Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2013 “Rane” di Alessandra Cappelletti

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013

– Facciamolo.

Simone, Regina e Fefè si trovavano ai margini della provinciale centosedici, quella che da Coffalonica porta a Merice, quella lunga e dritta, quella che all’autogrill ci lavora il fratello di Simone e se la fai dopo le sette di sera ci stanno le puttane. Un brivido attraversò la schiena di Fefè. Se la mamma sente che dico queste parole mi ammazza. Poi, un sorriso. Ma tanto se salto non mi ammazzerà mai.

– E secondo te, Fè?

– Eh?

– Secondo te se mi tuffo di testa muoio prima?

Fefè si fermò ad osservare il cranio di Simone. In effetti aveva una forma strana: somigliava ad una di quelle liquirizie gommose che ti vendono al chilo nel bar del paese, quelle che poi ti si attaccano ai molari e non ti mollano più. Non l’avrebbe mai detto all’amico, ma Fefè aveva la nettissima sensazione che una testa del genere sarebbe sopravvissuta a qualsiasi impatto. Del resto, Simone era così determinato a farla finita per primo che piuttosto si sarebbe finto morto.

– Allora? Che dici?

– Boh. Forse.

– Ma come forse? Che risposta è, forse? Siamo qui, sulla riva del fiume più lungo e profondo del mondo, ma che dico! dell’universo, tra cinque minuti verrà la polizia a cercarci, tua madre piangerà un casino, mio fratello si schianterà sulla centosedici per venire a salvarmi e tu, tu mi dici che boh forse?! Ma ti sei bevuto le rane?

Fefè sbuffò. Simone era il suo migliore amico. Si erano conosciuti all’oratorio, quell’estate che Don Aldo era stato allontanato all’improvviso dalla chiesa e non si era celebrata la messa per un sacco di settimane. Certi uomini vestiti bene si erano avvicinati al prete mentre stava sistemando l’ostia nella sagrestia. Fefè li aveva notati perché entrando non si erano fatti il segno della croce. Il più basso dei tre aveva accennato una specie di edellospiritosanto, ma era più simile ad un cenno d’intesa con gli altri due. Nascosto dietro ad una colonna, Fefè aveva visto i tre uomini avvicinarsi piano piano a Don Aldo, sussurrargli due parole quasi nell’orecchio, con gesti veloci della mano, e prenderlo per il gomito. Il prete si era lasciato trascinare via senza opporre resistenza. Solo all’uscita, incrociando lo sguardo di Fefè, aveva accennato un mezzo sorriso. Nessuno era riuscito a spiegargli bene perché, ma Fefè era convinto che in tutta quella strana storia c’entrasse Simone. Forse perché l’amico era stato l’unico che, alla notizia della partenza del prete – si diceva – per una missione umanitaria, era scoppiato a ridere, si era agitato tutto e poi aveva fatto quella cosa buffa con l’occhio, ma tipo tremilamille volte di fila.

Fatto sta che, da quell’episodio, Simone e Fefè erano diventati amici per la pelle. Passavano interi pomeriggi dentro la chiesa abbandonata, al riparo dal sole impietoso e dritto dell’agosto coffalonese. Sgusciavano dentro di nascosto, dopo che l’ennesimo gol in solitaria di Tanzi induceva tutti a mollare lì il pallone e tornare a casa. Bastava che uno dei due facesse un gesto – quel edellospiritosanto da spalla a spalla – e allora Fefè si inventava una scusa a caso e Simone diceva Anch’io, ed era fatta. Salutavano il resto del gruppo con gesti molli, fingendo la noia di un pomeriggio qualsiasi, camminavano lenti e sbiechi fino al cimitero e poi via, svoltavano l’angolo e in attimo erano giù, lungo la strada sterrata che portava alla chiesa abbandonata. Simone si divertiva a sollevare la polvere intorno a Fefè, gli calciava addosso l’acqua delle pozzanghere, lo chiamava Frocio! a voce altissima, anche se non sapeva bene cosa significasse (gli piaceva quando suo fratello lo diceva a tavola, con la bocca sporca di sugo, e suo padre rideva e raccontava storie divertenti, e allora frocio per Simone significava allegria e casa e papà che una volta tanto non mena le mani, frocio è quando siamo tutti d’accordo, frocio è forse un modo strano di dire Ti voglio bene). Fefè lo lasciava fare. Pensava soltanto a raggiungere la chiesa prima che il sole calasse. Gli piaceva quell’ora dove il cielo si fa rosso come il fuoco e nell’affresco di San Michele il drago diventa ancora più terribile. Stavano lì tutto il pomeriggio, a fare gli equilibristi sulle panche di legno e leggere le storie dei santi e dei martiri. A Simone piaceva tantissimo la faccenda della passione di Santa Caterina, e chiedeva sempre a Fefè di leggerla ad alta voce, e ogni volta che arrivava alla parte dove la santa veniva picchiata dai romani e cadeva in estasi, Simone sentiva una vertigine nello stomaco, e le mani gli si gelavano tutte, e allora si avvicinava ai ceri per scaldarsi e Fefè lo guardava strano, Ci sono trentacinque gradi fuori!, gli diceva, e Simone gli rispondeva Stai zitto, e lo fissava con due occhi lucidi e mobilissimi, e faceva ancora quella cosa strana con la palpebra, dieci volte di fila, senza smettere, e quando Fefè provava ad avvicinarglisi Simone lo ricacciava indietro con uno spintone, Che cos’hai?, gli chiedeva sempre, Niente, sei frocio, poi guardava per terra e sorrideva piano – stava lì a sorridere intere mezz’ore, senza fare niente, senza muovere neanche un muscolo, finché Fefè iniziava a sentire i grilli e allora si caricava l’amico quasi addosso e tornavano a casa.

