Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Racconti nella Rete 2009 “C’era una volta Anna” di Simona Malachia (sezione racconti per bambini)

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2009

Una volta Anna uscì di casa. Con il cappotto nuovo. Con le scarpe linde. Con la bisaccia al collo. La sua bisaccia si chiamava tascapane. E fuori la nebbia si poteva tagliare con il coltello.

 

Anna era alta un soldo di cacio. Più un barattolo. Era così piccola che sentiva quando passavano i discorsi delle pulci di Birillo. Birillo era il cane di Anna. Ma era più alto di un cacio. Più un barattolo.

 

La strada da casa a scuola era lunga. Più lunga della strada da ogni città a Roma. Tutte le strade portano a Roma. Il nonno di Anna lo diceva sempre la mattina, prima di togliere i suoi denti dal bicchiere nero sul comodino.

 

Mentre Anna infilava la mano destra nel tascapane la nebbia si poteva tagliare con il coltello. Come ieri.

 

La strada da casa a scuola era lunga e poi lunga. Un po’ meno lunga però della strada da ogni posto a Roma. Tutte le strade portano a Roma. Lo diceva il nonno ogni mattina quando toglieva i denti dal bicchiere di vetro sul comodino. Lei però faceva ogni giorno la strada da casa a scuola. E non era mai arrivata a Roma.

 

Nemmeno ieri. Oggi però se faceva due passi in più magari ci arrivava. La mamma aveva appeso alla tele una foto di Roma. Davanti c’era un grande posto pieno di buchi marrone dove i leoni mangiavano i bambini se non andavano a letto presto. Magari se faceva due passi ancora poteva incontrare un leone. E chiedergli perché ai gatti non cresce la criniera. Lei non aveva paura. Perché era alta un cacio. Più un barattolo. E nessun leone l’avrebbe mai voluta mangiare.

 

Dietro al posto marrone con i buchi che non è un groviera perché ci sono i leoni ma non i topi c’erano due segni di matita. La mamma li guardava e poi piangeva. La mamma non piangeva quasi mai. Solo quando guardava i segni di matita dietro al posto marrone. Se la vedevo potevo diventare di ghiaccio. Un giorno mio nonno era diventato di ghiaccio. La mattina era uscito presto. E cadeva la neve. Anna però l’aveva visto. E quando era uscita per andare a scuola, l’aveva trovato fuori ritto come una scopa. Con una carota al posto del naso. E due bottoni al posto degli occhiali. Anna però non è stupida. E aveva visto subito che la sciarpa era la sua. E i denti non erano nel bicchiere sul comodino. Così quando la mamma le raccontò che il nonno era andato in cielo lei fece finta di piangere. Ma sotto sotto rideva a crepapelle perché era stata brava a riconoscere il nonno dalla sciarpa. A lei non la si conta. Lo dice sempre Luigi. In cielo ci vanno i piccioni non i nonni. E qualche volta anche i cani. Ma solo se hanno una cuccia con le ali. La cuccia di Birillo ha due ali. Ce le aveva disegnate Anna quando dormiva. Ieri. Prima di andare a scuola col tascapane. Due ali di piccione. Grigie come le zampe di Birillo. Grandi come il coso marrone che se la mamma lo vede piange sempre. Ma senza buchi. Così magari se va in cielo arriva fino a Roma dopo la scuola e le zampe non gli fanno male.

 

 

Nel tascapane Anna aveva una moneta che le aveva dato Luigi. Luigi un giorno l’avrebbe sposata. Lui non lo sapeva. Lei però era furba. Lo dice sempre Luigi. Un giorno erano in piscina insieme. Giocavano che Anna era Anna e Luigi era il leone. Il leone la doveva prendere ma poi non la mangiava perché Anna era alta un cacio e un barattolo. E nella giungla non ci sono né caci né barattoli. E neanche allo zoo. Una volta il nonno ce l’aveva portata allo zoo di Cremona che era grande come una giungla. L’aveva detto Luigi, che ce l’aveva portato suo nonno. Anche suo nonno metteva i denti sul comodino. Ma era successo prima che diventasse di ghiaccio. Quando il sole era tornato il nonno non l’aveva visto più. Doveva aver trovato la strada per Roma. La sciarpa però l’aveva presa lei. A lei non la si contava.

