Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Racconti nella Rete 2009 “Ho perso le parole” di Anna Dessì

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2009

“Ho perso le parole, eppure ce le avevo qua un attimo fa, volevo dire cose che sai, che ti dovevo, che ti dovrei…”

Ho appena oltrepassato la porta delle cucine, quando la mia attenzione viene conquistata da questo arpeggio di chitarra che accompagna le parole di una canzone, trasmessa da una stazione su cui la radio è sintonizzata. 

Sto cercando qui Maria per ringraziarla della nuova penna a biro rossa trovata stamattina sul comodino, sicuramente frutto della sua amabilità. 

Eccola infatti, indaffarata, ma sorridente come spesso il suo carattere gioviale le concede di essere.   “Bella questa canzone…” le dico sorridendo quando mi vede, indicando col dito la radio “…Sembra scritta da me, no?”. 

Maria ci pensa su un secondo. “Hey, ha ragione. Non ci avevo mai pensato!”.

E poi sottovoce, avvicinandosi, come per non farsi sentire dalle sue colleghe “Sa che il cantante è un figo pazzesco?”. Sfodera un sorriso un po’ bizzarro, quasi da adolescente imbarazzata ma fieramente discola e la sua complicità mi lusinga e diverte, così che mi ritrovo a ridere di gusto.

 

Anche io perdo le parole, come quel cantante, e tante ne ho già perse.

Succede ormai da anni, anche da prima di entrare in questa casa.

E’ sbagliato dire che le ho perse perché le parole non sono una mia proprietà, non sono di nessuno. Le parole vivono nell’aria, nel suono che le fa dondolare intorno quando una voce ha dato loro vita. A volte sono decise, a volte tentennano, altre ancheggiano. Vanno via, per ritornare appena abbiamo bisogno di loro in un discorso, un pensiero, una lettera, una poesia, un rimprovero.  

Però succede che, da me, molte parole non sappiano più fare ritorno: un oscuro maleficio, perfido omaggio della vecchiaia, agisce inesorabilmente asportandole in maniera casuale dalla mia mente.

E io le sto dimenticando per sempre.

Sto tentando, con l’aiuto di Maria e del mio quaderno e delle mie penne, di ritrovarne quante più possibile e ogni parola ritrovata per me è un trionfo, accompagnato dall’emozione forte che indovino possa dare un applauso a scena aperta, al termine di uno spettacolo.

Maria è diventata per me, giorno dopo giorno, un’amica preziosa. Non appartiene alla folta categoria di persone convinte che a noi ospiti di Casa Azzurra piaccia o ci rinfranchi essere trattati con i falsi e odiosi vezzeggiamenti, adatti in realtà più ad un asilo nido che ad una casa di ricovero per vecchi.

Il quaderno che porto sempre appresso è un dono importante che lei, inaspettatamente, mi ha regalato in una scialba mattina di pioggia, qualche mese fa. In copertina riporta l’immagine radiosa di un vivace campo di tulipani coloratissimi, che, anche da soli, quel giorno, avrebbero saputo risvegliare la pigrizia e il grigiore di cui era intessuta quella mattina.  

Ricordo che avevo guardato Maria con sguardo interrogativo, aggrottando le sopracciglia con aria di finta preoccupazione, non comprendendone il significato e l’utilizzo suggeritomi.

Allora mi aveva preso la mano e mi aveva sussurrato seria e felice:

“Così scriverà qui ogni parola che ha paura di perdere e potrà conservarla con cura”.  

Sopraffatta dal calore del gesto, avevo quindi accettato il quaderno e le avevo stretto la mano a lungo nelle mie, piena di gratitudine.

Il mio quaderno è l’occasione per ricolmare o lenire alcuni solchi lasciati dalle parole strappate via, ferite che possono medicarsi, anche se solo lievemente, con una semplice pozione di pazienza e volontà da parte mia. E’ la mia insperata opportunità di allontanarmi di qualche passo dal destino cupo e spaventoso della demenza assoluta. 

