Premio Racconti nella Rete 2013 “Una cosa per me?” di Elena Cattaneo
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013Nel rettangolo dell’incidente, il campo ha ancora lo stesso colore di bruciato del giorno in cui l’autobus è stato rimosso, si fa strada un po’ di gramigna, qualche fiore, delle radici spuntano irte; la terra sembra sprofondata. Me ne tengo alla larga, tutte le mattine, quando porto fuori il mio cane, Dog. Facciamo un lungo giro, pur di evitarlo.
Ma oggi Dog, dopo che l’ho lasciato libero, ha fatto un altro percorso. Vedo che non torna, così lo vado a cercare. Da lontano, lo noto in quel punto. Gironzola con il muso puntato in basso, come se cercasse.
Tutto è coltivato a granoturco, tranne quel pezzo. Tira un vento di giugno e il cielo appare più largo quando è così terso. Per un attimo, mi sento al sicuro, ma poi inizio a urlare: “Doooooooog!”.
Non voglio essere costretto ad andare fin laggiù.
*
Fino a sei mesi fa, consegnavo ancora la posta di casa in casa e facevo tutt’altra vita. Ora sto in ufficio e guardo le persone che entrano ed escono, seduto al mio banco.
Come portalettere non potevo fermarmi troppo spesso. Ma ogni tanto l’ho fatto. Mi sono fermato. Con Daria, per esempio. Lei era sempre in ritardo con qualche pagamento e prendeva un sacco di multe. Le porgevo le raccomandate, mentre mi accoglieva con una smorfia.
“Non se la prenda troppo. Magari è una bella notizia.”
“Dubito”, aveva risposto una volta, scuotendo la testa.
Ci eravamo guardati negli occhi e avevamo riso.
Un giorno ho fissato i movimenti della sua mano che scriveva. Una bella firma. Con una battuta sono riuscito a invitarla a prendere un caffè. Io ero in servizio, perciò non sembrava un appuntamento. Ci siamo trovati faccia a faccia e, con imbarazzo, le ho chiesto: “Che cosa prende?”. Lei giocava con le chiavi di casa, non riusciva ad alzare la testa. “Dammi del tu, dai”, ha risposto. E poi ha addentato una sfoglia. Era novembre.
Aveva un appartamento rimesso a nuovo da poco. “La casa dei miei.” Non ho chiesto altro, ma quando siamo entrati in camera da letto sono stato colpito dall’odore acre del mobilio e della vernice e così lei ha detto: “Scusa, non riesco a farlo andare via”.
“Non è un problema”, ho allungato una mano sulla sua camicetta. A guardarla, sembrava vecchia in mezzo a quell’arredo perfetto, come se fosse stata lì da sempre. E mi stringeva per sprofondare da qualche parte.
“Devo ricominciare”, ha iniziato così, quando ha deciso di raccontarmi la fine del suo matrimonio. Io di me ho detto poco. In fondo, pensavo, ci sarà tempo.
Poi a gennaio c’è stato l’incidente e dopo una sola settimana sono stato trasferito in ufficio, come avevo chiesto. Avrei dovuto parlare con Daria, di tutto. Anche di quella mattina in mezzo alla nebbia, con la morte che esplodeva a pochi passi dal mio cane. Ma non l’ho fatto. Non so se per pudore o per aver pensato: ci sarà tempo. Di notte lottavo con il sonno e le narici erano intrise di cenere. Le ho telefonato un paio di volte, ma sembrava mi mancasse lo slancio.
Ho aspettato troppo e mia moglie è tornata.
Una volta ci siamo dati la mano e, mentre ci salutavamo, lei mi ha accarezzato una guancia. Una specie di benedizione.
*
Quel giorno di gennaio eravamo immersi in una nebbia umida, che si infiltrava ovunque. La sentivo sotto le palpebre degli occhi.
Se c’è la nebbia, poi viene il sole, Daria lo diceva spesso.
Iniziavo il turno tardi e stavo prendendo un caffè, con Dog che scondinzolava sotto il bancone. Dalla tazzina del mio vicino venivano zaffate di sambuca: alle 7,30 mi ubriacavano. Non ho fatto caso alla sua faccia, ma aveva delle unghie che spuntavano come lapidi piantate male.
Sono uscito, la porta del bar si è richiusa con un piccolo clack, e io e Dog abbiamo sentito l’esplosione.
Non vedevo altro che terra, nebbia fitta e qualche luce. Dog è corso in avanti e io ho iniziato a sentire piccoli boati in lontananza, come delle urla. Poi, uno sfrigolare di metallo incandescente e il suono di un meccanismo inceppato.
