Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2014 “Mina Leopardi” di Marcello Fanfarillo

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014

Mina Leopardi ha le tette più grosse di una mucca tibetana.
L’ho letto pochi minuti fa sulla facciata della scuola. Era scritto con la vernice rossa a caratteri cubitali. Nome e cognome. Sulla facciata del Liceo Classico “Jobs”.
Sono diventati proprio stronzi i ragazzi.
Mi sento irritato, deluso, offeso, a pensarci bene mi sento anche un po’ a disagio. Non mi è molto chiaro come mi sento, così, un attimo prima di cominciare la lezione,  richiudo il libro che ho appena aperto e cedo alla tentazione di dedicare la prima ora di lezione al tema. Scendo nell’agone pedagogico e mi esibisco in una danza forsennata intorno al totem della cultura. Saltello dalla filosofia all’educazione civica, dimeno il sedere davanti alla cartina geografica, ululo nozioni di educazione sessuale. Sono lo sciamano dell’educazione, il derviscio della cultura, lo stregone della formazione. Mi esalto, mi appassiono, mi infiammo.
Ovviamente non serve a nulla.
Al cambio dell’ora incontro Mina Leopardi in sala professori. Non resisto all’impulso di mostrarle solidarietà, subito dopo mi maledico.
La Leopardi mi zittisce brutalmente con un “e no!” roboante, mi immobilizza con uno sguardo al cianuro e poi mi tramortisce con una bordata di parole e di spruzzi di saliva. Per qualche secondo perdo il controllo del respiro, poi per fortuna si attiva il dispositivo salvavita, faccio un passo indietro, tiro una boccata d’aria e mi immergo in apnea nel diluvio di parole.
Dura solo un minuto, ma è tremendo.
La guardo con gli occhi sbarrati e le guance gonfie, mentre mi dice che non sono in grado di cogliere il nesso tra erotismo e opulenza carnale, che non conosco Fellini, Rubens, Moore, che non ho alcuna consapevolezza del fatto che la seduzione è uno strumento professionale dell’insegnante, che è contenta se i ragazzi esprimono le loro emozioni profonde, perché solo così possono crescere senza correre il rischio di diventare come quegli adulti rancorosi e depressi che lei conosce tanto bene e che vivono tanto male.
A questo punto fa una pausa eloquente e io mi vedo come mi vede lei: un adulto rancoroso e depresso che la fissa con gli occhi sbarrati e le guance gonfie.
Confesso che provo un po’ di pena per me stesso.
Anche a lei devo far pena perché improvvisamente smette di insultarmi, indietreggia vacillando sui tacchi quadrati, si allarga la camicetta sul petto e gorgheggiando mi confessa il sogno segreto di recitare nell’Ifigenia in Tauride, naturalmente con il seno scoperto.
Ne approfitto per riemergere e fuggire via.
Per riprendermi dall’aggressione vado nella stanza del preside. E’ il luogo più tranquillo della scuola perché lui non c’è mai.
E invece c’è.
E’ troppo tardi quando lo vedo, ormai sono entrato nella stanza. Rovisto velocemente nel cassetto mentale delle giustificazioni in cerca di un motivo per spiegare la mia irruzione, contemporaneamente mi sforzo di ignorare quella parte della mia mente che si ostina a propormi la fotografia della situazione dal punto di vista del preside Morante: quell’imbranato del professor Donzella che si è bloccato sulla porta.
Per fortuna lui mi lancia solo un’occhiata veloce e con un cenno della mano mi invita ad avvicinarmi.
– Bene, professor Donzella, si accomodi.
Bene?
Mi avvicino, mi siedo.
Il preside Morante controlla l’orologio, dà una scrollatina al nodo della cravatta, posa le mani sulla scrivania, intreccia le dita, lascia vagare lo sguardo sul soffitto e poi lo ferma su di me. Mi osserva in silenzio.
E’ chiaro che aspetta che accada qualcosa. Mi chiedo se spetti  a me far accadere qualcosa. Appena apro la bocca per parlare, bussano alla porta.
Mi riprometto di dare un’occhiata all’oroscopo di oggi, sono curioso di leggere cosa c’è scritto.
