sì ma non volevo dargli questa soddisfazione.
Aspettavamo che l’aereo arrivasse ed è arrivato. Ci siamo baciati un attimo prima che Nagasaki sparisse.
Lei mi aveva chiesto di tenerci solo per mano, ne avevamo parlato, mi aveva quasi implorato, “non baciamoci, per carità”, ma un secondo prima dell’impatto, si rese conto che quello sarebbe stato l’unico modo per diventare immortali. Mi tirò a sé, e le mie labbra si stamparono sulle sue come i nostri profili sul muro dietro la panchina.
Aspettavamo che l’aereo arrivasse e arrivò, puntuale.
Molto bello.
Scrittura ben controllata. Tematica difficile, affrontata in maniera delicata. Le parole hanno un posto preciso, alcune restano sospese sullo schermo, altre arrivano al cuore.
Bravo
L’ho letto e riletto ed ogni volta mi si stringe il cuore. Mi complimento per la capacità dell’autore di trasmettere così tanto in così poche righe. Grazie per avermi fatto emozionare.
Complimenti Daniele, mi ha fatto pensare ad un libro che ho letto l’anno scorso “Haiku il canto delle parole perdute”. Tutte quelle vite spazzate via. E i tuoi personaggi sono lì, sospesi, insieme al lettore. Bravo. Liliana
Bel racconto,
bravo Daniele.
A presto.
😉
Emozionante.
Bravo Daniele, complimenti.
Un racconto bellissimo che mi era sfuggito e che ho riacchiappato grazie alla meritatissima vittoria.
Un’emozione forte, che squassa il ventre come la bomba narrata, una scrittura perfetta.
Complimenti, sarà un onore per me essere nella stessa antologia con te.