Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2014 “L’Indovina” di Lorenza Carli

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014

Stava impazzendo, ne era certa. Non si raccapezzava. Fradicia di sudore gelato, tremante, la gola serrata che le impediva il respiro, Mirna fissava, con occhi sbarrati, l’immagine che le restituiva lo specchio. Una vecchia malconcia, cadente, gli occhi vacui, i radi capelli grigi, la bocca sdentata, la pelle trasparente venata d’azzurro. Era lei quella creatura?
No, no, impossibile!
Mirna si toccava e sotto le dita sentiva la sua pelle, liscia e soda come sempre, le sue mani giovani, fresche. Mani curate di una trentenne. E poi c’erano la forza, il vigore, l’energia che pervadeva il suo corpo. Lei non poteva essere quella vecchia, doveva trattarsi di uno scherzo crudele. E perché lo specchio non rifletteva la sua stanza, i suoi mobili, le librerie? Alle spalle dell’immagine inquietante di quella donna nel pieno del disfacimento fisico s’intravedeva uno sfondo opalescente, asettico. Luci al neon le danzavano intorno, evidenziando in modo impietoso la sua scarna fragilità. Mirna doveva andarsene, lontano da quello specchio, da quella se stessa che le incuteva terrore e ripugnanza. Uscì di casa correndo, senza neppure curarsi di chiudere la porta. Una corsa folle e disperata, senza meta. Non c’è una meta quando si fugge. Si fugge e basta. Via, senza neppure sapere via da chi o da che cosa. Il panico s’impossessava di lei, le gelava le ossa e le mordeva la carne. Vedeva gli alberi sfilare al suo fianco, fradici di pioggia. Mille lampioni si accendevano a illuminare l’oscurità delle strade. Sulla città era calato un velo denso di nebbia, che le impediva di capire se fosse giorno o notte e in quella coltre lattiginosa lei correva all’impazzata, il cuore al galoppo, le tempie che pulsavano dolorosamente, le viscere dilaniate dall’angoscia.
Devo cercare aiuto.
Uno psichiatra? Un esorcista? Chi poteva aiutarla a decifrare quello che stava accadendo, chi poteva rompere quell’incantesimo, scacciare quell’orribile vecchia, quella bocca sdentata e solcata di rughe amare che vedeva nello specchio? Lei non aveva ancora trent’anni, lucidi capelli corvini, occhi di velluto. L’immagine che da giorni pareva perseguitarla non era la vera Mirna: lei era finita chissà dove. A un tratto le parve di sentire delle voci in lontananza. Qualcuno gridava, si sentivano suoni simili a sirene, scorgeva bagliori di luci intermittenti. Per un attimo pensò a un incidente, forse c’erano ambulanze o auto della polizia… Ma no, era un Luna Park! In quel paesaggio grigio e ovattato aveva un’aria dimessa, quasi irreale. Emanava un alone di desolazione, il sentore lugubre di un luogo abbandonato, ma dal frastuono che squarciava l’aria immobile si sarebbe detto che ci fosse gente che si divertiva laggiù. I suoi passi la guidarono verso quelle luci, senza che la sua volontà avesse voce in capitolo. La pioggia continuava a scendere, sottile e implacabile, mentre Mirna si aggirava in quel baraccone di luci artificiali e di sensazioni effimere. Montagne russe, ruote panoramiche, cavallini e go kart luccicavano nella notte come fuochi fatui. Lei adesso era sopra una carrozza, che la introduceva in un tunnel degli orrori. Non si sorprese di non aver pagato il biglietto, né di essere l’unica ospite. La carrozza si era materializzata davanti a lei e Mirna era salita a bordo senza chiedersi nulla, come se salire fosse l’unica scelta possibile. Da bambina, quando