Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2014 “Come vecchi amici” di Lorenza Carli

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014

E’ strano rivedersi dopo tanto tempo, quasi irreale. Sembriamo due estranei, due conoscenti che si studiano a vicenda, non senza un velo d’imbarazzo. Non sei cambiato, gli anni con te sono stati clementi. Hai ancora la stessa scintilla negli occhi, quella che mi piaceva tanto, gli stessi riccioli con un riflesso dorato. Sembri un ragazzo, anche se intuisco un velo di tristezza che non ti conoscevo. Chissà a cosa stai pensando, magari che sono invecchiata. Che, sotto le meches, ho qualche filo bianco sulle tempie. Le donne sono sfigate, ogni cedimento, anche minimo, salta agli occhi in maniera impietosa. Forse cerchi tracce della ragazza di un tempo, mentre hai davanti solo una placida signora, indubitabilmente sugli anta. Tu invece te la cavi ancora egregiamente. Chissà se ti batte il cuore. Il mio è al galoppo, devo controllarmi, ma sicuramente sono arrossita. Non riesco ancora a far finta di niente, non sono ancora indifferente. Indifferenza, che termine inappropriato per due persone che hanno condiviso tutto. Mi sarai mai indifferente? Non ci spero più. Siamo entrati in questo caffè come vecchi amici, tu sei alla cassa e stai ordinando i nostri cappuccini. Fuori, l’aria frizzante sferza le guance. Camminavo da sola, di buon passo, lungo il molo, quando ti ho visto. Ti ho riconosciuto subito, venivi verso di me, solo anche tu, perso tra i pensieri. Il molo era semideserto, impossibile non imbatterci l’uno nell’altra.
Allora è così che succede, ho pensato. Due persone passano anni a evitarsi accuratamente e poi zac! Un giorno qualunque, in un posto qualunque, il destino li mette di nuovo di fronte.
Ho sentito le ginocchia molli, anche se sono passati vent’anni. Avrei voluto nascondermi e avrei disperatamente desiderato fermarti. Desideravo fuggire al tuo sguardo, lasciare che tu mi ricordassi com’ero e nello stesso tempo volevo tirarti per la manica, rubare mezz’ora del tuo tempo per guardarti negli occhi. Come mi sono mancati i tuoi occhi! La mia mente li ha rivisti infinite volte in questi anni, ora allegri, ora pensosi, ora teneri, posati su di me. Quando i nostri sguardi si sono incrociati, per un attimo ho pensato di tirare dritto, di far finta di non averti notato, ma tu hai cambiato espressione, hai accennato un saluto ed io ho avvertito la familiare sensazione di vuoto allo stomaco, che credevo morta con te. Invece no, mi emoziono ancora. Allora non sono diventata poi così razionale, non così insensibile! Allora mi lascio ancora coinvolgere da qualcosa e quel qualcosa sei sempre tu.