Col tempo, i pretesti per la fuga si erano fatti sempre più fantasiosi e incredibili, fino a diventare una specie di leggenda tra i bambini del quartiere: c’era stata la volta in cui erano andati a vedere i galli da combattimento nel seminterrato di un boss mafioso; quell’altra volta in cui avevano preso il tè a casa della figlia del sindaco (la bionda con le cosce grandi che usciva solo dalle tre alle cinque per prendere il sole in giardino, oltre la siepe di bambù); quella volta ancora che l’avevano sparata davvero grossa, quando si erano inventati che l’allenatore della nazionale li aveva convocati per chiedere consiglio sulla formazione da schierare nella semifinale contro la Francia, e poco c’era mancato che Tanzi non s’accollasse a loro. Quel giorno avevano dovuto inventarsi che l’incontro misterioso si sarebbe svolto al di là del fiume Priccio, il fiume più lungo e più profondo del mondo che taglia in due Coffalonica, e allora quello era sbiancato perché aveva paura dell’acqua (tutti lo sapevano), e anche se quel rivolo di liquami stagnanti gli sarebbe arrivato all’ombelico – a lui che era stato bocciato due volte ed era alto come il papà di Simone e aveva già la voce bassa e quando beveva la cocacola portava su e giù mezzo collo – e insomma, anche se era ormai quasi un uomo, Tanzi si era fatto indietro: trascinandosi appresso le sue lunghe gambe nodose, si era diretto a spalle basse nella direzione opposta a quella di Fefè e Simone. Di solito raccontare questo genere di storie divertiva un sacco entrambi, ma quella volta i due amici avevano fatto la strada verso la chiesa abbandonata in silenzio, ciascuno rigirandosi nella testa i propri pensieri, e quando erano arrivati al fresco della navata principale si erano sentiti per la prima volta spiati, e sbagliati, e ad entrambi era parso che i santi stessero lì a guardarli dalla punta del naso fino a dentro la suola delle scarpe. Fefè si era messo a pensare ai genitori di Tanzi, così terribilmente poveri che quei cinque figli li avevano concepiti per occupare il tempo della cassa integrazione, e forse nemmeno sapevano di aver messo al mondo un fantasista di razza pura, di quelli che se ti giri un attimo sei già sotto di tre gol. E così, ripensando ai pullman che partivano ogni anno da Coffalonica per portare le giovani promesse del paese ai colloqui con le squadre di seconda categoria, Fefè si era sentito improvvisamente in colpa.

– Non pensi che dovevamo dirgli la verità?

– Cosa?

– A Tanzi, dico. Forse dovevamo dirgli che non era vera la storia della formazione per la semifinale…

– E perché, scusa? Poi quello lo andava a dire a Peppe e a quest’ora stavano tutti qui a fare i rutti in faccia a San Michele e a finirci il vino della sagrestia. Questo, vuoi?

– No, certo che no…

– E santa Caterina? Ci pensi a santa Caterina? Ti sembra che Teo ce la fa a capire tutta la storia dei centurioni e le tigri e l’estasi e tutto? Quello ride solo con le barzellette sugli albanesi.