sua madre la portava al luna park, lei era contemporaneamente attratta e terrorizzata dal castello delle streghe. Stringeva convulsamente la mano della mamma, mentre intorno a lei sfilavano mostri e draghi e, nel buio, si sentivano il frusciare di pipistrelli e un’eco di risate sataniche. Lì, niente di tutto questo. Quel tunnel aveva pareti candide, imbottite, i rumori erano attutiti, le immagini nitide. Vedeva fantasmi fluttuare, spiriti bianchi che parlavano sottovoce, frasi spezzate di cui non riusciva a cogliere il significato. A volte le pareva che la chiamassero, ma doveva trattarsi di un fenomeno acustico, o al massimo di suggestione. Si chiuse ostinatamente le orecchie. Per ritrovare la calma si concentrò su qualcosa di bello. La sua vita, suo marito, la sua bambina adorata. Desiderava vederli subito, ne aveva un bisogno quasi fisico. Improvvisamente ricordò che loro due erano in vacanza. La loro vacanza annuale, un periodo di mare per la piccola, che soffriva di una fastidiosa forma di bronchite. Lei era rientrata in città giusto per qualche giorno, un impegno di lavoro improrogabile. Presto li avrebbe raggiunti, li avrebbe abbracciati. Il loro abbraccio avrebbe avuto il potere di cancellare tutto, niente più vecchie negli specchi, niente tunnel dell’orrore pieni di fantasmi. Com’era finita in quel Luna Park? Perché stava lì, a perdere tempo in quell’anfratto sinistro pieno di lenzuola che svolazzavano? Doveva uscire al più presto. Sentiva ancora quelle voci che sussurravano intorno a lei. Forse era esaurita, sicuramente era stanca, molto stanca. Con uno slancio superiore alle sue forze si gettò fuori da quella carrozza, cercando di guadagnare l’uscita. Doveva trovare un telefono e chiamare suo marito, si maledisse per non averci pensato subito. Il sollievo sembrò allargarle il cuore. Lui sarebbe corso a prenderla. A un tratto, come sorta dal nulla, comparve di fronte a lei una tenda colorata con un’insegna luminosa che recitava: l’Indovina. Passato, presente e futuro nei Tarocchi. Mirna scostò la tenda ed entrò. Dentro era quasi buio, solo qualche candela illuminava l’ambiente. Accovacciata a terra, di fronte a un tavolinetto basso e sgangherato, c’era una donna dall’età indefinibile, gli occhi profondi sottolineati dal kajal, i riccioli bruni stretti in un nodo, che sfuggivano a ciocche ribelli qua e là, la bocca scarlatta, come una ferita nel pallore del volto. Non sembrò sorpresa di vederla, né disse nulla. Si limitò a sorridere e a invitarla a sedere con un gesto della mano. Mirna, scrutando la donna con scetticismo, si accoccolò di fronte a lei, sul tappeto sdrucito.
E così sei un’indovina. Vedi il futuro? Con quelle?
Mirna indicò un mazzo di carte che sembravano aver vissuto tempi migliori. Doveva averle lette migliaia di volte tanto erano consunte.
“Sono Anastasia.”
La donna aveva una voce modulata, il tono basso e saggio di chi conosce molte risposte, ma non ha mai smesso di farsi domande. Smazzò le carte logore, poi le porse a Mirna perché ne estraesse una. Le mani di Mirna tremavano impercettibilmente. Si sentì ridicola. Si stava facendo condizionare. Lei era sempre stata una persona razionale, non aveva intenzione di farsi spaventare da un’imbrogliona, sedicente maga. Anastasia. Mirna rispolverò i suoi ricordi del Liceo. In greco il nome Anastasia significava risveglio, resurrezione. Quella specie di zingara, con gli occhi simili a carboni ardenti, era davvero convinta di vedere in quelle vecchie carte la morte, la resurrezione?
