Racconti nella Rete 2009 “La ballata dei ricordi” di Federica Bedini
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2009Luca è uscito da lavoro prima, quella sera: il mascherone più grosso del carro è stato finito in anticipo e gli hanno regalato un paio d’ore di libertà. Non ha voglia di tornarsene a casa, però, ché proprio quella mattina ha trovato in un cassetto una vecchia foto di Anna e davvero non ce l’ha, il coraggio di affrontarla.
Così, pedalando, passa il ponte, gira a destra, e si infila nel bar vista molo.
– Buonasera Luca: solita birretta? – lo saluta il Menotti – Hai sentito di quei turisti accampati al muraglione?
Luca fissa la schiuma chiara della birra scura.
Erano andati proprio lì, quel pomeriggio: in darsena, dietro il muraglione, dove d’estate si tira l’alba con la musica nel cervello e uno spinello fra le labbra. Lei ha una fascia rossa fra i capelli neri, se lo ricorda bene. È appena tornata da Milano, la Bocconiana, e come sempre l’aria di casa l’ha portata a cercarlo. Moro era appena stato ammazzato e lui aveva detto che sì, era un simbolo, un fantoccio di poteri oscuri, ma le guardie del corpo che c’entravano? Se vuoi colpire colpisci bene, mica a casaccio. Lei aveva replicato che dei sacrifici sono sempre necessari e che, in fondo, quei ragazzi il lavoro se l’erano scelto.
– Un lavoro è un lavoro: mica puoi sputarci sopra, se ti dicono di andare a lavorare per Moro.
– È perché tu sei un borghese. È per questo che non capisci.
Veramente, Luca pensa che tra i due la borghese sia lei: mantenuta all’università dai genitori e con le mani lisce di chi nemmeno ha lavato mai i piatti mentre lui se l’è spaccate, le mani, decorandole di calli, nati a forza di tinteggiare, spostare lettini e rastrellare d’estate e trasportare carta, armeggiare con la colla e la cartapesta d’inverno.
Ogni volta che glielo fa notare lei si irrigidisce, le guance arrossate, e replica che lui è borghese dentro, che ce l’ha come atteggiamento e mentalità che è pure peggio. Poi lui se l’abbraccia, lei fa un po’ la ritrosa e finiscono a fare pace. Tutte le volte. Ma non questa. Quel pomeriggio è diverso: lei si siede su un ceppo, la testa tra le mani, in silenzio. Luca resta in piedi, lo sguardo fisso nel punto in cui il mare e l’orizzonte primaverile si fondono, i muscoli tesi.
– Ci stiamo lasciando, vero?
– È che siamo troppo diversi.
La porta del bar che sbatte lo riporta alla realtà: è entrato Sandrino, quello del tabaccaio all’angolo.
– Condoglianze, Menotti, ho saputo di tua zia.
– Pace all’anima sua – risponde meccanicamente il barista, continuando a pulire il bancone.
Ha imparato a mostrarsi impassibile, come un giocatore di poker: uno come lui deve solo saper ascoltare e, all’occorrenza, preparare un buon caffé corretto. Deve essere solido, rigido, non mostrare i propri problemi altrimenti il cliente mica ti torna: che se ne fa delle pippe altrui? Per quelle ci sono la casa, la moglie, la suocera. Il bar, invece, deve essere un rifugio. E allora Menotti muove lo straccio, sorridendo sardonicamente fra sé e sé: già pregusta l’indomani pomeriggio quando, seduto davanti al notaio con suo fratello, verrà in possesso della palazzina di Piazza Mazzini: ah, che soddisfazione sarà vedere Piero inarcare le sopracciglia e scoprire i denti, cercando di trattenere uno scoppio d’ira. Pensa di essere il nipote preferito, quello tutto baci e dolcetti, e invece lui l’ha fregato. Su tutta la linea. Anni passati a denigrarlo, a bassa voce, con la vecchia zia bigotta, convincendola che fosse uno di quei pervertiti, di quei froci, insomma, lo fanno essere sicuro che domani metterà le mani su quelle case così come è sicuro che quel vecchio pazzo di Mario non gli scroccherà nemmeno un bicchiere d’acqua. Già può sentire lo scorrere del velluto delle poltrone del notaio sotto i polpastrelli e l’odore di potere di quella stanza.