 

 

Che di dementi, alienati e stupidi qui nella casa è pieno. 

Gemma ad esempio. 

Le due stupide sillabe che formano il soprannome a lei affibbiatole, Pippi, già da sole tolgono a Gemma gran parte della sua lontana dignità. Quando, casualmente, ho saputo il suo vero nome, così luminoso e puro, ricordo di aver pensato che se il destino, in passato, avesse concesso alla mia esistenza una figlia femmina, avrei voluto chiamarla solo così. 

La cattiva sorte ha concesso a Gemma un’insensata e sghemba porzione finale di vita in un suo mondo, estraneo ad ogni altra persona, lasciando noi, al di qua, spettatori del suo capo ostinato che oscilla continuamente  a ritmo lento, sempre uguale. Sempre gli occhi quasi chiusi e le labbra quasi aperte. Sembra dire tristemente no, no no. Tutto il giorno no.

Carla, della stanza dodici, una donna in cui convivono in uguali dosi meschinità, tristezza e perfidia, ripete spesso a cantilena, sorridendo in modo perverso, che il motivo del soprannome è che Gemma si fa la pipì addosso. Notizia poi non così sorprendente né originale, qui!

Carla fa paura a molti di noi per la sua scostumata aggressività. Personalmente la temo e la odio da quando ha tentato di rubarmi il quaderno e le penne a biro: io sono molto gelosa del mio quaderno così come delle mie penne, una con inchiostro rosso e una con inchiostro nero.

In rosso scrivo le parole dimenticate. 

Quante ne ho scritte? Purtroppo salvo dalla buia voragine dell’oblio solo un magro elenco di termini, recuperati quando il loro suono fortuitamente cozza e poi rimbalza nella mia testa guasta. Succede allora che, come una bambina o una straniera, me ne chieda il significato e le annoti su un foglietto, rivolgendomi a Maria per aiuto e delucidazioni. Molte volte mi imbatto in termini medici di cui mai in verità ho conosciuto il significato e allora, ovviamente, tralascio di riportarli nel mio quaderno.

In nero scrivo invece le parole che per me sono importanti e delle quali reputo indispensabile prevenirne l’eventuale dimenticanza.

La prima parola in nero scritta nel mio quaderno è “Pane”, forse per la mia passione per i panini della mensa. Li adoro, lì nel cesto rosso sulla tavola apparecchiata, con il loro profumo, con il suono del loro scricchiolio dato dalla buona cottura  e difficilmente resisto dal non portarmi uno di quei prodigi in camera. Poi, altrettanto difficilmente, contengo la smorfia amara quando con assurdo, poiché quotidiano, stupore, rilevo che, tra le pareti della mia stanza quadrata, la magia di acqua, farina e lievito si è trasformata in una palla molle e gommosa, buona solo per le papere del laghetto vicino a casa di Maria.

 

Oggi è domenica, il giorno delle visite, o, semplicemente, il settimo di una settimana in più, elargita generosamente – chissà da chi – a svantaggio  della morte.  

La domenica è la consacrazione della vecchia collana di perle di Carla. La indossa fedelmente già al mattino a colazione, anche se i suoi figli faranno la loro comparsa solo nel pomeriggio.

L’eccitazione crea una sorta di reazione chimica dentro di lei, generante il suo peggior veleno e le più bieche frasi d’odio e cattiveria, all’indirizzo di tutti. 

 “Tu non hai nessuno e quando morirai non ti piangerà nessuno!”   

Sono le orribili gengive a colpirmi più di ogni malvagità che la sua mente squilibrata produce,  gengive scoperte e sgraziate, denudate ad ogni vocale larga. E quando infine tace accarezza con fare morboso la sua stupida collana, guardandosi intorno con un sorriso angosciante.

Se non la odiassi la troverei patetica.