Balle. Nessuno conosce il domani. Il futuro lo costruiamo noi, con le nostre forze. Morte e resurrezione sono un mistero che trascende la mente umana.
Anastasia, seduta immobile e silenziosa di fronte a lei, accarezzò quasi con tenerezza il mazzo gualcito, posto in mezzo a loro sul tavolinetto.
“Questi sono gli Arcani Maggiori. Arcano significa Segreto. Lei ha un segreto, Mirna? Tutti ne abbiamo uno”.
Anastasia conosce il suo mestiere, tenta di suggestionarmi. E’ così che irretisce la gente, facendo leva sulla fragilità. Piomba qui una donna confusa, bagnata di pioggia, con lo sguardo spaventato, è semplice farle credere che conosci i suoi segreti. E’ vero, tutti ne abbiamo uno, cara Maga Magò, ma io non ci casco, non ti racconterò i miei. Dimmeli tu, prova a leggerli dentro quelle quattro carte stracciate.
Pescò una carta a caso dal mazzo e l’appoggiò sul tavolinetto. L’indovina sollevò su di lei due occhi neri come la pece.
“Il Mondo. La carta che hai estratto è Il Mondo. Vedi la dea della Vita che sembra danzare e invece rimane immobile, come un fuoco eterno? In molti la assimilano all’antica divinità femminile della terra, della fecondità. La donna, madre e creatrice di vita. Significa riuscita, vittoria, superamento degli ostacoli. Devi lottare Mirna, devi resistere, perché il risultato finale c’è, la vittoria è tua.”
Mirna sorrise, beffarda. Il copione era noto. Si buttano lì quattro frasi generiche, che possono calzare alla vita di chiunque.
Superamento degli ostacoli.Non vuol dire un fico secco, Maga Magò. Quali ostacoli? Per cosa dovrei lottare?
L’indovina smazzò di nuovo le carte e di nuovo le porse a Mirna che ne scelse un’altra. Sconcertata, si accorse che, anche stavolta, aveva estratto la stessa carta. Il Mondo.
Il mazzo è truccato! Giochiamo sporco eh, Anastasia? Adesso mi alzo e me ne vado, non ne posso più di questa penombra, di questa pseudo maga che sembra spalancare la porta sull’ineluttabile.
Le sue gambe però, non volevano saperne di seguirla.
“Non credi a una parola. Stai pensando che sono un’approfittatrice e cerchi un modo per andartene da qui. Vattene, io non trattengo nessuno. Esci da questa tenda e segui pure la tua strada. Promettimi solo che lotterai, con tutte le tue forze. Resisti. Pensa alla dea della Vita, al trionfo sul male.”
Mirna fissò, come ipnotizzata, quella carta. All’interno di una ghirlanda di foglie intrecciate c’era una donna velata di rosso, apparentemente impegnata a correre o a danzare. Rimase lì, gli occhi incatenati su quell’immagine per minuti che sembrarono eterni, poi corse fuori, seguita dallo sguardo profondo e indecifrabile dell’indovina. Sul Luna Park era scesa una notte nera e impenetrabile, una notte senza luna. Le luci si erano spente, pareva che in giro non ci fosse più nessuno. Tutti erano rientrati nelle loro case e Mirna era rimasta sola. Fu presa da un terrore cieco che le mozzò il respiro. Cominciò a correre, con tutta la forza che le rimaneva nelle gambe stanche. Corse in mezzo al fango, alle pozzanghere, con la testa che le doleva di un dolore sordo. Corse in una notte senza fine, senza speranza, senza promessa dell’alba. Corse con un unico scopo. Tornare dalla sua bambina, rivedere sua figlia. Come avrebbe ritrovato la strada, in quell’oscurità così fitta? Lacrime miste a pioggia le solcarono le guance. Non sarebbe riuscita a venir fuori da quel Luna Park, quei carrozzoni senza nome sarebbero diventati la sua prigione. E aveva sete, tanta sete.
Acqua, acqua.