Ancora tu, non mi sorprende, lo sai…sento la voce di Lucio Battisti che si diffonde nell’abitacolo della nostra vecchia auto di tanti anni fa. Eravamo stupidi, stupidamente felici, il mondo era nostro, ci bastava stringerci le mani. Eri entrato nella mia vita e l’avevi pennellata di luce. Tu eri il sole delle mie giornate, io la pazzia delle tue. Era stata passione, subito. Quel genere di passione che scalda come il fuoco, taglia come il diamante, morde come la paura, avvolge come una coperta calda, abbraccia come una madre. Chi la conosce sa che non può sfuggirle. Io l’ho saputo appena ti ho visto. E’ bastato che i nostri sguardi inciampassero l’uno nell’altro e ho capito che era fatta. Ero incatenata a te, per sempre. Mi avevi offerto un gelato e io avevo accettato, pregando che quel gelato non finisse mai, poi mi avevi accompagnato a casa e io avevo sperato che neppure la strada finisse mai. Il mio cuore faceva giravolte, il contatto con la tua pelle mi stordiva. Dopo il primo bacio non c’eravamo più lasciati. Ci dicevano che stavamo correndo troppo, che bisognava riflettere, prendere tempo, ma noi non abbiamo ascoltato nessuno, abbiamo sfidato tutto e tutti. Quello non era il momento di riflettere, era il momento di essere felici. Ubriachi di noi stessi, ecco cosa eravamo e la conclusione possibile ci sembrava una sola. Vivere insieme, per sempre. Della nostra vita in due, ricordo solo i momenti belli. La sera, quando ti sentivo rientrare, il rumore della chiave che girava nella serratura mi faceva volare. Stavi tornando da me, a casa, a casa nostra! L’appartamento dove vivevamo era minuscolo, ci stavamo a malapena, i problemi da risolvere erano infiniti, ma io camminavo due spanne sopra il marciapiede e tu pure, o almeno così mi pareva. Mi sono chiesta spesso, dopo, se tu fossi stato felice come lo ero io, se ci fossero stati segnali che non avevo colto, messaggi non letti. Ancora oggi rispondo di no. Viaggiavamo insieme in un’altra dimensione. Incoscienti, forse, ma felici. Tu eri la mia famiglia, il mio compagno, mio fratello, il mio migliore amico, il mio amante, la mia certezza. Mi svegliavo vispa come un grillo e mi addormentavo serena, paga della tua vicinanza. Desiderare un figlio ci era parso la cosa più naturale del mondo. Ci sono sensazioni che non afferro più. La pienezza di quei momenti, il progetto di un bimbo nostro, non riesco più a coglierle, neppure nei ricordi. Forse è questo che i medici dell’anima chiamano rimozione. Qualcosa che ci provoca un dolore intollerabile e che viene strappato via, dal cuore e dalla memoria. Solo così possiamo sopravvivere. Via, tabula rasa. Non è successo niente. Invece adesso che ti guardo, in questo bar quasi in riva al mare, mentre tra un boccone di brioches e un sorso di cioccolata calda racconti di te, i ricordi tornano a galla, tutti. Fa male, tanto male. Vorrei afferrarti per il giaccone e dirti che non me ne frega niente di quello che hai fatto in questi vent’anni, che non m’interessa nulla del tuo lavoro, dei tuoi successi, degli obiettivi raggiunti, vorrei gridarti il dolore che affiora, ma non lo faccio. Resto lì ad ascoltarti, compita e gentile. In fondo siamo due vecchi amici, che conversano amabilmente, in un freddo pomeriggio di gennaio. Mi parli di tua moglie quasi a mezza voce. Trapela un senso di sconfitta, di deriva. Non siete riusciti ad avere figli, dici e questo l’ha resa una donna stanca, precocemente rassegnata. Vorrei urlare ma sto zitta, gli occhi bassi sul mio cappuccino. Il pensiero vola a mio marito e a mio figlio. Edoardo, mio marito, è un uomo profondamente buono, un padre meraviglioso. Il suo unico torto, ai miei occhi, era quello di non essere te. Non sono mai riuscita ad amarlo dello stesso amore. Quando l’ho conosciuto, ero faticosamente diventata una donna saggia, ragionevole, misurata, prudente. Gli ho voluto un gran bene, l’ho fatto diventare il mio porto sicuro, ma sono quasi certa che lui sappia che qualcosa è mancato. Non gli ho regalato il cuore in gola, il buco allo stomaco, la voglia di fare pazzie. Quelli li ho sepolti con il tuo ricordo. Poi c’è Matteo, il mio adorato ragazzo. Mio figlio, la gioia e lo scopo della mia vita. E’ rimasto figlio unico, purtroppo e non passa giorno che non mi maledica per la decisione presa tanti anni fa. Ho detto decisione e non scelta, perché a me è sempre sembrato di non averla, una scelta. Hai scelto tu per me, andandotene all’improvviso. Io ho solo cercato, malamente, di salvarmi, di non affondare. Torno col pensiero a quella felicità antica e mi chiedo se tu ci pensi mai, se ci hai mai pensato, in questi anni. Ti è mai venuto in mente quel bambino rispedito al mittente? Ti guardo, ti sento parlare e mi sembri a un tratto più grigio, più stanco. Cerco tracce del tuo vecchio smalto, di quel qualcosa che irradiava da te e ti rendeva, ai miei occhi, irresistibile. L’unico uomo che potessi amare, una