Racconti nella Rete 2009 “20 minuti” di Federico Foti
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2009Aspettava in quella sala da quasi un ora e il nervosismo era diventato quasi incontrollabile. Ma si costrinse a rimanere seduta: sentiva che gli sguardi di tutti erano puntati su di lei che, sguardo fisso su un orologio diventato ormai specchio dei suoi ricordi, ticchettava freneticamente con le unghie sulla gamba. Quel giorno avrebbe potuto dare una seria svolta alla sua vita e si scoprì a pensare come un momento simile lo aspettasse da tempo, ma per niente e nulla al mondo lo avrebbe ammesso.
E’ incredibile come in certi momenti non si riesca a vedere il mondo nel suo presente ma solo come sequenza di fotogrammi proiettati dal passato, adesso lì per ricordarti qualcosa che ti è successo, che hai vissuto, ma che non tornerà più. Come se l’esito di ciò che stai aspettando fosse un punto di non ritorno, in qualunque modo vada, un terminus post quem che segna la fine di un’ epoca.
Così, mischiate alla realtà, vide passare centinaia di scene, ricordi che aveva sotterrato in corridoi, stanze e ali intere della memoria, chiuse a chiave, ma che adesso la sua mente decideva di liberare, di far rivivere, chissà, forse per impedirle di odiare o soltanto di sperare.
Le venne da sorridere al pensiero che una decina di anni fa la situazione era decisamente capovolta: era suo marito che aspettava in quella saletta, che lei uscisse dalla sala operatoria, ma il motivo era di gran lunga più felice. Non avrebbe mai potuto dimenticare quel giorno; iniziato nel peggiore dei modi invece si era concluso mentre teneva tra le braccia quello che era il più bel bambino del mondo, anche se tutti dicevano che era troppo piccolo, magro, spelacchiato e bruttino.
Quanto aveva pianto quando lo portarono via per fare alcuni accertamenti, solo poche persone possono capirlo, ma Alessio le era rimasto accanto, parlandole di continuo con la sua voce calda e melodiosa, senza dire in effetti niente, ma riuscendo comunque a distrarla portando i suoi pensieri verso momenti più felici. Così, trasportata dal suono delle sue parole, aveva cominciato a volare indietro nel tempo, a quando si erano conosciuti, alle loro innumerevoli passeggiate in riva al mare prima che lui trovasse il coraggio di baciarla e a tutte le cene prima che trovasse il momento adatto per chiederle di sposarlo. Rise a quei ricordi e, sorridente, rivide il suo bambino quando i medici glielo riportarono. Nella stessa serenità passarono i mesi a seguire. O almeno così volle ricordarli. Preferiva far finta che le innumerevoli e infinite passeggiatine notturne, l’insonnia continua e il desiderio di buttare fuori dalla finestra il bambino, fossero solo una sua fantasia piuttosto che una cosa realmente accaduta. Ora in effetti, poteva permetterselo, poteva anche riderci su, ma a quei tempi temette di farlo per davvero pur di poter dormire. Fortuna che Alessio i momenti così li intuiva all’istante e portava fuori con sé Andrea in macchina, lasciando la casa incredibilmente e meravigliosamente silenziosa, tutta per lei. Cosa facessero insieme rimase per sempre un mistero per lei, avvolto nell’aura misteriosa di un “segreto di papà” come lo chiamava lui, perché ogni volta che poi tornavano, Andrea era sempre addormentato pacificamente sulla spalla del padre, mentre quando ci provava lei, quello diventava ancora più isterico facendosi cianotico in volto. Ben presto però, nonostante la grande fatica di cui entrambi si facevano carico, ai mesi seguirono gli anni e al neonato che non sapeva far altro che piangere con tutta la sua forza e sorridere di un sorriso sdentato, seguì un bambino di tre anni che le chiedeva perché doveva andare a scuola e perché doveva vestirsi e perché doveva camminare e perché quando chiedeva “perché” tutti si mettevano a ridere. E se in un primo momento era Alessio che cercava di rispondere spiegandogli nel modo più semplice “perché il mare è blu e le onde si muovono”, passò poco tempo che fu soltanto Luisa che dovette ascoltarlo mentre Alessio si faceva vedere sempre di meno. Poi nacque Manuel e tutto cambiò. In maniera evidente. Non era come per Andrea, nessuno che le teneva la mano, nessuno che l’aiutava quando le cose si facevano difficili e con Manuel i problemi erano veramente difficili. Ma dovette affrontare tutto da sola, senza che Alessio prendesse alcuna decisione. Solo alcuni mesi dopo ne prese una e la informò lasciandola scritta su un post-it: “Luisa ti amo, ma non riesco ad affrontare tutti questi problemi. Dì ai ragazzi che gli voglio bene e sappi che non vi farò mai mancare niente. Alessio”
Subito dopo la chiamò un avvocato parlandole di divorzio. Lei però, da tempo, sapeva già tutto.