Quella volta Fefè si era fatto tutto serio e silenzioso, e si era seduto a gambe incrociate sulle panche di legno, mentre Simone aveva cominciato ad aggirarsi senza posa lungo le navate laterali, spegnendo i ceri con le dita. Si era fatto tardissimo, i grilli strillavano, ma nessuno dei due aveva il coraggio di congedarsi da quell’orda di santi e madonne senza aver dato un senso a tutti quei pensieri. Ad un certo punto (Fefè lo ricorda come fosse ieri), Simone si era fermato, aveva urlato all’amico Vieni qui!, come avesse trovato lì, in quell’istante, il più sacro di tutti i graal, lo aveva fatto inginocchiare davanti all’affresco di San Michele e gli aveva fatto prestare il giuramento più terribile di tutta la sua vita.

– Giura che saremo sempre solo io e te.

– Che significa?

– Significa che tu ci sei per me e io per te, e gli altri non c’entrano.

– Neanche i nostri amici?

– Nessuno, neanche tua madre.

– Ma perché?

Simone aveva frugato nelle tasche dei suoi pantaloncini e ne aveva estratto il coltellino svizzero di suo padre, quello con cui il signor Bracci modellava i suoi soldatini di legno.

– Che fai?, ahia!, Simò! Ma ti sei bevuto le rane?!

Risero. Nel silenzio della campagna coffalonese, contro quei muri di pietra spugnosa, risero forte, fortissimo, talmente forte che la paura sembrò svanire nel canto dei grilli.

– Da oggi in poi, se tu me lo chiederai, io mi berrò pure le rane.

Intanto, ai margini della provinciale centosedici, la sera era scesa su Coffalonica.

Quell’anno l’estate era iniziata più tardi del previsto, sgomitando a fatica tra una primavera capricciosissima e un autunno impaziente. Si sarebbe detto, quasi, che le altre stagioni avessero cospirato per non far chiudere mai le scuole. In tutta risposta, la calura estiva si era concentrata nelle ultime settimane di agosto, regalando ai coffalonesi giornate di quindici ore di luce e notti bucate da spilli di stelle. In quei giorni senza ombre dove nascondersi il boss locale era stato catturato, il sindaco sorpreso con l’amante, le giovani promesse del calcio costrette a letto da una serie interminabile di insolazioni. E poi certo, c’era stata la storia di Don Aldo.

Adesso che ci pensava bene, mentre si trovava lì, coi piedi conficcati nel fango intorno al Priccio, Fefè non aveva mai chiesto all’amico il motivo di quella risata strana quando si parlava del vecchio prete inviato in Africa per meriti verso la comunità cattolica, e di quell’altra cosa buffa, quella dell’occhio, uguale uguale a quella che Simone faceva quando Fefè raccontava di santa Caterina che invocava il Signore mentre le tigri le mordevano le caviglie…

– Ci daranno l’estrema unzione.

– Che?

Fefè si girò verso l’amico e ripetè con più forza.

– Quando ci troveranno, prima di metterci sotto terra, ci daranno l’estrema unzione.

– E che significa?

– Che significa non lo so. So solo che ti mettono in faccia e sulla pancia una specie di olio e poi fanno edellospiritosanto e dopo finalmente puoi volare in cielo.

– E tu come lo sai?

Fefè distolse lo sguardo e iniziò a scavare il terriccio umido con la punta del bambù.

– Me l’ha detto Don Aldo quando sono andato a confessarmi, l’ultima volta. Gli ho detto di me e di te e del Priccio e tutto, e lui…

– Gli hai detto del Priccio?! Ma perché?

– …e lui ha detto che morire non era bello, ma che uccidersi era proprio stupido, e che saremmo finiti all’inferno, allora io ho iniziato a piangere e lui per calmarmi mi ha detto di non preoccuparmi, che lui non lo diceva a nessuno…

– Va bene, smettila.

– …e poi mi ha detto che sarebbe venuto lui stesso a darci l’estrema unzione, e quando io gli ho chiesto spiegazioni, lui ha preso un po’ di acqua santa e me l’ha passata sui gomiti…

– Basta, zitto.

– …e sul collo, e dopo anche sulle labbra, e poi…

– Ti ho detto basta!

