Premio Racconti nella Rete 2013 “Radici” di Antonia Frascione
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013Si chiamava Davide. Ma quando ci incontrammo al Convento io ancora non lo sapevo. Mi si avvicinò mentre ero di spalle. Non lo vidi arrivare, ma sentii il suo passo lento, calmo. Poi mi voltai. Non avevo mai visto quel tipo. Barba leggermente incolta, magrissimo, il viso lungo di chi usa le chiacchiere con parsimonia e l’intelligenza con rispetto. Il naso sottile reggeva un paio di occhiali neri, da giornalista.
Mi ero accostata al muro che circonda la piazza ed ero ferma a guardare il panorama. Quel posto mi era sempre piaciuto e tutte le volte che tornavo al paese era la mia prima tappa. Non facevo neanche in tempo a mettere piede fuori dalla macchina che ero già lì. Ero lì, in realtà, molto spesso anche stando nella mia camera a Milano. Ma questo non lo sapeva nessuno. Quella piccola piazza così vuota, così silenziosa, rappresentava, nella mia fantasia, qualcosa di mia proprietà, anzi l’unica cosa che sentissi veramente mia. Era mia anche la signora Vincenza. La consideravo la padrona di casa. La sua porta, l’unica che dava proprio sulla piazza, era sempre aperta anche d’inverno. Ormai anziana, col tuppo sempre ordinato sotto il suo scialle blu, continuava a farmi sempre la stessa domanda quando mi vedeva: “A chi appartenite bella figliò?”. Non che mi vedesse spesso, certo, ma di sicuro non doveva avere più grande memoria. O la sua era una curiosa abitudine? Chissà.
“Che sorpresa!” mi disse sottovoce.
“Ci conosciamo?” risposi esitante.
“Intendevo il mare!”.
Non capivo. Glielo dissi.
“Non capisco mi scusi”
“Provi a sporgersi leggermente. Allora lo vede il mare?”
Accettai il consiglio, mi sporsi leggermente. Come se già non conoscessi quel panorama a memoria. E lo esaminai ancora, meglio. La Puglia era lontana, sebbene a me apparisse sempre più vicina. Quando ero bambina a malapena riuscivo a vederlo quel panorama senza lo sforzo di sollevarmi sulle punte. Poi, crescendo, Sant’Agata di Puglia cominciò a sembrare una visione esotica, in mezzo al noto: quella piramide circondata di verde d’estate, illuminata la sera e mai completamente offuscato da nuvole o nebbia. Era sicuramente il diamante messo al collo di tutte le Imperatrici sveve, angioine ed aragonesi di Daunia. No, nessun mare comunque.
“Quale mare?” chiesi ancora immersa nei miei pensieri.
“Allora la sente anche lei oltre quel muro l’impronta di un’assenza?”
“Si” risposi d’impulso. E poi, tornando in me, ripresi faticosamente: “ma qui non conta l’assenza. È vero, non c’è il mare, ma l’aria che si respira da qui è aria di mare. E poi in tanti raccontano di essere riusciti a vederlo quel promontorio, in tanti dicono che quando è chiaro si vede il riflesso del sole sull’acqua stando qui, in piedi, dove siamo noi adesso.”
“Si, ma è all’orizzonte. Lontano!” mi corresse.
“Eppure c’è. È come il sole, non conta la distanza. Ho come la sensazione che questo paese a volte diventi come il cristallo, elastico” mi accorsi che stavo divagando.
“Ma lei chi è? Da dove viene?” cambiai argomento.
“Mi chiamo Davide. Sono di Bisaccia”
Lo guardai, non l’avevo mai visto. Possibile?
“Mi chiamo Michela. Sono di Milano”
“E come mai qui?”
“Ci vive mia nonna. Io invece ci vengo due volte l’anno, d’estate perché è più fresco e d’inverno per mangiare la neve”
“Cosa? Per mangiare la neve?”
“Si, quando nevica in città mica puoi leccare la neve? Troppo inquinata. Qui da bambina ho imparato che mi piace un sacco mangiare la neve, raccoglierne da un ramo o da un davanzale”
“Non è più buona neanche qui la neve. E poi non nevica più come un tempo!”
Aveva ragione purtroppo.
“Sai qual è la vera assenza oltre il muro?”
“Quale?”
“Alberi. Le alture sono calve, solo pale. È un’invasione.”
“È colpa del vento”
“È colpa dell’uomo che non pianta più alberi. Ricordo il melo cotogno e i susini nel giardino di mia nonna. E poi sì, è colpa anche del vento. Mi chiedo quanto conti questa ingombrante presenza in uno spazio gravido di vuoti e riempito solo di vento?”
“Intendi le ingombranti pale eoliche?”
“Si, proprio loro”
Eravamo passati dal lei al tu, e improvvisamente realizzai di essere insieme ad un perfetto sconosciuto. Allora feci per stendergli la mano, il contatto che avrebbe siglato l’avvenuta conoscenza reciproca. Ma lui non mi vide. Stava guardando il tiglio, l’enorme albero proprio al centro della piazza.