 

Quando giocavano che lei era Anna e Luigi il leone Luigi le aveva preso la gamba e lei era caduta sul bordo bianco coi denti. Poi aveva visto il sangue rosso rosso e la faccia della mamma strana che quasi piangeva; ma non piangeva perché la mamma piange solo davanti al coso marrone. E nemmeno Anna piangeva. Prima sì voleva mettere a piangere ma poi quando aveva visto il sangue rosso rosso e Luigi che la guardava così aveva capito. E rideva cattiva. Perché adesso Luigi doveva sposarla. A lei non la si faceva.

 

Anna toccò nel tascapane la moneta che le aveva regalato Luigi. Una volta era uscita senza e a scuola era caduta in un bicchier d’acqua. Gliel’aveva detto la maestra. E poi non era più sicura che Luigi l’avrebbe sposata. Ma oggi la moneta c’era. Allora chiuse il cancello e guardò il sentiero. Forse oggi poteva arrivare a Roma. Ma doveva far presto perché poi magari il nonno se ne era già andato. “Oggi la nebbia si può tagliare con il coltello”, pensò. Poi si immerse nella nebbia come in un guanciale. Ma senza piume, però. E umido come il fiato di Birillo.

 

Cammina cammina come cieca. E la nebbia montava come panna. E le cose passavano come un film di cartoni quando la tele una volta si era rotta. Anche i pensieri erano come i finestrini con la pioggia: scivolavano via un po’ molli, senza forma. Anna odiava i pensieri molli. Li aspettava come quieta e poi stufa si metteva sempre a pensare alla fiaba cattiva. Sua mamma raccontava sempre la fiaba cattiva.

 

“Cos’è una fiaba cattiva?” le aveva chiesto un giorno la maestra.

“Una favola cattiva è una favola che non si capisce niente”, aveva risposto Anna.

Allora la maestra le aveva raccontato di un cappuccetto rosso e di un bosco e di un lupo con la bocca grande grande e di una nonna brutta ma brutta che non aveva denti sul comodino ma mangiava le torte. E Anna aveva capito tutto.

 

Era la fiaba cattiva dell’elefante. Un elefante vive nonsisapperché in mezzo alla strada. Tutto è buio. Non c’è il sole, ma nemmeno la nebbia. Allora qualcuno che non bisogna dire chi è dice a tre uomini di andare a toccare l’elefante. Ma siccome che non lo vedono, i tre ci mettono tre anni e poi alla fine tornano uno alla volta e dicono tutti cose stupide. Nessuno però dice l’elefante. E la favola finisce.

 

Ma cosa è successo all’elefante? Gli dava fastidio essere toccato? Cosa ci faceva in mezzo alla strada? A Roma c’erano elefanti?

 

Mentre le domande tornavano molli come gelatina di frutta Anna urtò un pezzo di metallo. Di nuovo cattivo l’elefante di Roma le spuntò davanti agli occhi. Ma toccò la moneta di Luigi e tutto tornò morbido come prima.

 

E il metallo si mise a parlare a dire che era un cavaliere e che portava fortuna e che era zoppo e che si era perduto nella nebbia. Anna prima non ci cascava ché la mamma le aveva detto di non rivolgere la parola agli sconosciuti. Ma poi lui le disse: “Che bella bambina che sei. Cos’hai nel tuo tascapane?”.

E lei rise forte, fece finta di niente, gli diede la mano e partì con lui verso Roma. Altro che cavaliere; era il lupo, l’aveva capito. E pensò a Luigi che diceva sempre che a lei non gliela si contava. Sì, un giorno l’avrebbe sposata.

 

 

Da allora nessuno la vide più.

 

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