Era un mondo sonoro, all’inizio.
Più mi avvicinavo e più venivano bagliori. E quando Dog è tornato verso di me, ero io che volevo spingermi oltre. Volevo vedere.
A un certo punto la nebbia si apriva in maniera reverenziale su un incendio: l’autobus della scuola, in un piccolo fossato fra l’asfalto e il campo, era attraversato dalle fiamme.
Ho chiuso gli occhi perché mi sentivo svenire. Mi sono accovacciato contro Dog, con la scusa di tenerlo fermo. Intorno c’erano già altre persone, poi sono giunti rumori diversi. Io affondavo la faccia nel pelo ruvido del mio cane bagnato di brina e freddo.
Tenerlo fermo, ecco una buona scusa.
Nei giorni successivi è venuto fuori che l’autista aveva cosparso la metà inferiore del veicolo di benzina e poi si era lanciato in una corsa cieca. I giornali precisavano che l’uomo non era solo “mentre portava a termine il suo piano insensato”, ma che aveva già raccolto alcuni bambini per condurli a scuola – sette, per la precisione. Di alcuni di loro si potevano leggere un identikit familiare accanto all’elenco dei nomi propri. Qualche giornalista scriveva di come i lineamenti perfetti dell’autista (un uomo bello, forte) “non destassero sospetti circa la sua folle natura”.
*
Oggi a casa c’è mia moglie, Anna. Quando io e Dog siamo usciti, lei era seduta al tavolo di cucina a spalmare miele sul pane. Per tre anni mia moglie non si è fatta vedere. Ha vissuto poco distante da qui, per un po’, e poi è andata nel Sud-Est asiatico con un fotografo incontrato al supermercato. Si sono parlati ed è successo: così mi ha detto poi. “Capita.”
Quando è tornata portava dei vestiti che non le avevo mai visto. Avrei voluto spezzarla come un bastoncino di legno raccolto in un parco. Invece ho pianto.
Ero solo, a parte Dog. È stata lei a chiamarlo così.
Dog non ha abbaiato. Ho pensato che avesse riconosciuto il suo odore, in qualche modo era anche casa sua, di mia moglie. E Dog ci aveva vissuto già da qualche mese, in questa casa.
Anna è entrata in casa dicendo: “Che bell’esemplare”. Non ha chiesto “Permesso”. Ha detto Che bell’esemplare. Si è abbassata e ha steso il palmo della mano sotto la bocca di Dog. I suoi canini erano già lunghi più del doppio delle unghie di mia moglie, benché fosse poco più che un cucciolo. Ho pensato che avrebbe potuto ucciderla (accidentalmente, le avrebbe reciso una parte del collo, arrivando fino all’aorta).
Ma lui le ha leccato la mano e il naso e le ha fatto perdere l’equilibrio. Ridendo, Anna, ha chiesto: “Come si chiama?”. “Birillo, l’ho preso da poco.” “Perché non lo chiami Dog, ti ricordi la canzone di Iggy Pop I wanna be your dog?”.
Così, il mio cane si è chiamato Dog e io e Anna abbiamo fatto l’amore per due giorni di fila. Alla fine mi sono addormentato sperando che non avesse preso una qualche malattia venerea o una cazzo di epatite in quel cazzo di Sud-Est asiatico.
*
Ora, mentre guardo Dog da lontano e spingo con la gola per richiamarlo, sento il bruciore delle troppe sigarette fumate al freddo ieri notte: non ho dormito. Prima di cena ho letto un sms sul telefonino di Anna e non ho capito chi gliel’abbia mandato.
È ancora bella?
So che l’ho guardata talmente a lungo nel pieno dei suoi trent’anni, che potrei disegnarla a occhi chiusi, inciderla su una corteccia, scolpirla con un martello pneumatico sull’asfalto. Ma questa donna, quella che ho salutato un’ora fa, mentre giocava con il miele e accanto a sé teneva il cellulare, e si perdeva nella parete bianca accanto al frigorifero, non la conosco più.
Penso a tutto questo per non pensare ad altro.
Dog intanto ha smesso di cercare e si avvicina tutto contento. Di solito segue un odore, torna con un pezzo di legno: o lo mastica fino al sangue o vuole giocare.
Ora c’è qualcosa che gli pende dalla bocca, una specie di filo. Gli stringo la mandibola in due punti precisi, in alto, sopra i canini, per farlo sputare. Un ciondolo rosso cade sopra la mia scarpa. Sembra un rivolo di sangue; d’istinto guardo Dog per controllare che non stia sanguinando. È a posto.