In realtà, tra l’altro, a me non dispiace affatto che nessuno venga a farmi visita.

Non ho nessuna persona cara in vita o vicina.

Mio marito se ne è andato lasciando impresse la sua immagine e la sua voce nitide nella mia stramba testa e un sentimento caldo e tenero nel mio vecchio cuore. E’ lui il giovane sorridente e dinamico, intensamente vivo che continua a tenermi compagnia in molti momenti della giornata, anche se è ormai così lontano, anche se, lui, è già arrivato a destinazione. 

Il mio biglietto so che è pronto e, un domani ormai vicino, salirò su quel treno e alla fine partirò, lo sguardo al finestrino a svagarmi con i paesaggi che correranno veloci inseguendosi, per avvicinarmi al momento felice del nostro rincontro così cercato e preteso.

Tuttavia, non avendo mai amato i commiati nelle fredde e inospitali sale d’aspetto delle stazioni ferroviarie, mi sento sollevata che dopo il fischio del treno non dovrò cimentarmi in discorsi  difficili e sicuramente stupidi con chicchessia, nemmeno con i figli, giacchè non ne ho avuti. 

Il destino, o Dio, o la sventura o chi diavolo sia poi a decidere queste cose, non mi ha concesso il beneficio e la grande prova di diventare madre.

Li osservo bene, però, domenica dopo domenica, tutti i figli che vengono qui a trovare le loro vecchie madri  e uno in particolare mi incanta: di lui conosco il modo di camminare, di aggiustarsi il ciuffo sulla fronte, di mettere talvolta le mani sui fianchi, tanto da saperlo distinguere immediatamente anche da lontano.

E’ il figlio di Gemma. 

Li guardo sempre cercando di non farmi notare, mamma e figlio, quando lui le si siede vicino e le accarezza teneramente la testa. Mi sembra di avvertire io stessa la sensazione delle sue dita che scivolano sui pochi capelli bianchi della donna, tentando con dolcezza di fermare l’oscillazione ostinata del capo. Spesso le sfiora teneramente la guancia appuntita dallo zigomo e le parla piano e, molte altre volte, le prende una delle sue magrissime e nodose mani nelle sue, certamente nell’intento affettuoso di infonderle un po’ del suo vigore e della sua vita.

Oggi mi sono avvicinata a loro più del solito perché ho sentito forte il bisogno di ascoltare la sua voce, ma, per non sembrare invadente, ho impostato sul mio volto un’espressione da svampita e muovo in continuazione le labbra, come a mormorare lunghe orazioni o nenie. Così facendo, lui pare ignorare la mia presenza… e io ascolto, così sfacciata da non provare nemmeno vergogna per il mio trucco meschino e poco rispettoso.

Parla con tono calmo e, pur trattandosi di ovvi monologhi, inserisce volutamente ampie pause che possano accogliere le inaspettate risposte di sua madre: il suo amore sconfinato configura quest’opzione possibile. 

E racconta. Quante cose racconta… 

Sta raccontando, ridendo con tutti gli occhi, le lezioni di guida che sta impartendo con impegno e con ridicola difficoltà a sua figlia. Poi le ricorda un episodio divertente della sua infanzia o della sua  prima gioventù e tutto ciò senza abbandonarle mai la mano o ripeterle di tanto in tanto  “Ti ricordi?”.

Il silenzio di Gemma appartiene a quei bui e ciechi mutismi che ciascuno di noi sceglie di interpretare ascoltando il proprio cuore, ignorando volutamente i messaggi che la razionalità, invece, confida.

 

Sta rinfrescando adesso e, abbottonando il soprabito sul petto, mi trovo a camminare nei pressi del cancello d’ingresso, proprio mentre l’uomo sta per uscire, il viso basso e un peso invisibile, doloroso, sulle spalle.

