Racconti nella Rete 2009 “Il luogo dell’assenza” di Federica Bedini
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2009Genova. Casa dolce casa.
Non torno da diciannove anni: ricordo che al fischio finale di Italia – Germania capii che era quello il momento di prendere la vita per le palle e conoscere quanto più mondo possibile. Diciannove anni sempre in giro senza sosta, come un novello Odisseo che ricerca virtute e canoscenza ovunque l’uomo sia arrivato a imporre il proprio segno. Quando dico che per mestiere faccio il viaggiatore spalancano gli occhi, colpiti, e rispondono che sono tanto invidiosi e che ho del fegato, a essermi buttato il passato alle spalle senza rimpianti. Anche io lo pensavo, di essere coraggioso. Ma adesso, a Genova, con l’odore scuro del porto nel naso, mi domando se in realtà non si sia trattato semplicemente di paura. Paura di accettare le sfide della quotidianità piuttosto che andare costantemente alla ricerca di qualcosa di indefinito e assumere il ruolo dello spettatore, di quello che la vita la osserva, la annota, la studia, ma non se la marchia sulla propria pelle. Anche adesso, mentre cammino, osservo questi ragazzi accorsi a migliaia che manifestano, cantano, ridono: studio i capelli colorati, gli zaini scritti, le felpe nere. Li guardo sfilare, li invidio e li ammiro ma me ne resto su un marciapiede, come un servo di scena mentre il primattore recita il monologo brillando in un fascio di luce.
Mi ritrovo non so come accanto ad una ragazza tutta riccioli che mi squadra per qualche secondo e poi, come se avesse capito che mi nutro di storie altrui, inizia a parlare: mi racconta che fa l’università a Milano e che la sua coinquilina l’ha convinta a prendere il treno in piena notte per compiere un atto di disobbedienza contro la globalizzazione selvaggia. Mentre parla si anima, le si illuminano gli occhi e si intreccia una ciocca scura intorno alle lunghe dita bianche. Le sue fossette mi solleticano lo stomaco e mi ritrovo a pensare a quando ho vissuto a Nairobi, tra il fango e la colla da sniffare, con un fiammante distributore rosso della Coca-Cola nel centro dello slum, o a quegli occhi neri che mi fissavano da un marciapiede di Calcutta mentre le mani piccole, da bambina, intrecciavano una borsa di paglia da caricare sui camion diretti verso il vecchio continente. E allora capisco che questa è una protesta civile, una cosa giusta. Improvvisamente mi esplode violentemente dentro la voglia di partecipare, di esserci, di recuperare le emozioni che ho lasciato scivolare via: la loro energia diventa la mia forza, abbandono il marciapiede e mi getto in mezzo a loro facendomi trascinare dal suono di cento dialetti diversi.
Via Trieste, Piazza Meani, Via Cesare Battisti. Arriviamo alla scuola Diaz e ripenso che quando la frequentavo io il Preside ti spediva a casa se ti beccava a baciarti nel cortile ma adesso, con i sacchi a pelo, il fumo di sigaretta e il suono di una chitarra al piano di sopra sembra molto più bella: gli stessi muri sembrano più felici. Ritrovo la studentessa di Milano, che mi informa di quello che è successo ieri ad un manifestante: io non ne sapevo niente. Ma ero in un altro continente, ieri. Poi, all’improvviso, dei rumori, giù di sotto, e manganelli, caschi, urla, gente trascinata per i capelli, sangue. Buio. Quando riprendo conoscenza mi sento la testa pressata, come se delle tenaglie me la stessero stringendo, e la bocca gonfia, impastata. La prima cosa che mi colpisce è l’odore di cloroformio e mensa tipico degli ospedali: apro gli occhi e mi ritrovo disteso in un letto dal bianco abbacinante con le lenzuola dure d’ammoniaca. Nel posto accanto al mio c’è un ragazzino, avrà vent’annni, con una cicatrice lungo il sopracciglio destro che continua a buttare sangue macchiando il niveo cuscino di piccole lacrime rosse. Due tizi in giacca e cravatta piantonano l’ingresso e quando si rendono conto che sono cosciente corrono a subissarmi di domande.
Come stai? Chi ti ha fatto cadere? Dove eri seduto? Da dove vieni? Con chi parlavi? Chi ti ha spinto dalle scale? Quant’è che sei a Genova? Hai riconosciuto qualcuno? Quanto sei rimasto alla Diaz? Chi ti ci ha portato? Di dove sei? Ti sei accorto di star cadendo?perchè sei entrato? Chi ha organizzato tutto? Hai sentito delle voci familiari? Hai visto chi avevi accanto? Sei certo di ricordare bene? Saresti pronto a giurare di sapere esattamente com’è andata? Perchè eri al piano di sopra? Perché hai partecipato all’occupazione? C’è qualcuno che poteva avercela con te e farti cadere apposta? Perché sei rimasto lì dentro?
Quando se ne vanno mi accorgo che non sono più in grado di ricostruire i fatti: loro dicono che sono semplicemente caduto dalle scale.
Genova. Casa dolce casa.