Allora raccolgo il ciondolo. È una catenina rossa in cui è infilato un piccolo cuore rosso annerito. Si può ancora leggere l’incisione, c’è scritto: Sarah.
Mi guardo intorno, per vedere se ci sia qualcuno – guardo il cielo, il campo scuro sotto i miei piedi, poi l’orizzonte. Con un conato alzo il braccio per scagliare il ciondolo da qualche parte, ma mi blocco quando sento Dog abbaiare e lo vedo correre indietro, perché pensa che io stia giocando.
All’improvviso, sono una furia: lo richiamo, lo rimetto al guinzaglio; lui è spaventato e docile.
Corriamo verso casa. Non so che cosa sto facendo, che cosa penso di fare. Entro e Anna non c’è (sarà andata all’orto che si è messa in testa di coltivare a pochi chilometri da qui). Non me ne importa. Do acqua e cibo a Dog e mi metto al computer. Cerco gli articoli di quei giorni, verifico che nelle liste riportate ossessivamente coi nomi dei bambini compaia Sarah.
C’è.
Segno l’indirizzo della scuola elementare e mi butto in macchina.
È pieno giorno, ma mi sembra notte. Tengo i finestrini chiusi nonostante il caldo. L’auto era sotto il sole e il volante frigge.
Fuori dalla scuola mi guardo nello specchietto. Non ho fatto la barba, sono conciato. Di notte, dormire è ancora una conquista. Scendo e vado davanti al cancello. Potrei lasciare il ciondolo alla custode. O su una panchina nell’atrio. O qui, per terra e andarmene.
Potrei cercare un insegnante, o potrei andare nell’ufficio del preside. Ma poi mi dico: non può essere. E ricordo la visione di quel giorno – era come se un mammuth di metallo vivo si stesse sciogliendo.
Rientro in macchina e mi metto a guidare, per prendere tempo.
Dopo un po’ sono sotto casa di Daria.
Dall’ultima volta che ci siamo visti, in questi mesi, ho ricevuto delle telefonate mute, la sera.
Mi chiedo come sarebbe entrare ancora nella sua camera da letto e se avrei ancora quell’impressione che avevo avuto, come di stare in un negozio di arredi. La sensazione scompariva per incanto mentre ero dentro di lei e lei, Daria, diventava un elemento della natura. Un corpo fresco, mobile. Imprevisto come un ruscello.
Suono al citofono. Nessuno risponde.
Quando torno a casa nostra, c’è Dog che fa l’offeso. Lo accarezzo un po’, mentre lui è buttato sul divano con un’espressione rassegnata.
Vedo Anna, di nuovo seduta al tavolo di cucina. Smangiucchia un plum cake che ha preparato ieri e sfoglia qualcosa.
La guardo:
“Ti devo parlare.” Ho ancora una mano nella tasca e gioco con il ciondolo.
Poi tiro fuori il pugno chiuso e sento la punta del piccolo cuore rosso premere sul palmo.
Lei si rianima, guarda la mia mano.
“Che cos’hai lì? È una cosa per me?”
Non faccio niente, trattengo il respiro, non annuisco; eppure lei si alza con una grazia che non vedevo da tempo. Allontana la rivista, inarca il petto e si scosta i capelli. E poi si apre in un sorriso pieno di luce.
“Davvero,” ha detto con una voce di bambina “hai una cosa per me?”
malinconicamente bello
Molti considerano l’amore come una merce reperibile a buon prezzo, quasi un prodotto che trovi al supermercato, mentre le persone, come il protagonista e Daria, soffono perchè la loro sensibilità li rende vulnerabili ed incapaci d’allontanarsi dalle condizioni della loro infelicità. I due devono trovare la forza di agire e di attuare un cambiamento di vita ma sono vittime della loro fragilità. Il racconto dà ‘un quadro’ della società attuale e la scelta della narrazione in prima persona singolare, credo, coinvolge il lettore nelle situazioni.
Brava Elena. Ciao.
Emanuele
Il racconto è ben scritto. Ottima la scelta del tempo presente e della prima persona per coinvolgere meglio il lettore. E’ scorrevole, lucido, e arriva dritto al cuore!
Ti va di leggere il mio? (In viaggio)
Paola Cavallari
Mi piace molto lo stile del racconto, lo trovo pulito e preciso. La costruzione della frase è accurata, senza troppi fronzoli ma nello stesso tempo ricca di forza. Il ritmo è incalzante, la storia si legge in un soffio. Complimenti Elena, gran bel lavoro!