calamita a cui non sapevo sottrarmi. Giornate di sole e notti di pioggia, domeniche pigre e viaggi, corse in bicicletta, confidenze, abbracci e risate, coccole e notti d’amore. Poi la notizia. Un figlio. Un figlio nostro in arrivo! Eravamo felici o lo ero io sola? Domande, milioni di domande già fatte in questi anni e alle quali non ho trovato risposta. Se sarà femmina, la chiameremo Emma. Sì, Emma. Ci piacerebbe una bambina, fantastichiamo su occhioni verdi e riccioli ambrati, come i tuoi. Fantastichiamo su orsetti, bavaglini e seggiolini da fissare alle nostre bici, per future passeggiate in tre. Mi tocco il ventre e accarezzo la felicità. Un figlio in arrivo vuol dire famiglia, calore, vuol dire per tutta la vita. O almeno così pensavo e ringraziavo un dio in cui non sono certa di credere, per avermi dato te. Poi una notte, quella notte. Una notte di temporale. Chissà com’è che ti sentii, avevo un sonno così profondo allora. Il calore del tuo corpo vicino e la gravidanza mi regalavano notti di sonno beato e indisturbato, ma quella notte qualcosa mi svegliò, mi tirò per la manica del pigiama. Ti stavi alzando. Ti guardai, ancora intontita.
Dove vai, amore?
La tua faccia non la scorderò mai, sembrava un’impalcatura crollata. La bocca aveva una piega di amarezza che mi era estranea, mentre pronunciava parole che non capivo.
Devo andare via.
Devo andare via. Basta. Hai raccolto quattro cose e hai raggiunto la porta. Ti ho seguito, barcollando, l’incredulità mista al terrore. Mi sono chiesta spesso perché non abbia cercato di fermarti, non mi sia disperata, non mi sia battuta, non abbia gridato, non abbia barricato la porta. Ti ho solo guardato, inebetita, paralizzata dalla morsa di gelo che aveva afferrato il mio povero cuore. Un attimo ed ero piombata nella fantascienza, ero sola, era notte, c’era un temporale e tu non c’eri più. Non c’eri più. Non sapevo perché, non sapevo dove, ma sapevo che te n’eri andato. Eri scappato come un ladro. Il mio amore, l’uomo che adoravo, che era il padre del mio bambino, l’uomo di cui mi fidavo ciecamente era fuggito, mi aveva tagliato fuori dalla sua vita senza una parola, senza appello. Tu hai finito la tua cioccolata e mi osservi, muto. Forse mi hai chiesto qualcosa, ma io non ho sentito, io sono altrove. Sono a quei giorni bui, all’angoscia di non avere tue notizie, non una telefonata, non una parola. Vedo quel consultorio, dove sono arrivata chi sa come, dove ho chiesto aiuto, per interrompere la gravidanza. Vedo quell’ospedale, dove sono entrata di soppiatto, quasi vergognandomi, come se stessi commettendo qualcosa di riprovevole, di indecente e non fossi solo una ragazza disperata. Penso alle notti insonni, ai giorni interminabili, a una giovane donna che credeva di soccombere. Una donna che è rinata dopo tanti, troppi anni. Una donna diversa, alla quale la vita ha regalato una seconda opportunità. Ora sì che lo ringrazio, quel dio che a volte cerco invano.
Grazie, grazie, grazie.
Sono ancora qui. Respiro a fondo e guardo l’orologio, improvvisamente ho fretta. Voglio tornare a casa, cosa faccio in questo bar? Tu non sei più tu, noi non siamo più noi. Il passato non esiste. Il passato s’insinua, vigliacco, nella nostra mente e ci ruba il presente. Mi alzo, voglio andare da Matteo e da Edoardo, gli uomini della mia vita. Lo voglio con tutta me stessa questo presente, voglio l’oggi, voglio la concretezza. Sembri stupito e quasi dispiaciuto della fretta con cui ti sto salutando, mi dici che è stato bello incontrarmi. Sapessi quante volte ti ho pensato, mi dici. Rido. Sì, rido forte. Penso a Edoardo, a tutto quello che abbiamo costruito insieme, mattone dopo mattone, mentre tu ti limitavi a pensarmi. Vedo le sue mani che ci sono sempre per me, sento la sua voce piena d’affetto, anche quando rimprovera dolcemente Matteo, penso alla nostra casa, alle piccole abitudini quotidiane, alle sue pantofole e al pigiama. Improvvisamente la nostra routine mi sembra splendida, sono una donna fortunata. Penso che è questo l’amore. E’ il supermercato il sabato mattina, è portare Matteo all’allenamento, è cucinare il roast beef al sangue, come piace a loro due, è un film tutti e tre insieme all’ultimo spettacolo. E’ andare a casa piano, tenendosi per mano. Ti guardo ancora una volta e so che è l’ultima. Ringrazio il destino, che ci ha fatto incontrare di nuovo. Avevo bisogno di vederti, penso e la felicità mi allarga il cuore. Avevo bisogno di vederti per capire che non ti amo più.

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1 commento »

  1. La storia scaturisce dai pensieri. Non è raccontata ma prende vita attraverso le emozioni che si accavallano nella mente della protagonista.
    Il bisogno di capire il perché della scelta finale dà un nuovo respiro alla quotidianità in cui è racchiusa la vera felicità. Molto ma molto carino.
    Angela Lonardo

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