“Bello, vero?” mi chiedeva conferma.
“Certo, un po’ solo”.
Avevo spesso pensato a quel tiglio da secoli piantato lì.
“Si sarà abituato ormai, sono secoli che sta lì. Il tiglio è una pianta molto longeva. Si vede che la solitudine può anche fare bene alle volte”
“Mia nonna se ne lamenta sempre, della solitudine”. Stavo per dirgli qualcos’altro sulla solitudine e su mia nonna, ma Davide cominciò a girare su se stesso, lentamente. Aveva portato una mano alla spalla e l’altra in
avanti assumendo la posizione tipica di chi regge una macchina da presa e, mentre girava, faceva finta di filmare.
Mi chiese di imitarlo. Esitai un istante. Mi sembrava una cosa da matti. Poi pensai che, infondo, eravamo da soli. Nessuno avrebbe potuto ridere. Così mi misi anch’io a girare intorno assumendo l’aria da reporter insieme a quel semi-sconosciuto.
“Prova a guardare tutto in bianco e nero e al rallentatore!” mi suggerì e poi puntò verso il muro: “Lo vedi quel signore?”
Rimasi in silenzio.
“Ma come no?”
Interpretò il mio silenzio come un “No”. Era un tipo strano. Ed io lo stavo assecondando.
Continuò: “È lì, con la giacchetta marrone e la coppola in mano”.
Capii. Stetti al gioco.
“Chi è, cosa fa?” risposi.
“È Zio Franco. Guarda il mare all’orizzonte e pensa al Venezuela. Per otto anni ha lavorato come calzolaio lì. La moglie stava qua ad aspettarlo, ma quando lui è tornato se n’è andata lei. E per sempre. Ora lui vive di nostalgia e di ricordi. E ora guarda, guarda lì seduta all’estremità del muro, quella signorina con la gonna colorata lunga al ginocchio. La vedi?”
“Si, che bella che è!”
“È mia mamma, da giovane. Bella davvero! Ha i capelli lunghi e neri. Non l’ho mai conosciuta con i capelli lunghi, me ne sarei innamorato anch’io forse… Ma…aspetta… quell’uomo all’altra estremità del muro, quello è…”
E con l’indice puntò la parte di muro dove vedeva sua madre e lo percorse per tutta la lunghezza, seguendo la sua curva semicircolare, fino ad indicarmi la parte opposta dello stesso muro, accanto alla fontana.
“…Si quello è mio padre. Che magro che è!! Non sembra neanche lui. Ma che ci fa lì, perché non raggiunge la mamma? Aspetta…ma con chi sta parlando? Cosa fa? Parla col muro?”
Si voltò velocemente verso sua madre e poi ancora verso suo padre.
“Anche la mamma fa la stessa cosa. Ma sono impazziti? Avviciniamoci, andiamo a sentire cosa dicono…” Ci muovemmo come a passo di musica, un po’ di qua e un po’ di là, per intendere quelle parole mute:
Ti amo…Anch’io…Non vedo l’ora di sposarti…E quando arriva quel giorno?….Presto amore, presto.
“Nooo, dai. Che sdolcinati che erano!”
“Non ho capito ma come fanno a sentirsi se sono seduti all’estremità opposte del muro?” chiesi.
“Bè dipende dalla sua forma semicircolare. Quando sei seduto qui e parli rivolto al muro, chi sta seduto dalla parte opposta può sentire perfettamente ogni parola. Sai quanti innamorati devono essersi confessati così il loro amore quando in paese non potevano farsi vedere insieme?”
“Che teneri. Cose d’altri tempi!” esclamai.
“Ascolta, cantano…”
Para para pólle
pane cu re ccepólle
cipolle e ccepullaro
e stu figlio mo care mo care….
“È tua nonna, tu sei sulle sue ginocchia, lì in fondo… su quell’uscio. Ti sta cantando una filastrocca e, dondolandosi sulla sedia, sembra quasi che voglia farti cadere, ma tranquilla non ti lascia! Tu sei piccola e sorridi mentre tua nonna canta…” E continuò la filastrocca:
Para para pólle
pane cu re ccepólle
cipolle e ccepullaro
e stu figlio mo care mo care….
Quando ebbe finito fui quasi dispiaciuta di ammettere: “Non conosco questa filastrocca, ma ricordo un gioco che facevo sempre con mia nonna. Lei nascondeva qualcosa in una delle due mani portandole dietro la schiena, poi me le faceva vedere serrate ed io dovevo cantare una filastrocca che diceva più o meno così: culo culicchio, culo culà apri qua! E se indovinano quale mano era piena vincevo”
“Forse vuoi dire Culu culécchia qua stennécchia culu culà apre qua!”
“Si, proprio così! Bè non sono molto brava a parlare il vostro dialetto”
Intanto continuavamo a guardarci intorno e filmare. Giravamo il nostro cortometraggio improvvisato.
“C’è anche Ze Tumèo!”
“Chi c’è ora??” chiesi sorpresa.