Nella stanza entra la professoressa Petrarca. E’più bionda e più imponente del solito, viene avanti con passo marziale, lo sguardo fisso sul preside, ogni passo è una mazzata sul pavimento, quando si abbatte sulla sedia mi sorprendo a considerare la solidità delle suppellettili di questa scuola.
Osservo il preside, mi sembra intimidito, si sfrega le mani, le torce e attacca,
– Allora, quale è il problema? Sono così impegnato, ho così tante cose da fare, così tanti problemi da risolvere. Ma perché non ho fatto il bidello? Chi me l’ha fatto fare di prendermi questa responsabilità? Eh, chi me l’ha fatto fare?
Ferma lo sguardo interrogativo su di me.
Io ricambio con uno sguardo interrogativo e sconcertato.
Sembriamo due scemi che si osservano.
La Petrarca invece guarda dritta davanti a sé, impassibile, senza permettere a un solo millimetro del suo cappotto di toccare lo schienale della sedia.
Chissà se il preside Morante lo capisce che non sono suo alleato? Mi sembra di no, perché riprende a parlare senza distogliere lo sguardo da me.
– Sono così impegnato…
Impegnato? Ma se non ci stai mai! Automaticamente recupero dal mio archivio storico interno la scritta che i ragazzi hanno dedicato al preside Morante. E’ stato un colpo di genio quella scritta “ PRESIDEEEEE…” e basta, senza aggiunta di dettagli anatomici o inviti allo svolgimento di azioni varie.
Un messaggio secco, essenziale. Un siluro micidiale. Colpito, affondato!
Ma il preside Morante non l’ha capita quella scritta, perché non l’ha fatta cancellare e  ha continuato beatamente a ignorare l’esistenza della sua scuola.
– Va bene, affrontiamo di petto la questione, professoressa Petrarca.
Ah, è un problema della Petrarca e allora perché guardi me? E’ seduta qui vicino, posizione ore 2,00, basta ruotare la testa di 45 gradi. Glielo dico con gli occhi, ma evidentemente non sono convincente perché lui continua a guardare me e a parlare alla Petrarca.
E se fosse un caso molto raro di strabismo?
– Gli alunni si lamentano, dicono che il greco con l’inflessione napoletana non si capisce, che, mi scusi, ma questa è l’espressione usata dai ragazzi, è un gran casino.
Mi volto verso la Petrarca, una macchia rossa spunta dal bavero del cappotto, sembra un’alba, di rabbia, più che di vergogna.
Spinto da un sussulto di dignità, mi inserisco nella pausa e dico che devo andare in classe, poi, senza aspettare una risposta, mi alzo e me ne vado.
Prima di chiudere la porta osservo la scena: il preside Morante guarda in direzione della sedia ormai vuota, mentre la professoressa Petrarca lo ricopre di insulti in napoletano verace.
Fotografo mentalmente e archivio sotto la voce: l’assenza.
Ho due ore in seconda B, la famosa seconda B. La classe imbattibile che ha realizzato azioni di indisciplina creativa leggendarie.
Una volta i ragazzi hanno manifestato il loro dissenso nei confronti della professoressa di Greco bombardando l’aula con scorregge silenziose e puzzolenti. Qualcuno ha calcolato che in un’ora hanno mollato 240 scorregge! Una scorreggia ogni 15 secondi! Una potenza di fuoco spaventosa!
Hanno contribuito tutti alla buona riuscita dell’operazione, maschi e femmine, normodotati e disabili, italiani e stranieri, secchioni e bulli, senza distinzioni di sorta, tutti uniti da uno spirito di sacrificio alla causa comune davvero commovente. Il giorno prima avevano mangiato tutti le stesse cose e durante l’attacco un comandante in campo dirigeva le operazioni in modo da ottenere un bombardamento a tappeto continuo.
Un’organizzazione invidiabile! Un mirabile esempio di impresa collettiva!
Ancora mi chiedo perché la scuola non abbia accordato all’evento il giusto riconoscimento. A mio parere abbiamo perso l’opportunità di arricchire il repertorio delle buone prassi d’Istituto con un modello di intervento che avrebbe potuto essere replicato con successo nelle situazioni più disparate, tipo le esercitazioni antipanico oppure  l’educazione all’uso degli strumenti di autodifesa nei confronti del manipolo di psicologi che pattuglia in permanenza la nostra scuola.