Simone si alzò d’un tratto e si scagliò contro l’amico, afferrandolo per la maglietta. Il pugno serrato era lì, in aria. Fefè poteva quasi sentire le unghie sporche di terra di Simone conficcarsi nella pelle del palmo della mano, e allora chiuse gli occhi fortissimo, fino a vedere le scariche elettriche colorate attraversargli la pupilla, e intanto pregava San Michele di tenere buono quel drago, che pure era suo amico, quel bellissimo drago cui voleva tanto bene ma che non riusciva a capire…

– Smettetela, voi due. Nessuno ungerà nessuno, non siamo mica sogliole.

La voce di Regina si fece strada tra le scariche elettriche delle pupille, e quando finalmente aprì gli occhi, Fefè si sentì tirato per le orecchie dalle dita lunghe e nervose della sua amica, e buttato accanto a Simone contro un enorme masso ai margini del canale.

– Siete proprio due stupidi. Io non so cosa cavolo ci faccio, qui con voi. Dovrei buttarmi giù nel Priccio insieme a uno come Tanzi, che non avrà un cervello ma almeno non ragiona coi piedi.

Simone grugnì.

– Cos’hai da dire, tu?

– Niente…

Regina gli si fece più vicina, naso contro naso.

– Parla, bifolco.

Fefè rise.

Bifolco?! Ma dove le trovi ‘ste parole, Gina?

– Non. Chiamarmi. Gina.

Adesso gli occhi gialli di Regina erano dritti contro i suoi. Poteva quasi sentirli ruggire. In quel momento Fefè capì come mai San Michele, che pure è capace di domare i draghi, non alza un dito contro le tigri. Ci ha provato Santa Caterina e non è andata troppo bene.

– Non è colpa mia se voi ominidi non aprite un libro se non per farvi le seghe!

Fefè ignorava il significato di almeno due delle parole pronunciate da Regina, eppure il suo istinto lo guidò a chiedere spiegazioni su cosa c’entrassero i falegnami in tutto questo discorso.

– La sega, Fefè, la sega! Santo cielo, devo spiegarti proprio tutto?

Regina sbuffò, scostò i ciuffi dalla fronte e si appollaiò sul suo ramo preferito.

– Ora voi, luridi vermi, ascolterete quella che sarà la mia ultima lezione prima che noi, nella notte del ventitrè agosto, ci uccideremo tutti. Capito?

Mentre Regina raccontava per l’ennesima volta una di quelle storie che iniziavano sempre con lei che spiava dal buco della serratura e finivano puntualmente con la sorella che metteva le corna al fidanzato, Simone ripensò al giuramento di San Michele. Giura che saremo solo io e te. Un sorriso amaro gli scoprì i canini. San Michele non può fare niente contro le tigri.

Era successo tutto in così pochi giorni che non sembrava neanche più la stessa estate. E anche quella storia, come tutte le altre, era stata colpa di Tanzi. Quell’anno, infatti, la capra aveva rischiato di farsi bocciare per la terza volta, e così sua madre, che per non saper né leggere né scrivere capiva il guaio di non saper né leggere né scrivere, vendette la macchina e mandò suo figlio a ripetizioni dalla Betty, la figlia del sindaco con le cosce grandi, quella che prendeva il sole solo dalle tre alle cinque dietro alla siepe di bambù. A Tanzi piaceva molto frequentare la villa del sindaco, e del resto al sindaco non dispiaceva affatto far sapere in giro che il figlio di una delle famiglie più povere della città beneficiava del suo aiuto. E così, proprio nell’estate che anticipava le elezioni comunali di settembre, la Betty prese a far ripetizioni gratis a Tanzi, che divenne a tutti gli effetti un membro della famiglia. O almeno, così deve averlo interpretato la madre di Tanzi quando questi, tornato a casa una bella sera di luglio, si era messo a raccontarle di come quel giorno avesse fatto la conoscenza della sorella minore della Betty, Si chiama Regina, mamma!, e a me ha chiamato il buon selvaggio, e poi ha chiesto al sindaco se mi può adottare, dice che l’ha fatto anche Giulio Cesare con uno che poi è diventato imperatore del mondo, t’immagini io imperatore del mondo, ma’?, te lo immagini?

E così, Regina aveva iniziato a frequentare il gruppo di Peppe e gli altri. Sulle prime nessuno l’aveva presa tanto bene, soprattutto Peppe, fratello maggiore di cinque sorelle, che di femmine tra i piedi non voleva nemmeno sentir parlare.

– Fammi fare una prova di iniziazione.

– Una che?

– Santo cielo, mettimi alla prova! Dimmi di fare qualcosa di tremendamente schifoso, o di molto difficile; se io supero la prova, tu e tutti gli altri mi accettate nel vostro gruppo.