Guardò l’orologio: 20 minuti. Solo venti minuti erano passati. Aveva riassunto i loro 10 anni di matrimonio in soli venti minuti. Venti minuti… non riusciva a levare quel numero dalla sua testa. Dieci anni passati insieme, quasi un quarto della sua vita che adesso era riassunta in soli 20 minuti.
Non ce la fece più a rimanere seduta e si alzò di scatto. Nessuno la guardò, gli occhi di nessuno si girarono verso di lei che sentì, nell’attraversare quei pochi metri, come di aver compiuto una fatica indicibile; l’essersi liberata di qualcosa di pesante, da una morsa d’acciaio composta da sguardi, paure e pensieri vari, tutti rigorosamente bui, che le pesavano sul cuore, ma che allo stesso tempo non poteva scaricare, cacciare lontano, via da lei. Solo lì, fuori dalla sala d’attesa, nello stretto e breve corridoio che portava alla sala operatoria, notò come tutto fosse più semplice; tutto il terrore delle altre ore era solo una sua falsa immaginazione. Lì mentre guardava le piastrelle bianche della parete e camminava sulle stesse mattonelle calpestate da chissà quante altre donne nella sua stessa condizione, solo lì in quel teatro delle sofferenze di centinaia di altre persone, riuscì a tirare un respiro di sollievo. Vide il lato positivo. Cosa poteva succedere se l’intervento fosse andato bene, fosse andato a buon fine. E un sorriso si stampò sulle sue labbra. Un sorriso limpido, come non ne faceva da tanto tempo, di quelli che non sapeva più di saper fare, un sorriso pieno di speranza, ma che proprio questa speranza fece diventare amaro. Che buffo! Quel termine “a buon fine” per lei non aveva lo stesso significato che poteva avere per qualunque altra persona. No! Forse addirittura l’opposto.
Solo allora si accorse che c’era un’altra donna. Un’altra. L’altra. Non ne vide il volto, nascosto tra le lacrime, ma la riconobbe immediatamente, dai vestiti da migliaia di euro e dal fisico perfetto, scultoreo, contro cui dal primo momento seppe di aver perso. Ma anche quel corpo perfetto, irreale, veniva scosso da sentimenti umani. Dal dolore.
In un barlume di irrazionale follia sperò che quel dolore durasse per sempre, per tutta la sua vita. Quel dolore forse sarebbe stata l’unica e ultima possibilità della sua gioia. La coscienza le rimorse subito ricordandole cosa fosse giusto e cosa sbagliato, parlandole di etica e di un corretto comportamento e del controllo delle passioni, ma quando la porta della sala operatoria si aprì, tutto tacque, in attesa: forse lo stesso orologio si fermò.
Come in uno di quei vecchi film nei quali la tecnica dello slow-motion non era ancora stata ben acquisita vide il dottore avanzare lentamente verso la donna e, dopo essersi tolto la mascherina, abbassare gli occhi e scuotere impercettibilmente la testa. La donna scoppiò in lacrime e il chirurgo dovette reggerla perché non cadesse, mentre una gioia selvaggia si impossessava di Luisa. Nessuno la vide, nessuno se ne accorse: solo le lacrime che sgorgavano brillando dagli occhi la tradivano.
Era morto! Ora suo figlio poteva avere un cuore, ora suo figlio poteva vivere.
Questo pensiero spietato le attraversò la testa prima che potesse fermarlo e altre lacrime, lacrime amare, di tristezza per la tristezza altrui e per il rimorso della gioia, uscirono copiose e non poté arrestarle in nessun modo.
Due fiumi di lacrime versate per motivi diversi ma, crudelmente interconnessi si unirono, trovando nell’altro un logico completamento.