“Ze Tumèo, è un vecchietto di un paese vicino, Lacedonia. Viene sempre qui a Bisaccia al Convento perché è assai devoto a Sant’Antonio. Nonostante zoppichi vistosamente, si fa tutti quei chilometri solo per venire a pregare. Sta uscendo dal portone della Chiesa, girati…”
Mi sembrò di vederlo davvero Zio Tomeo. Me lo figurai tutto magrolino e grigio mentre con le mani sottili stringeva il bastone che ormai era il suo baricentro, con la bocca faceva una smorfia sghemba e negli occhi sorrideva: “Vorrei arrivarci anch’io alla sua età così devota!”.
Avevo perso per un attimo la cognizione del tempo e dello spazio. Eravamo lì a giocare come due bambini. Ed era bello.
“In altri tempi dev’essere stata una piazza affollata!” accennai con un senso di malinconia.
“Neanche te lo immagini!” concluse.
Chiusi per un attimo gli occhi, ma siccome avevo appena smesso di girare su me stessa feci per perdere l’equilibrio. Davide mi afferrò alla vita prima che cadessi. Lo ringraziai. Nel riaprire gli occhi vidi dietro di lui la piazza ancora in bianco e nero, sua madre e suo padre felici e il signore affacciato a quel balcone sulle Puglie, come su un parapetto di una nave, alla ricerca della giovinezza ormai perduta. Zio Tomeo era un’ombra che svaniva inghiottita dal portone della chiesa.
Mi lasciai dondolare dalla filastrocca della nonna e, tra le assenze reali del mare e degli alberi, e queste presenze illusorie, vissi pochi istanti di felicità inattaccabile. Condivisa con un perfetto estraneo.
Il tiglio mi sembrò molto meno solo, come d’altronde il paese meno vuoto.
Bella l’immagine del tiglio che, ancorato alle sue radici, osserva secoli e secoli di trasformazioni.
In un mondo in continua evoluzione, in cui non si fa altro che parlare di globalizzazione, forse bisognerebbe
rallentare un pò e fermarsi ad osservare quanto di bello, sia culturalmente che materialmente, stiamo perdendo e distruggendo.
Chissà forse il tiglio, un giorno, sarà meno solo. Complimenti!
Grazie, hai colto perfettamente il senso del racconto!!
Geniale e profondo, questo racconto è davvero bello. Il tuo modo di scrivere tende alla voglia, nel lettore, di lettura. Complimenti Antonia, condivido pienamente il primo commento. Ti invito, se ti va, a leggere i miei racconti, mi piacerebbe un tuo parere 🙂
Indurre alla voglia di lettura è già un grande risultato suppongo. Grazie Domenico leggerò di certo i tuoi racconti!
Nostalgico e malinconico..la cinepresa immaginaria che filma il passato facendolo tornare attuale è un’idea suggestiva e desiderabile..bello, complimenti!!
Come disse la Ginzburg, lo scrittore vero non deve inventare, basta che si guardi intorno, e testimoni il proprio passaggio sulla terra. Questo deve fare, riportare ciò che gli è stato destino, storia, geografia. Lo hai fatto bene, in bocca al lupo M
Grazie Matteo. A te Margherita, invece, dico grazie per aver citato Natalia Ginzburg, perché mentre leggevo Lessico famigliare e le Piccole virtù avrei voluto anch’io saper fare con le parole quello che lei aveva scelto di fare e che faceva benissimo!
Ciao Antonio.
I racconti sono i mezzi per trasportare il lettore nelle vicende del tempo e lo scrittore che è alla guida deve provare a restituire i sentimenti vissuti.
Il racconto si avvale di un dialogo fitto ed è evocativo di episodi di diversi personaggi, molti sono parenti: genitori, zii, nonna, che ricordano le filastrocche di un tempo.
Brava.
Emanuele.
Ciao Antonia, scusami.
I racconti sono i mezzi per trasportare il lettore nelle vicende del tempo e lo scrittore che è alla guida deve provare a restituire i sentimenti vissuti.
Il tuo racconto si avvale di un dialogo fitto ed è evocativo di episodi di diversi personaggi, molti sono parenti: genitori, zii, nonna, che ricordano le filastrocche di un tempo.
Brava.
Emanuele.
Son certa che ti sia stato da sprone, come succede quando leggiamo cose autentiche ed intramontabili, auguri M
Un modo davvero particolare di raccontare una storia, un capogiro, un girotondo e tante immagini sfuocate e rimesse a fuoco, una girandola di vecchio tipo….. ed ecco che con fare giocoso e pensiero laterale si presenta la bizzarra ispirazione che materializza e avanza! Ed ecco a noi!!!
Bello!
Ringrazio i due Emanuel(i)!!
Storia davvero originale. Ci vuole una fantasia straordinaria a tornare indietro verso un passato in realtà mai conosciuto davvero. Una piazza ripresa in bianco e nero che assume sempre più colore man mano che si popola di gente che sembra averla vissuta davvero.
Un’immagine molto suggestiva!
Veramente originale. Il racconto brilla nel suo bianco e nero evocativo. In bocca al lupo per il concorso.