Pensare alla faccia delusa del fratello lo esalta e, gettatosi lo strofinaccio su una spalla, dà un colpo a Luca, imbambolato davanti al bicchiere intatto.
– Vuoi vedere come lo facciamo uscire di testa, quel vecchio pazzo?
Luca alza lentamente gli occhi dalla schiuma, Anna ancora nella testa, e si volta nella direzione in cui sta ammiccando il Menotti.
– BUM! BUM! BUM!
Appena il barista sputa fuori quelle sillabe Mario, il vecchio pazzo, inizia a dimenarsi sulla sedia, nascondendo la testa nel cappotto rattoppato, consunto.
Menotti prende a ridere convulsamente, dandosi delle gran pacche sulla pancia prominente, mentre Luca, con lo stomaco asserragliato dalla tristezza, fissa Mario riemergere dalla sicura oscurità dei propri indumenti e piantare gli occhi dritti dentro ai suoi. È vero: Mario lo fissa, ma non lo vede. Non vede lui, né il bar, né le navi là fuori. Mario è ancora a quel capodanno del ’68 quando suo figlio ha perso la vita e lui è stato maledetto a rivivere quel momento ancora, e ancora, e ancora. Sapeva che Nicola era inquieto, lo era diventato da quando erano rimasti soli, loro due, a tirare avanti, e le feste non facevano che peggiorare il suo umore: quell’anno, poi, c’erano state tutte le proteste, il sit-in alla Scala, le piazze gremite, gli scontri. E telefonate in piena notte, il letto freddo di chi non è tornato a casa, i fogli scritti fitti fitti.
Così, quella sera, aveva deciso di rifiutare la tombolata e le lenticchie del C.R.O. e l’aveva seguito, discretamente, silenziosamente, perché se lo sentiva nelle ossa che sarebbe successo qualcosa. Ed era arrivato fino alla Bussola: saranno stati tremila, lì fuori, a urlare contro i borghesi che avevano buttato via bidoni di soldi per ascoltare Fred Buongusto e Shirley Bassey, e a sputare, a menare schiaffoni. Poi era arrivata la polizia e gli scontri avevano acceso la notte: quattordici ragazzi restarono feriti, ma non il suo. Il suo se l’era fatto morire fra le braccia, come una beffarda Pietà michelangiolesca. Ma nessuno ne parlava più, ormai, e solo lui era rimasto ingabbiato in un ricordo.
– Giovanotto, son cinquemila lire. La birra, dico.
Luca la finisce in un sol sorso, quella birra che ormai sa di acqua sporca, si alza, mette sul banco un foglio da cinque tutto spiegazzato e, con un’ultima occhiata al vecchio Mario, esce dal locale.
* * *
Svegliati Luca: sei rimasto incastrato nel sogno di un ricordo di quando eri ancora ragazzetto e il Menotti aveva il bar, invece di fare il locatario strozzino, e il vecchio Mario passeggiava triste chiuso nel cappotto rattoppato e ancora, forse, non aveva maturato l’idea di scavalcare una rete e gettarsi sotto il regionale per Pisa. E tu ancora pensavi ad Anna, con i capelli neri e la fascia rossa, che sulla spiaggia ti parlava di lotte e simboli sacrificali. Alzati, Luca, e accendi la tv: guarda il tg nazionale. Il telecomando è lì, sotto le lenzuola: ce l’ha lasciato ieri Matteo quando ha insistito per vedere i cartoni nel letto con voi, fra te e Cristina.
Si sente inquieto, Luca, non capisce perché gli sia riapparsa Anna: una figura sopita dagli anni e dalle gioie coniugali. Poi, grazie al tg, lo capisce, il perché: Anna ha voluto chiudere il cerchio, lasciarlo libero. Anna ha ricevuto un riconoscimento internazionale per come ha gestito gli affari di una multinazionale alimentare.
E Luca, con tutto il proprio riprovevole spirito borghese, da lei questo proprio non lo può accettare.