A quel punto Simone si era fatto avanti.

– Ma perché non stai con le altre bambine? Che c’entri con noi?

Regina l’aveva squadrato dal basso verso l’alto, proprio come avevano fatto i santi quel giorno del giuramento di San Michele, e dopo era scoppiata a ridere.

– Sai, energumero, potrei farti la stessa domanda…

Tutti risero, e così fu deciso: Regina avrebbe seguito Simone e Fefè in una delle loro temutissime spedizioni per scoprire cosa si celasse dietro tutte quelle fughe. Lo sguardo disperato di Simone provò ad incontrare un’attitudine gemella negli occhi di Fefè, che invece brillavano di una strana eccitazione. Accadde in quell’istante: lui e Fefè non erano più soli contro il resto del mondo.

Da un giorno all’altro quella lì aveva iniziato a scendere la strada sterrata insieme a loro e a prendersi tutta l’attenzione di Fefè suonando l’organo stridulo e polveroso della chiesa. Il suo amico sembrava sotto incantesimo, tanto che non aveva nemmeno protestato quando Regina aveva proibito a Simone di chiamarlo frocio perché – come spiegò lei in una delle sue lezioni – non significava niente di allegro e divertente, nessun Siamo tutti d’accordo, nessuno strano modo di dire Ti voglio bene. Frocio era Don Aldo, capito?, aveva detto Regina, e a sentire quel nome Simone si era fatto tutto gelido, ed era corso subito a mettere le mani sopra ai ceri. Ma cosa fai? Fuori si crepa di caldo!, aveva detto lei, e Fefè le aveva detto di lasciarlo stare, Lascialo stare, le aveva detto, Lui è – ma poi si era fermato. Simone l’aveva guardato dritto negli occhi (erano lucidi e mobilissimi) ma non aveva sentito più niente. Solo il canto dei grilli, accidenti.

Certo, anche Regina aveva prestato giuramento, ma in un modo tutto suo. Dopo aver ascoltato la storia del martirio di Santa Caterina, con le tigri e i centurioni e tutto il resto, si era avvicinata all’affresco di San Michele e, senza esitare neppure un attimo, aveva spento tutti i ceri votivi.

– Io vi giuro – disse poi, fremente – che non vi chiederò mai e poi mai di bere le rane per me.

Simone, Regina e Fefè si trovano ai margini della provinciale centosedici, quella che da Coffalonica porta a Merice, quella lunga e dritta, quella che all’autogrill ci lavora il fratello di Simone e se la fai dopo le sette di sera ci stanno le puttane. Si sono tolti le scarpe, adesso, e i loro piedi nudi sporgono fuori dagli argini del canale. Non moriranno, almeno non stanotte. Però cercheranno di uccidersi.

Regina ha pensato di legarsi un sasso alla caviglia sinistra: l’ha visto in un film in seconda serata ed è convinta che funzionerà. Per sua fortuna si tratta invece di una zolla di terriccio friabile, che sciogliendosi in acqua farà come certe sabbie nei fondali dell’Adriatico, quando la luce le colpisce e così, per un piede, per un inciampo, iniziano a danzare.

A Simone andrà un po’ peggio. Il suo tuffo di testa con rincorsa contro ad un fondale di un metro e mezzo gli frutterà un bernoccolo proprio lì, dove Don Aldo lo accarezzava in quelle mattine sottratte al catechismo. Un giorno un giovane uomo si accorgerà di una cicatrice a forma di drago sulla sua testa, e se ne innamorerà. Vivrà abbastanza per farsi prendere in giro dai suoi nipoti.

L’ultimo a buttarsi sarà Fefè – va da sé: ad occhi chiusi. Raccogliendo le ginocchia contro al petto per il tuffo a bomba, penserà a San Michele e alla sua spada lucente, alle cosce della Betty, alle caviglie di Santa Caterina, agli occhi appuntiti di Regina e alla femmine tutte, penserà allo scricchiolìo spaventoso delle panche di legno quando ci sali su, che l’equilibrio è questione di non farsi minacciare dalla possibilità del vuoto, e allora penserà che se non muore regalerà un pallone nuovo a Tanzi, e porterà tutti alla chiesa abbandonata, anche Teo e Peppe, e sua madre e il fratello di Simone, pure, e staranno lì a raccontarsi storie fino a che i grilli non strilleranno, e anche dopo, e Dio come saremo felici, e mentre pensa questo una rana gli entra nella gola, piccola, compatta, e inizia a battere al ritmo del suo cuore umido, proprio al centro della sua gola, che se Fefè berrà di nuovo la cocacola farà su e giù, ed è un attimo: i bambini sono cresciuti.