Comunque, la collega è uscita dall’aula sconvolta.
Un’altra impresa memorabile è stata quella realizzata ai danni del professor Stampa. Le cose sono andate così. Quando quella mattina il professore è entrato nell’aula per fare la sua ora di lezione, ha gettato una rapida occhiata sulla classe e ha immediatamente registrato un’allarmante anomalia nel comportamento degli alunni. Stavano tutti in silenzio, ognuno seduto al proprio banco. Stampa ha guardato meglio e ha notato che tutti gli alunni portavano gli occhiali da sole.
Una cosa da niente, no? Bene, Stampa, che è un ingenuo, ha ordinato a tutti di togliersi gli occhiali e quelli, senza battere ciglio, con un solo movimento si sono tolti gli occhiali. Quando Stampa si è visto puntare contro quarantaquattro pupille rosse,  si è innervosito e l’istinto di conservazione gli è andato in tilt, così ha chiesto ai ragazzi perché avessero gli occhi rossi. Loro, come se fosse la cosa più ovvia del mondo, gli hanno detto che avevano messo le lenti a contatto rosse perché a ricreazione volevano fare cosplay. A quel punto Stampa ha chiesto incuriosito informazioni sul cosplay e così, senza rendersene conto, si è spinto nella gabbia con le proprie mani e ha gettato via le chiavi. I ragazzi hanno tirato fuori dagli zaini i costumi ispirati agli eroi dei manga giapponesi, li hanno indossati e lo hanno circondato.
Il giorno dopo il filmato del professore nel manga ha spopolato su YouTube.
Ho ancora qualche minuto prima che suoni la campanella, per combattere l’ansia mi faccio una seduta rapida di pranayama sul pianerottolo della scala antincendio. Fa molto freddo, perciò mi metto il  berretto di lana a forma di preservativo.
Quando entro in classe sono abbagliato dall’ennesima folgorante esibizione della capacità dei ragazzi di utilizzare creativamente la tecnologia. Sulla parete dietro la cattedra è proiettata l’immagine in formato gigante della mia faccia. Con gli occhi chiusi, la bocca aperta e il berretto a forma di preservativo in testa, sembro il testimonial di una campagna pubblicitaria dell’aspirina.
In meno di cinque minuti sono riusciti a fotografarmi con il cellulare mentre facevo la mia seduta di pranayama sul pianerottolo, a riversare il file in un pc portatile, a ritoccare la foto con Photoshop (ovviamente non per farmi un favore) e a collegare il pc al proiettore in dotazione alla classe.
Sbalorditivo, vero?
Applico le istruzioni della circolare ministeriale ed esibisco un sorriso scintillante per coprire lo choc, intanto osservo dentro di me un fotogramma che si è bloccato: io e il professor Deledda che ci salutiamo sulla porta dell’aula della seconda B, lui esce, io entro.
Lui esce e io entro.
Che cazzo hai fatto in quei cinque minuti, Deledda? Perché tu c’eri in classe! Li hai visti che trafficavano con i cellulari, il pc e il proiettore, o no? Questa non te la lascio passare, Deledda, denuncio l’accaduto al prossimo collegio dei docenti, se riusciamo a farne uno prima della fine dell’anno.
Archivio il fotogramma e ritorno alla realtà. Devo risalire queste due ore, devo uscire vivo da qui dentro. Mi metto in moto, riesco ad arrivare alla cattedra senza fare movimenti goffi, mi siedo, non so cosa fare, le due ore in seconda B iniziano in salita, anzi iniziano con un muro che ti spezza le gambe.
Senza avere una strategia in mente, mi metto a guardare i ragazzi. In silenzio. Li osservo attentamente a uno a uno tutti e venticinque. Sembrano bambini delle scuole elementari, ridacchiano, si spintonano, si infilano le dita nel naso, urlano. Sono disgustosi.