Buona fortuna,
Carmen
Il pensiero di un uomo che muta rispetto ad eventi della vita che appaiono scontatamente inevitabili: l’amore, l’affetto, la morte. Un cane a passeggio che trascina i ricordi e ti offre un’emozione in più. Un’indecisione dietro l’altra parla della sua esistenza, ma in fondo vive ogni giorno alla ricerca di un contatto che lo aiuti a raggiungere l’indomani.
Mi dichiaro piacevolmente segnato dal Tuo racconto, ciao, Elena,
Brunello
Mi ero ripromessa di cercarti sul sito per leggere il tuo racconto, ed eccomi qui!
Efficientissima la tua narrazione al maschile; ma soprattutto di questo racconto mi piace il linguaggio, che mantiene sempre viva una certa tensione a far da filo conduttore tra gli eventi e i pensieri dei personaggi.
“Quando è tornata portava dei vestiti che non le avevo mai visto. Avrei voluto spezzarla come un bastoncino di legno raccolto in un parco. Invece ho pianto”. Tre tempi che esprimono sensazioni completamente diverse e che però creano una combinazione efficace – la costruzione di questa frase mi ha colpito molto.
In bocca al lupo Elena!
Marta
Grazie mille per i commenti.
Marta: la tua attenzione per il montaggio di un piccolo paragrafo mi ricorda quando sia importante lavorare di fino su lessico/tempi/modi/combinazioni di frasi. (fra l’altro, io sono un’amate di Amy Hempel, che ha sempre lavorato di cesello sulle singole parole, come se si trattasse di poesia – e forse i suoi sforzi sono intraducibili in italiano…).
Emanuele e Brunello: questo frammento mi gira in testa da tempo; ho vissuto in provincia per un po’ e devo aver assorbito una malinconia sempre pronta a manifestarsi che ho trovato lì. Inoltre non riesco a liberarmi del ricordo del film “Il dolce domani”, dal 1997, quando uscì nelle sale.
Carmen, Paola, Matteo: grazie! (Paola, corro a leggere il tuo pezzo, ancora mi manca)
E’ un racconto molto bello, che mi lascia sensazioni contrastanti.
L’incidente dello scuolabus e il ricordo che si porta appresso il protagonista di quei tragici momenti costituiscono senz’altro la parte predominante e più incisiva.
Parallelo a questo, c’è il vissuto del protagonista maschile: l’incontro con Daria, il ritorno della moglie, il ritrovamento della catenina.
Devo dire che nel racconto ci sono tante sfumature psicologiche che forse potevano essere utilizzate per almeno due racconti distinti.
Ma anche la tua scelta di inserire tutto in un unico racconto, mi è parsa appagante, considerato che lo stile narrativo è molto gradevole, coinvolgente e conduce il lettore a seguire con interesse tutta la vicenda.
I personaggi appaiono molto verosimili nelle loro fragilità.
Molto confuso il protagonista maschile, che mi ispira un misto di rabbia e tenerezza per quanto appare disorientato.
Decisamente un po’ stronza ho trovato, invece, sua moglie. Ma il mio parere non è influenzato dal suo comportamento quando se va da casa.
Personalmente ritengo che la narrativa debba restare libera da ogni tipo di moralismo.
Anzi, è proprio quando mette a nudo gli istinti umani meno nobili che riesce a svolgere fino in fondo il suo compito.
Ciò che invece mi ha colpito sfavorevolmente di questo personaggio sono l’arroganza e la superficialità che lei dimostra nel ritenere scontata l’accettazione del suo ritorno.
In questo senso, emblematica è la sua convinzione finale che nella mano di suo marito si nasconda “una cosa per lei”.
Molta simpatia, invece, mi ispira Daria.
Lei, però, alla fine non si fa più trovare. Giustamente.
Racconto gradevole e molto interessante.
Fuori tempo massimo: lo so, è un po’ tardi, ma solo adesso ho riletto la storia che avevo intravisto alcuni mesi fa. Ed è una storia piena di sensazioni, scritta in un presente reale e diretto. Un’ottima scrittura con un buon ritmo. Una storia ben fatta, che merita attenzione. Pensandoci, non mi è ancora capitato di dar voce ad un protagonista delle mie storie dell’altro sesso, tu ci sei riuscita benissimo. Brava. Ti aspetto per la prossima esperienza insieme su questo bel sito. Oltre che a leggere, continua a scrivere visto che ti riesce così bene. A presto. M