Mirna leccava la pioggia, gocce preziose per le sue labbra riarse.
E’ finita, pensò, vinta dalla spossatezza. Devo arrendermi, non ho più forze. Devo dormire, dormire, dormire. Domani, con la luce del giorno, sarà tutto più facile. Domani. Nessuno conosce il domani, neppure Anastasia.
Si lasciò andare lentamente, il suo corpo si abbandonò sul terreno fangoso, i capelli sciolti fluttuarono in una pozzanghera, come lucide alghe nere. Smise di lottare e si lasciò sprofondare nel nulla, lo sguardo ormai offuscato, le palpebre semichiuse. L’ultima immagine che vide con gli occhi della mente fu la dea danzante velata di rosso, circondata dalla ghirlanda di foglie.
La dea della Vita.Trionfo sul male. Resisti Mirna, puoi farcela.
Posso farcela.
Quando aprì gli occhi, una luce artificiale ferì le sue palpebre stanche. Aveva ancora sete, un bisogno insaziabile d’acqua. Allungò una mano: stava toccando qualcosa di fresco e asciutto. Il terreno fangoso su cui era scivolata era sparito. Qualcuno si muoveva intorno a lei, c’era gente! Una mano pietosa le bagnò le labbra.
“Bentornata Mirna, cominciavamo a disperare.” Un volto di donna sorridente, i riccioli bruni stretti in un nodo, gli occhi profondissimi, neri come la pece.
L’indovina?
“La sto chiamando da ore, ma lei pareva non volerne sapere di tornare con noi. Eppure ha un compito adesso. Un lavoro magnifico da fare. Lei ha avuto una bellissima femminuccia di tre chili e quattrocento grammi. Una bimba perfettamente sana. Lei invece ci ha fatto spaventare. Una complicazione imprevedibile e rarissima, una forte emorragia. Abbiamo temuto di perderla, Mirna. Suo marito è qui fuori, non si è mosso un attimo. Ora pensi a riposare, è tutto a posto. Tutto a posto.”
L’angelo in camice bianco stava per andarsene, poi parve ripensarci, si riavvicinò al suo letto e si chinò su di lei. Gli occhi di pece la fissarono carezzevoli e ridenti, luminosi come diamanti neri.
“Che nome desidera mettere alla sua bella bambina? Aspettavamo lei per questo.”
Mirna non sapeva se dalle sue labbra sarebbero usciti suoni, parlare era un’impresa superiore alle sue poche forze, ma l’angelo era lì, vicinissimo al suo viso, poteva quasi afferrare i suoi riccioli disobbedienti. Bastava un piccolo sforzo, lei avrebbe potuto sentirla.
“Anastasia”.
Sussurrò.
Per un attimo le parve che negli occhi scuri della giovane dottoressa brillasse una scintilla d’intesa, ma fu solo un attimo.
Le accarezzò dolcemente la fronte, sistemò le lenzuola e uscì, chiudendosi silenziosamente la porta alle spalle.

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3 commenti »

  1. Ciao Lorenza,
    L’inizio prende bene e nel complesso la storia è interessante. Tuttavia, a mio avviso, le minuziose descrizioni nel tentativo di rendere il sentimento d’angoscia della protagonista, appesantiscono un po’ la lettura. Il finale è risolutivo e mette chiarezza all’intero racconto.
    Ciao Sonia

  2. Emozioni in libertà. Inaspettato l’epilogo. Il lettore viene sospinto verso altre soluzioni e invece……
    Angela Lonardo

  3. Ciao Lorenza,
    nel tuo bel racconto, riporti le sensazioni vissute in uno stato di coma, prima del risveglio, dove un personaggio del sogno risulta essere nella realtà un medico. E’ straordinario questo intreccio tra sogno e realtà che si verifica spesso nel coma terapeutico. Brava nel formare le atmosfere, tutte credibili, in cui ci sono i ricordi infantili e la capacità di giudizio dell’età adulta.
    Emanuele.

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