Ci guardiamo in silenzio: non riesco a smettere di appoggiare lo sguardo sui suoi occhi, adesso così rossi e gonfi, traboccanti di sofferenza. Lui appare decisamente stupito della miracolosa presenza che può percepire nel mio sguardo, ora che ho smesso la farsa dell’alienata.    

Restiamo così per un tempo che potrebbe essere breve come lunghissimo, poi, improvvisamente, il mio quaderno cade a terra, sull’erba del giardino, con un rumore lieve che fa tuttavia sobbalzare entrambi.

Lui si china subito e lo raccoglie, porgendomi il mio oggetto prezioso con estrema delicatezza. 

“E’ il suo diario signora? L’ho sempre vista con questo quaderno con sé e…”. 

Il suo tono è gentile e dolce.

“No” mi affretto a rispondere “ E’ un quaderno in cui scrivo le parole che non voglio perdere. So che presto mi perderò io stessa…” continuo sorridendo serenamente senza staccare gli occhi da lui “…ma finché ho il mio quaderno stretto nelle mani, vede, ho meno paura di … cadere giù subito. Una specie di zattera, in un certo qual modo….”.

Non riesco a smettere di parlare, nonostante mi senta imbarazzata per queste confidenze.

 “Mi dispiace se la sto rattristando, accidenti, questo posto sembra fatto apposta per rattristare le persone e io… Oh, mi scusi sa, non volevo proprio. Sua mamma, Gemma, è così fortunata ad avere un ragazzo come lei che le regala tante parole. Le parole sono meglio dei fiori, sono così importanti sa? Come le carezze che lei fa a sua madre, sono fondamentali. Accarezzi sempre sua madre, sempre! A noi vecchi qui, ormai, ci toccano solo per… lasciamo stare. Mi scusi davvero, sono solo una vecchia chiacchierona invadente”. 

Improvvisamente voglio scappare. Mi sento una vera stupida, fuori luogo, una bambina che ha recitato la poesia sbagliandola tutta. Sono incredibilmente provata, quasi tremo e penso di non poter più riuscire a sollevare di un millimetro lo sguardo, ora fisso a terra. 

Faccio un passo rapido di lato, per allontanarmi in fretta.

“No signora, aspetti. Non vada via, per favore, davvero… Non penso affatto che lei sia invadente, mi ha fatto star bene, invece, ascoltare ciò che mi ha detto! Grazie a lei oggi io… Sì, io oggi esco da questo cancello con … sollievo.  Grazie signora Lucia. Posso?” 

Si avvicina e mi dà un bacio sulla guancia. Un bacio vero, con le labbra appoggiate senza incertezza alla mia pelle e alle mie rughe. 

“Grazie” mormoro con un filo di voce, sconvolta dalla straordinaria potenza di quella semplice e amorevole manifestazione d’affetto, lava dolce che mi percorre dentro.

 

Mi siedo sulla panchina e medito su come sia stato bello e inaspettato sentire pronunciare il mio nome dalla voce del figlio di Gemma. 

Apro il mio quaderno, tolgo lentamente il tappo dalla mia nuova penna ad inchiostro rosso e la inauguro.

Alzo lo sguardo al cancello che, col cigolio lamentoso che lo caratterizza, viene chiuso anche per questa domenica e il pensiero va alla collana di perle di Carla che sta tornando dentro il cassetto del comodino.

Rileggo ciò che ho appena scritto: “Sollievo”.

Non ne ricordo assolutamente il significato ma non ho dubbi: oggi ho ritrovato una parola importante. Lo so.

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2 commenti »

  1. Ciao Anna, che dire:semplicemente bello! Bello e intenso. Non voglio sprecarlo con considerazioni supereflue, è un racconto che dona emozioni, ed è questo, a mio parere, il più importante scopo della letteratura. In bocca al lupo. Annamaria

  2. Grazie Annamaria, sono contenta che tu abbia letto il mio racconto e davvero tuo commento mi ha reso molto felice!
    In bocca al lupo anche a te, ciao.

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