Premio Racconti nella Rete 2014 “Il senatore” di Giovanni Tommasini
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014IL SENATORE
(STONES FOR DIAMONDS)
“mi ascoltate? Perché non l’ho capite….vi sto insegnando un mestiere!”
Me lo ricordo una sera verso la fine di un allenamento
Dentro la gabbia come sempre separati da tutti con la sua creatura: il lanciatore.
“Fulvio guardami un secondo è tutto ok ma ti faccio rivedere il caricamento…. “ movimenti, automatismi diventati per lui naturali avendo lanciato per 30 anni.
“Cazzo ho dimenticato di aver 60 anni……mi sono uscite le emorroidi”
Era così.
Saliva sul monte di lancio (non una semplice zona del campo ma luogo di celebrazione della superiorità della “punta del diamante”, il numero uno della squadra senza il quale niente avrebbe avuto un inizio) stringeva la pallina in mano (percependo il piacere di quella pelle e aggrappandosi alle perfette e utilissime cuciture, dispensatrici di ogni possibile magia) e entrava nell’eternità : un eroe greco.
Noi ai suoi piedi.
Lo vidi per la prima volta nelle “catacombe”.
I sotterranei gentilmente concessi dal comune per gli allenamenti invernali.
Esperienza estrema, goccia a goccia, come quelle che cadendo dalle rocce (pareti della “palestra”) scandivano il passaggio delle ore, quel luogo ci avrebbe irrimediabilmente trasformati.
Piacere Giovanni…
“Hai mai tirato una pietra?” – Mi chiese prima di iniziare il primo allenamento della mia vita.
“Certo” risposi “che domanda” pensai.
C’era tutta la sua umanità e volontà di riportare ogni cosa all’origine e ripartire da lì.
Ti resettava, voleva toglierti ogni orpello, farti dimenticare che eri lì, non per far vedere cosa eri capace di fare, per recuperare l’essenziale dentro noi e usarlo per imparare la sua “arte”.
“Allora tieni” “ah scusa …sei destro o mancino?”
Questa seconda domanda mi confuse ancora più. Che sport stavo andando a fare?
Mi guardavo attorno…bambini della mia età, serissimi si lanciavano la palla con grande delicatezza e attenzione la ricevevano e immediatamente la facevano arrivare con la massima precisione nel guanto del compagno di fronte.
Vi era una netta differenza di sguardo, di comportamento, tra i pochi che avevano già iniziato a giocare, e qualche meccanismo e regola avevano già in sé, e quelli come me ignari del percorso che si stava per intraprendere.
Non si stava ancora parlando dei “fondamentali” vera missione di Marcello, unico suo interesse per coronare il suo sogno: costruire e realizzare un giocatore di baseball fatto e finito in poche parole un UOMO.
Intanto ci si doveva piantare in testa la prima cosa: se eri destro il guantone andava messo nella mano sinistra e se eri mancino in quella destra.
OK. Convincimi…..devo prendere quella pietra che rimbalza viene verso me con violenza e senza pietà mi punta per trafiggermi e andare oltre…..e lo devo fare con la mano che meno uso e con la quale non riesco neanche a scrivere…..
Era necessario ribaltare le prospettive, le gerarchie, definitivamente e senza possibilità di far retromarcia.
Da quel momento si sarebbe entrati nel mondo degli uguali, le differenze erano ciò che ci davano la possibilità di stare assieme non di sentirci sempre più soli.
Tutti potevano imparare la sua arte. Esaltare le proprie qualità (per lui ognuno ne aveva uniche e preziose) per cui come non vi era più chi aveva talento e chi non lo avrebbe mai avuto la mano destra e la sinistra avevano uguale importanza, utilità e una senza l’altra non avrebbero avuto senso di esistere.
Una vera filosofia relazionale: non si poteva non aver bisogno di nessuno, soli si ma avulsi da ogni contatto era impossibile essere vivi.
Questa la sua vera unicità e noi una volta imparata o meglio assorbita la sua filosofia il suo credo saremmo stati dei diversi per sempre anche noi alla ricerca del gesto perfetto solo per il gusto di poter quotidianamente curare ogni particolare per una infinita crescita interiore. Uno scrigno dentro noi dal quale attingere le gemme di quegli anni in ogni momento nel quale la vita ci avrebbe richiesto una risposta, un coinvolgimento totale del nostro essere più autentico.
Una volta infilato il guantone non si poteva più tornare indietro. Il vecchio copione dei “se” e dei “ma” si poteva lasciare in soffitta a marcire.
Sino a quel momento il nostro comportamento, il rapporto con la realtà, era modellato su ciò che sino ad allora si era imparato, visto, sentito subito insomma in poche parole “vissuto”.
Ora il nostro “esperito” non bastava più. Era necessario andare oltre.