Li osservo a uno a uno, in silenzio e comincio a mitragliarli mentalmente, meticolosamente e con ferocia. Dura dieci minuti, loro non si accorgono di nulla, però qualche colpo centra il bersaglio, perché alla fine spengono il proiettore e il rumore di fondo diminuisce. Non so bene perché, ma ha funzionato. Ora posso fare lezione, con il casino consueto e per i pochi che seguono, però posso fare lezione.
Alla fine esco vivo dall’imboscata, mi complimento con me stesso, anche se in fondo mi resta il dubbio che sia stato semplicemente culo.
L’ultima ora la faccio in compresenza con Vanna Boccaccio.
Poverina, lei è l’insegnante di religione.
Mi ha chiesto di aiutarla perché ha un gruppo di discussione in terza C, il tema è la morte di Dio. I ragazzi hanno scoperto Nietzsche e le hanno imposto questa tematica, anche se lei era contraria perché non le sembrava un tema adatto per l’ora di religione nel periodo che precede il Natale.
Io sono sempre molto gentile con Vanna, mi viene naturale, forse perché è così depressa. E’ troppo depressa. Infatti, appena inizia la discussione le si fanno gli occhi lucidi e quando un ragazzo chiede se è vero che Dio è morto, scoppia a piangere.
Loro non fanno una piega, sono totalmente coinvolti nella discussione.
Sono veramente ammirevoli, ma ho una piccola illuminazione, non è che lo fanno apposta solo per il gusto di vedere piangere la professoressa? Perché quel piccoletto in fondo alla classe ha fatto quel gesto di sollevare le braccia in alto, come se la sua squadra avesse fatto gol?
Mi getto nella discussione, sono il professore di filosofia, l’Invincibile Armata di Vanna. Faccio il guastatore, smantello le retrovie, mi lancio all’attacco e lascio sul terreno un paio di argomentazioni controverse, mine da maneggiare con cautela.
Loro, serafici, rispondono correttamente e con buona proprietà di linguaggio.
Mi sbagliavo, forse il piccoletto si stava annoiando.
A questo punto interviene la biondina seduta in prima fila, ha lo sguardo intelligente e il sorriso sulle labbra. Svolge il tema del nichilismo, propone alcune osservazioni interessanti sul rapporto tra volontà di potenza e tecnica e conclude con un dubbio, la Chiesa cattolica è, inconsapevolmente e colpevolmente, nichilista?
Il piccoletto in fondo alza di nuovo le braccia al cielo, mi volto verso Vanna, una lacrima grande quanto una nocciolina sta scivolando sulla sua guancia.
M’incazzo di brutto, mi alzo dalla sedia, dico secco a Vanna di piantarla di frignare, attraverso a passi larghi l’aula, prendo di petto il piccoletto e gli chiedo la ragione del suo gesto.
Lui risponde sollevando di nuovo le braccia al cielo.
– Tre a zero, professo’, siamo grandi!
Ne ho abbastanza, per quanto mi riguarda la lezione è finita, abbandono Vanna al suo destino, prendo le mie cose e me ne vado.
Dietro la vetrata scorgo l’ombra del capannello di madri appostate all’uscita della scuola, rapidamente apro il registro di classe e verifico se negli ultimi giorni ho interrogato qualcuno degli studenti figli di genitori mentalmente ipovedenti. Per fortuna non ho interrogato nessuno, comunque non sono sicuro che questo possa bastare a evitare un’aggressione, mi faccio coraggio, spingo il portone ed esco, quando passo accanto al gruppo accenno un saluto timido, loro ricambiano tranquille.
Tiro un sospiro di sollievo, per oggi è andata.
Mentre scendo la scalinata, mi volto e leggo la scritta dedicata a Mina Leopardi illuminata dal sole. Sorrido, ho trovato il modo per vendicarmi di Deledda.

Il racconto “Mina Leopardi” è stato pubblicato, con il titolo”You will live twice, Deledda”,  sul  New Yorker del 10 novembre 2008      

 

Loading

3 commenti »

  1. geniale!!! e anche vero

  2. Divertente. Scritto bene. Tra i miei preferiti, senza dubbio. Complimenti sinceri.

  3. Molto divertente, dissacrante e assolutamente non volgare.
    Bravo!

Lascia un commento

Devi essere registrato per lasciare un commento.