Premio Racconti nella Rete 2014 “Il taccuino nero” di Mario Abbati
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014«L’hai notato quel tizio?» busso col gomito sul fianco di Cristina. «Mi fa incazzare come una bestia.»
È uno sulla quarantina, un po’ allampanato, due basettoni grigi e arruffati uniche oasi pelose su una zucca quasi calva.
«Lo tengo d’occhio dal primo giorno, siede sempre allo stesso posto» invito Cristina a sintonizzarsi sul bersaglio. «Seconda fila, tutto a sinistra.»
«E allora?» Cristina emette un sibilo di fastidio, il tempo a disposizione per l’esercizio sta per scadere.
«Non smette un attimo di scrivere, sia durante la lezione che negli intervalli.»
«Magari prende appunti.»
«No» sul tema ho le idee chiare, l’ho osservato troppo bene.
Sta sempre con la testa china sul suo taccuino nero, la mano salda su un pennino sottilissimo con cui traccia una grafia nevrotica tipo elettrocardiogramma che alterna a colpetti risolutivi.
«Uno che prende appunti ogni tanto alzerebbe la testa, chiederebbe spiegazioni. Lui invece sta rinchiuso nel suo mondo e non si fila nessuno.»
«Sarà concentrato sul racconto» Cristina mantiene i nervi saldi.
«Il limite è quattro cartelle, ogni cartella duemila caratteri» ripeto a memoria le uniche frasi che ho trascritto sul quaderno dall’inizio dello stage, dopo una serie di false partenze non ho ancora partorito la prima riga del mio racconto. «Mentre quello, se continua così, fra un po’ sfodera la quarta cantica della divina commedia.»
«Ma dai.»
«Più lo vedo, più mi fa bollire il sangue.»
«Pensa a te» Cristina accenna alle pagine intonse del mio quaderno e torna a dedicarsi all’esercizio, «entro domani bisogna consegnare il racconto.»
Dal palchetto dei docenti giunge il segnale di tempo scaduto, tutti quanti posano penne e matite e rivolgono gli sguardi alla cattedra. Tutti tranne il tizio. Chiude il taccuino nero, si alza e imbocca il corridoio.
«Hai visto?» solletico Cristina con una nuova gomitata.
«Che.»
«Finito l’esercizio, piglia e sparisce» lo seguo con lo sguardo finché non abbandona l’aula. «Ogni giorno così.»
«E basta» sbotta Cristina. «Lascialo in pace.»
«No!» assecondo l’impulso delle gambe e balzo su. «Stavolta voglio vedere dove va.»
Lascio il quaderno sulla sedia e mi getto all’inseguimento.
Esco dalla sala corsi, mi blocco sulla soglia dell’edificio. Eccolo là, nella folla variopinta che anima la piazzetta trasteverina di Sant’Egidio. Scendo gli scalini e gli vado dietro.
Imbocca Via della Scala mescolandosi al flusso vorticoso dei turisti, sono circa le nove, cioè ora di punta, da pub e trattorie esala un coretto stonato di risate e urla multietniche. Non mi è difficile tallonarlo a distanza, uno così alto è impossibile perderlo di vista. Prosegue lungo il rettifilo fino ad arrestarsi di fronte all’insegna di un bar, dopo una fase di esitazione si decide ed entra.
Ci arrivo pure io, mi affaccio con discrezione. I posti a sedere sono tutti occupati, il bancone assediato di clienti. Lui lo vedo parcheggiato dietro un tavolino nell’angoletto più lontano. Non ci posso credere, si è rimesso a scrivere sul taccuino nero. Col suo pennino affilato. Quel miscuglio di rabbia e odio che avevo smaltito durante la breve passeggiata torna a coagularsi nella mia pancia.
Entro e mi nascondo dietro un gruppetto di turisti. Una cameriera bionda si stacca dal bancone e raggiunge il tizio, gli serve un cappuccino. Lui non se li fila, né la ragazza né il cappuccino, la sua mano continua a zigzagare senza pace sulla carta.
Finalmente si blocca e posa il pennino.
Si guarda intorno, i suoi occhi intercettano un punto all’orizzonte, ne seguo il prolungamento e centro la porta del bagno. Il tizio si alza, dopo uno slalom impacciato fra i tavoli sparisce nella toilette. Torno a inquadrare il tavolino e rimango senza respiro.