Lui voleva ottenere questo. Era un percorso artistico. Uscire dalle consuetudini e una volta lasciate le invernali “catacombe”, come marmotte uscite dai loro tunnel, la luce ci avrebbe abbagliati per poi ripresi i sensi avere altri occhi. Luce che arrivava da terra e dal cielo. La primavera più luminosa che solo la riviera di ponente appoggiandosi alla costa azzurra poteva regalare e la luce purissima, proveniente dal verde tagliato in due da una lingua di terra rossa del “diamante”, che a ogni allenamento ci avvolgeva facendoci dimenticare la nostra provenienza: da fuori uno spettacolo che solo noi potevamo godere “live” e una volta dentro tutto attorno a noi scoloriva.
L’azione si sarebbe asciugata, scarnificata. Bisognava lasciare da parte ogni ricordo.
Da poco avevamo iniziato a scrivere la nostra età in doppia cifra e lì, in mezzo al campo, era necessario fare quello che solo a pochi riesce: attendere gli eventi, accettare serenamente di venirne come in un flash coinvolti non potendo appellarsi a nessun pensiero. Se in quell’istante dopo ore di attesa, battuta la pallina verso la nostra parte di competenza, si abbozzava una razionalizzazione, avessimo avuto un attimo di esitazione, per prendere “la decisione giusta”, tutto ci sarebbe passato sopra senza che neanche ce ne fossimo accorti.
La serietà e la grandezza richiesta da questa situazione era dimostrata dallo spasmo, dall’energia, che l’appena nominato Senatore e ambasciatore del baseball in Italia metteva nella cura dei particolari.
I particolari fondamentalmente eravamo noi. Ragazzini investiti della massima responsabilità. Essere la perfetta trasfigurazione della sua visione della vita, ricerca del gesto perfetto della giusta sintonia tra di noi la palla lanciata e poi battuta dall’avversario.
Ore e ore a curare i minimi particolari.
Per arrivare in quell’instante in cui il coinvolgimento era inevitabile preparati al meglio. Dovevamo ricercare la gioia, la pace in noi stessi.
Il baseball, sport estremo, richiedeva ore di attesa di silenzio e poi l’esplosione, pochi istanti e tutto non sarebbe più stato come prima. O ci conquistavano le basi o venivano eliminati per andare poi noi all’attacco.
Per il momento non riuscivamo a capire la fortuna di aver accanto a noi “il senatore” e ci sentivamo solo delle “vittime” di quest’uomo.
Ma lui ci stava passando, come un lento nutrimento inconsapevole, un modo nuovo di affrontare le cose: aspettare serenamente il nostro turno fidandoci solo dei nostri sensi curati maniacalmente nella ripetizione dei “fondamentali” per governare una situazione lunga quanto un “flash”.
Con coraggio: sapendo che i nostri compagni si aspettavano la ricezione perfetta e il lancio più preciso per anticipare l’arrivo dell’invasore.
Trasformare l’evento storico per cristallizzarlo nell’eternità dell’OUT! ELIMINATO! Urlato in faccia all’attaccante dall’arbitro per certificare che il suo tentativo di restare in vita per tornare da dove era appena scappato dopo aver conquistato tutte le tre basi era fallito.
Avevamo l’opportunità di cambiare l’approccio alla vita.
La continua ricerca della perfezione, consapevoli che l’impossibilità di prevedere o peggio predeterminare il futuro se accettata ci avrebbe permesso in quel momento di dare la miglior risposta sganciata dal condizionamento del passato e liberata dalla serena attesa del futuro.
La salvezza era a portata di mano.
L’azione di gioco andava attesa con la massima serenità, sgombra la mente, per essere in quel momento liberi di dar la miglior risposta, unica come unica sarebbe stata quella pallina che violentemente stava cercando di passarci senza pietà.
Era la risposta più difficile e rappresentava la vittoria più grande che avremmo potuto ottenere.
Lui il grande Marcello sapeva ciò che voleva ottenere da noi, sentiva quanto prezioso per noi sarebbe stato quel salto di qualità, di livello.
Stones for diamonds. La pallina era una pietra, il campo il diamante. Lui voleva trasformare noi le pietre miliari del campo, in diamanti unici che vivevano di luce propria.
DOVEVAMO SAPER AFFRONTARE, SOPPORTARE, DOMINARE E TRASFORMARE IN ENERGIA LA NOSTRA PAURA.
La Paura quella più profonda, più antica.
La paura di non saper stare soli con noi stessi, di non sopportare la convivenza con il dubbio, con la possibilità di sbagliare e di sentire in noi per l’ennesima volta quel grande senso di colpa che senza chiederci se ci andava o no la nostra cultura ci aveva fatto conoscere e ingoiare sin dai nostri primi passi.
Semplicemente questo.