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7 commenti »

  1. Molto bello il finale con la descrizione dell’attimo del tuffo. Un bel racconto, vivo.

  2. il tuo modo di scrivere si intaglia nel lettore, scava dentro solchi, sempre più a fondo. e poi ci ruzzola dentro rivoli, ma impetuosi. qualche diga servirebbe, ma di quelle dei castori, per intenderci. o forse sono io che con l’acqua sono poco a mio agio. i tuoi bambini sono bellissimi. soprattutto l’eterosessuale frocio, ‘che è il più sovversivo. ma io sono di parte, a me piacciono i personaggi sfigati. ci sono rimasti tanto in riva a quel fiume a fissare il loro orizzonte, ma alla fine li hai salvati. grazie, ho avuto il cuore in gola fino all’ultimo (raro di questi tempi, per dirla alla maniera delle nonne).

  3. brava, standing ovation!

  4. Bello, troppo lungo per questa sede. Lungo a sufficienza per lo scopo prefissato.
    Anche le frasi sono troppo lunghe ma, mi rendo conto che forse sono la trasposzione del flusso di pensiero di una mente vivace, che divaga continuamente (ma senza perdere il filo del discorso, come capita a me mentre parlo).
    Comunque ha la dote essenziale per uno scritto come si deve: è avvincente. Oltre ad essere disseminato di virgole e di punti al momento giusto, che è un’altra delle mie fisime. E curato nella forma, altra mia passione.
    La prima cosa che uno che scrive si deve chiedere, se non scrive solo per se stesso, è: PERCHé IL LETTORE DOVREBBE CONTINUARE A LEGGERE QUESTO MIO SCRITTO?
    E in questo racconto la domanda non me la sono posta mai, ho continuato a leggere e basta.
    Brava.

  5. Grazie, Maria Cristina!
    Sì, è vero, è lunghissimo e me ne sono resa conto troppo tardi. Il finale rotola giù come una valanga. 🙂 Per quanto riguarda le frasi, invece, hai intuito bene: ho cercato di seguire il flusso dei pensieri di un bambino, che immagino (ricordo?) essere così, come un singhiozzo ininterrotto. Mi sono sforzata anche molto di annullarmi il più possibile, di non intromettermi nelle loro attitudini e non riempir loro la bocca di cose che solo una ragazza della mia età può sapere. Mi sono concessa soltanto – come hai notato bene – il lusso della punteggiatura: quella sì, è una fissa anche mia.
    Ti ringrazio tantissimo del tempo speso, che è la cosa più preziosa di tutte.

  6. Grazie Matteo! Grazie Roberta!

    @cielidipolvere: Non so quanto sia inconsapevole, ma hai colto appieno la materia di cui volevo fosse fatta questa prosa: liquida (gli occhi mobili, il fiume Priccio, l’acqua santa, le rane umide). L’unica diga che sono riuscita a metterci è stata – appunto – la punteggiatura, e quel limite di cinque cartelle che se non ci fosse stato forse boh, sarei andata avanti fino alla foce del fiume, fino a far venir loro le screpolature sulle dita.
    Grazie a te per aver tenuto il cuore lì, dove la cocacola fa su e giù 🙂

  7. Cara Alessandra, ho letto il tuo racconto come la storia di ragazzi che sono legati dall’ amicizia.
    Ho rivisto la mia infanzia quando, d’estate, mi divertivo con i miei amici sulle sponde del Lambro e guardavo le puttane che attendevano i loro clienti sul ‘Costone’. C’era pure la figlia dell’oste che indossava la minigonna. Poi l’Oratorio e la chiesa, dove il seminarista ci raccontava la Bibbia, il cammino degli Ebrei verso la Terra promessa. Ho incontrato la spavalderia, le bugie e le ragazze, come sempre, più sveglie dei maschi.
    Questi sono gli elementi comuni al periodo dell’infanzia, un grande dono è questo stadio della vita per gli individui. E, senza voler apparire egoista, non tenendo conto di altre realtà, mi sento di dire che in alcune società l’iniziazione alla vita dei ragazzi è comune e segue delle regole, non scritte ma …..
    Non so aggiungere altro.
    Grazie Alessandra per avermi portato a riscoprire la mia infanzia. Ciao.
    Emanuele

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