Il taccuino nero è rimasto là.
Una raffica di segnali contrastanti mi bombarda la testa, non so a quale obbedire, alla fine mi faccio coraggio e invado la saletta. Intorno regna la confusione più assoluta, nessuno si accorge di me. Mi accosto al tavolo del tizio, l’oggetto dei miei desideri staziona incustodito fra la tazza col cappuccino e alcuni frammenti di vetro. Li metto a fuoco, sembra una fiala medicinale spezzata in due.
Allungo una mano verso il taccuino, ne palpo la superficie lucida. È bagnata, i miei polpastrelli sguazzano in uno straterello di liquido viscoso. Mi sfioro le narici con le dita, è una puzza mai sentita. Il tempo di aspirarla e il mio cervello reagisce come se fosse stato colpito da una bomba atomica. Mi sento improvvisamente stordito, un attacco di nausea talmente forte che mi viene quasi da rigettare. Con la coda dell’occhio noto la porta del bagno che si apre, il tizio che esce.
Afferro il taccuino con un gesto fulmineo e me l’imbosco nei pantaloni. Niente allarmi o sirene della polizia, solo i rintocchi del mio cuore che coprono il brusio del locale. Esco dal bar e fuggo via.
Mi costa uno sforzo sovrumano mantenere la traiettoria, le gambe barcollano, la testa è pesante come una palla di marmo. Raggiungo in apnea l’incrocio con Vicolo della Scala, per fortuna ho parcheggiato qua dietro. Dal chiasso furioso penetro in una bolla di silenzio tombale, forse anche i timpani mi stanno per abbandonare.
Arranco nel vicolo finché non avvisto la mia auto incollata al muro. Apro dalla parte del passeggero, scavalco la leva del cambio e mi siedo di fronte al volante. Ho il fiato grosso, le tempie che pulsano impazzite. Sfilo il taccuino dalla tasca, strofino la copertina sui pantaloni in modo da cancellare ogni residuo di quel terribile intruglio. Poi tolgo la fascetta elastica e lo apro.
Oh, merda. Le pagine sono bianche.
Sfoglio il blocchetto dall’inizio alla fine, torno indietro, nemmeno un puntino casuale. Non faccio in tempo a pormi domande che lo sportello si apre e il tizio allampanato s’infila nella macchina. Riconosce al volo l’oggetto che stringo fra le dita. Vorrei scusarmi ma lui fa scattare un braccio ossuto e mi preme sul naso un fazzoletto bagnato. Puzza come la roba di poco fa.
Basta un istante e mi trasformo in una statua di ghiaccio, posso solo ruotare le pupille. Vedo il tizio che solleva l’altro braccio, il pugno chiuso sul suo pennino aerodinamico, uno stecco sottile color grigiopiombo che termina in una punta affilata. Cala il braccio con sicurezza chirurgica e mi conficca lo stiletto tra collo e spalla. Quando lo estrae, dal buco sprizza fuori un fiotto di sangue che s’infrange sul parabrezza.
Ma io non provo dolore.
Lui inzuppa il pennino nella scia rossa che mi cola sul braccio e traccia dei simboli sul lato-A della mia camicia bianca. Da sinistra, all’altezza del cuore, come se scrivesse al rovescio. Con la solita grafia tipo elettrocardiogramma, fatta di cuspidi e tocchetti. Poi recupera il taccuino nero che mi è caduto fra le gambe, inclina verso di me lo specchietto retrovisore e fila via.
Guardo nello specchietto, è centrato sulla frase di sangue che mi ha tracciato sul petto. Nonostante le palpebre che sfarfallano riesco a decifrarla, solo tre parole.
Troppa curiosità uccide.
C’ e molta fantasia in questo racconto .Scritto bene descrive molto bene vedi le scene davanti agli occhi. Un finale inaspettato…. Complimenti!
Atmosfera molto bella, alla Poe. Scrittura di qualità. Bravo. CEMF
Facendo “zapping” tra racconti…
Dettagliato ed efficace,
un noir all’altezza.
Bravo Mario
Sto leggendo i racconti nei momenti liberi e ora mi sono imbattuta nel tuo. Mamma che ansia….non mi aspettavo un finale così! Ottima idea, davvero. Sembra l’assaggio di una lunga storia noir, metropolitana.